“Una voce che canta sola / intenerisce la casa o il bosco, / ma può farci sentire ancora più soli, / la voce di due che cantano può già comporre / una melodia da dissipare ogni solitudine, / ma solo la voce di molti, il grande coro, / riempie i cieli e fa palpitare le stelle: / Angeli e Serafini cantano sempre insieme, / i santi pregano e cantano insieme: / Signore, fa’ delle nostre stesse vite / un unico immenso coro di fratelli. Amen”: “. .. a tanto serve
Quando i cristiani spezzano l’unico pane che è il corpo di Cristo, diventano tutti insieme un unico corpo, cioè appunto il Corpo di Cristo (1 Cor. 10, 16s.). Questo è a tal punto vero, che l’intera etica all’interno della Chiesa deriva dal fatto che noi siamo l'uno per l'altro, perché membri dello stesso corpo e tralci della stessa vite.
Nell’Eucaristia, ‘Mensa dei Tre’ nell’evento pasquale, Dio stesso è l'archetipo della Chiesa, che è ‘piena della Trinità’, ‘pluralità di persone e proprio in questo modo Dio è la prima relazione dell’umanità ultima`: “La via verso l’altro passa attraverso Dio, se non c’ è questo tramite della nostra unità, noi restiamo eternamente separati l’uno dall’altro da abissi che neppure la buona volontà può superare” (J. Ratzinger).
A partire dalla Pentecoste, l’azione dolce, forte e deter-minante dello Spirito Santo nei nostri cuori, è la risposta piena e concreta alla ‘domanda fondamentale: Come possiamo giungere gli uni agli altri? Come è possibile che io rimanga me stesso, rispetti l’alterità dell’altro e tuttavia esca dalla gabbia della solitudine e incontri l’altro dal di dentro’ (J. Ratzinger). Ecco,
1. VITA MONASTICA, BELLEZZA DELLA CHIESA
“Fa’, o Signore, che il nostro vivere insieme sia sotto il segno della tua prima Chiesa / Insieme nella preghiera e nel lavoro, insieme nel silenzio contemplativo e nella Frazione dei Pane / Insieme nel dividere i frutti del nostro lavoro, insieme nel condividere i doni dello Spirito / Insieme nell’attesa del tuo regno, insieme nel pacifico lavoro che accelera la tua venuta, / Amen, Marana tha”.
Per l’intervallo che separa l’ascensione dal suo ritorno, il Signore Gesù ha lasciato un comandamento nuovo, quello della carità fraterna, che, mediante lo Spirito Santo, ‘sgorga da cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera’ (1 Tim. 1, 5). E così, negli Atti degli Apostoli leggiamo: “I fedeli non avevano che un cuore solo e un’anima sola” (At. 4, 32), e si gusta ‘quant’è buono, quanto è dolce che i fratelli vivano insieme’ (Sal. 132).
Il monastero è, fin dagli inizi della storia della Chiesa, “una comunità in cammino alla ricerca di Dio e della sua santità, una famiglia sovrannaturale consacrata all’ascolto della Parola di Dio e alla celebrazione della sua gloria nella divina liturgia. Così si forgia il volto della comunità e si fa convergere in unum personalità in partenza molto diverse, senza per questo appiattirle, ma, al contrario, potenziandole” (G. Dossetti, in M. Gallo, Una comunità nata dalla Bibbia, p. 11), perché “il luogo della comunità è il cuore dell’uomo; tutti sono in te e tu in tutti” (D. Barsotti, Fissi gli occhi nel sole, p. 237).
In effetti, fin dalle origini, il monachesimo prolunga la dolce e forte esperienza della Chiesa primitiva perché ‘il fervore di questa fraternità è passato a quelli che li hanno seguiti. Lo sappiamo, fratelli, e ne benediciamo il Signore’ (S. Agostino): “Noi, fratelli. che siamo membra gli uni degli altri, figli di Dio, tralci della stessa vite, pecore del gregge spirituale che il vero Pastore ha radunato. A noi sono state date la carità e la pace. Ci è stata consegnata la generosità e la disponibilità nel sentirci fratelli. Amiamo gli uomini e noi saremo amici di Gesù, amico degli uomini” (S. Pacomio, Cat. I, 37, 44).
La vita dei monaci, nella ‘schiera fraterna’, non è una semplice convivenza impersonale, ma uno ‘stare insieme’ che coinvolge anima e corpo, non secondo un modello di natura sociologica, ma sull’esemplarità e ispirazione della prima comunità di Gerusalemme (RB, Prol. 45-50; 1, 2; 33, 6; 34, 6; 3 4, 1-2), per cui la comunità monastica non è una moltitudine ma ‘un cuor solo e un'anima sola,’ (At. 4,32), una ‘comunità’, costruita con libero e cosciente contributo di ogni suo membro (RB 1, 3 -5), liberato da ogni ricerca di successo personale (RB 7, 55).
2. COMUNIONE DI VITA NELL’AGAPE
“Com’è buono e soave che i fratelli vivano insieme!, queste parole del Salmo, questa dolce melodia, questo canto armonioso, musica e spirito, hanno dato origine ai monasteri. Questo canto ha provocato dei fratelli a vivere insieme. Questo versetto li ha convocati come un suono di tromba, è risuonato per tutta la terra e quelli che erano divisi si sono riuniti. Clamore di Dio, clamore di Spirito Santo, clamore dei profeti, che non si limitano alla Giudea, ma si è diffuso sulla faccia della terra” (S. Agostino, cit. in I Salmi pregati da S. Agostino, pp. 80-81).
La storia monastica è un mirabile ininterrotto commento concreto a questo breve prezioso salmo 133, frequentemente citato nei testi a sottolineare la ‘comunione di vita’ (Cf. RB 5, 12), pensiero centrale già del monachesimo di Pacomio che, giovane soldato, trova la via alla fede cristiana e alla vocazione monastica nell’esperienza della carità disinteressata e dell’accoglienza ospitale da parte di alcuni cristiani di una città egiziana (Vita Pachomii (lat.), 4). Orsiesii, secondo successore di Pacomio, non soltanto dice che ‘il padre (Pacomio) per primo fondò la koinonia’ (Liber Orsiesii, 12), ma spiega anche che essa è ‘1uogo di comunione’ (Koinonia): “Che la nostra comunità e la koinonia, con la quale ci uniamo gli uni agli altri vengano da Dio, ce lo ha insegnato l’Apostolo quando dice: ‘Non dimenticatevi delle opere buone e della koinonia, perché di tali sacrifici Dio si compiace’ (Eb. 13, 16; cf. At. 4, 32). Da allora i monaci ‘custodiscono questo deposito’ (cf. 1 Tim. 6, 20) e lo trasmettono perché dobbiamo amarci a vicenda e mostrare che siamo veramente servi del Nostro Signore Gesù Cristo, figli di Pacomio e discepoli della koinonia” (Liber Orsiesii, 23).
È un tesoro che lo Spirito Santo non lascerà mai mancare alla Chiesa, anche se raro, come constata con un ‘ohimè’ Cassiano rispetto al suo modello, la prima comunità di Gerusalemme (At. 4, 32-35, 2, 45: Cassiano , Conl., 18, 5), alla quale anche S. Agostino sempre si riferisce come esempio e ispirazione della vita monastica nella sua Chiesa (Agostino, Discorso 356, 1-2).
Illuminato dai suoi due grandi maestri, Cassiano e Agostino, anche S. Benedetto si aggancia all’esperienza gerosolimitana (RB, Prol. 50; 31, 8-9; 33, 6) e sviluppa il tema dell’amore fraterno solo nei capitoli conclusivi della Regola perché appaia quale meta di tutto il cammino che conduce a Dio (RB 68, 4-5; 70, 6-7; 71, 14; 72).
Se S. Agostino ha detto, come si è visto, che il primo versetto del Salmo 133: ‘Come è buono e soave che i fratelli vivano insieme’ ha dato origine ai monasteri è perché la disposizione alla concordia, all’amore, alla gioia é il fondamento di ogni vita cristiana, per cui davvero la carità basta a fare il monaco, come afferma esplicitamente la tradizione, quasi cemento della vita cenobitica, nella quale, divenuti concorporei (Ef. 3) con Cristo grazie alla comunione al suo corpo, i monaci sono anche unanimi (Fil. 2, 2), formano un’unica anima tra loro: “Nel monastero, ove tutti sono approdati liberamente per offrire sé stessi in ‘olocausto spirituale’, l’altro non è ‘il mio inferno’, ma la luce di Cristo me lo rende ‘prossimo’, fratello e figlio dello stesso Padre divino, ‘membro da membro’ (1 Cor. 12, 27) del Corpo di Cristo” (Emiliano di Simonos Petra, Son diventato, nella notte, luce, in AA. VV., Voci dal Monte Athos, p. 90). Nella vita monastica “non vi è ragione per antagonismi, perché non c’è nulla di mio o di tuo, ma tutto è comune. Persino il progresso spirituale e i carismi divini di uno diventano il vanto comune del Corpo e la consolazione delle membra che soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui (1 Cor. 12, 26)” (Ivi, p. 90).
3. SCUOLA DEL SIGNORE, SCUOLA DI CARITÀ
“Vivete dunque tutti unanimi e concordi e onorate l’uno nell’altro quel Dio di cui siete diventati tempio” (S. Agostino, Præcepta-Regola di Agostino 1, 6-8; RB 34, 3-5; 55, 20-22; Regola di Cesario per le vergini, 21).
S. Benedetto intende il monastero ‘scuola del Signore’ (RB, Prol. 45-50), istituita nel cuore stesso della Chiesa (RB, Prol. 50; 1, 2) come una ‘scuola di carità’, che ‘da sola vale tutte le pratiche e le osservanze’ (Baba Batra, 9a), così che ‘1a preservazione della carità’ (RB, Prol., 47) è uno dei criteri fondamentali di ogni Regola monastica e il segreto del buon livello spirituale di una comunità, perché ‘l’anima dei monaco è guarita dalla preghiera e la guarigione si manifesta nelle opere di carità’ (Iperechio, Consigli agli asceti, c.
Tra le leggi della storia sacra c’è quella della ‘salvezza in comunità sotto un capo responsabile’ nella grazia di Cristo, nello Spirito dell’amore del Padre. C’è quindi una tensione dialettica tra persona e comunità, tra solitudine e comunione, e Bonhöffer nel suo ‘Vita comune’ parla dei ministeri necessari alla comunità e conclude che “esclusivamente nella comunione riusciamo a essere soli, ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere nella comunione. Sono due cose interdipendenti”. Un’analisi analoga, più specificamente monastica, in Merton: “Anche nella comunità ci deve essere una certa quiete, non solo uno stare insieme e chiacchierare senza controllo, che non significa nulla. Il monachesimo implica una certa distanza, alla quale poi uno può avvicinarsi e non semplicemente immersione in una vicinanza confusa, nella quale non ci sono più persone, ma solo una massa di oggetti che si muovono e parlano” (T. Merton, Il contemplativo e l’ateo, p. 73-74).
Qui si pone propriamente il mistero monastico, che si identifica con il senso mistico della vita cristiana di grazia battesimale ed eucaristica nell’evento pasquale trinitario, mistero di rivelazione e santificazione nella Carità che è Dio, che è Tre, come si è detto, e che inabita nella sua creatura. In effetti, al cuore della persona, immagine di Dio per la somiglianza in lode della sua gloria, c’è ‘la sua unione profonda e segreta col suo Dio, lo sposo, che corrisponde al suo nome segreto ed eterno. Certamente siamo fatti per essere un nutrimento gli uni degli altri (e ognuno è una forma diversa di nutrimento), ma siamo fatti soprattutto per vivere questa relazione unica con il Padre nel suo Figlio Gesù’ (J. Vanier,
Questa è la pienezza e il frutto maturo della vita monastica nella ‘scuola del Signore scuola della Carità’: “Tu che dormi nel mio petto non ti si incontra con le parole, ma nell’emergere della vita dentro la vita e della sapienza dentro la sapienza. Con te non c’é più nessun dialogo, nessuna contesa, nessuna opposizione! Tu in me e io in te, tu in loro e loro in me: spogliamento nello spogliamento, distacco nel distacco, vuoto nel vuoto, libertà nella libertà. Il Padre e io siamo una cosa sola” (T. Merton, Entering the Silence, 488). Tutto, nella Regola di S. Benedetto, tende a preparare il monaco a questa esperienza di grazia, favorendo la ‘pace dell’anima’ (RB 7, 62-66. 67-70), evitando ogni ‘tri-stezza’ (RB 31, 3-7), perché il monastero sia ‘casa di Dio’ (RB 31, 19; 31, 10-12) per l’incontro dei figli col Padre.
4. ASCESI MONASTICA, SPIRITO DI SERVIZIO
“Io chiamo perfettissima la comunione di vita in cui è bandito il possesso personale, rimosso lo scontro di opinioni, schiacciato sul nascere ogni tipo di scompiglio, di rissa, di contesa, una vita in cui tutto é comune: anime, pensieri, corpi, cibo e medicine; in cui Dio è comune, comune il bene della pietà, comune la salvezza, comuni le lotte, comuni gli sforzi, comuni le corone; una vita in cui molti sono uno e l’uno non è solo ma fra tanti. Cosa è pari a tale genere di vita, cosa vi è di più beato? Servi gli uni degli altri, padroni gli uni degli altri, pieni di quell’amore che sottomette i liberi gli uni agli altri” (S. Bemardo, cìt. in Dubois, Passione estrema per l’assoluto, p. 59)
S. Benedetto, contrapponendo ‘zelo amaro’ e ‘zelo buono’ intende parlare del ‘buon zelo dello Spirito Santo’ (S. Cesario, Regola delle Vergini, 65), cioè dell’'amore, ‘il buon zelo che i nonaci devono avere’ (RB 73), cioè quell’amore ardente’ (RB 71, 1-4) che porta a Dio e consiste, come suggerisce Cassiano, in una ‘pazienza’ eroica, che ‘non sta soltanto sulle labbra’ ma ‘dimora nel profondo santuario della nostra anima’. Il suo è di aiutare il fratello a ritrovare la pace interiore, ossia ‘vincere il male con il bene’ (Rom. 12, 21; Cassiano, Conl. 16, 22).
In effetti, il monaco è “un uomo dì solitudine che è sempre con gli altri, tutti gli altri che incontra nel monastero. I primi segni della vita contemplativa nascono attraverso questa fraternità che offre una infinità di occasioni dì perdere il proprio egoismo, il proprio individualismo. Dio non chiede di guardarlo negli occhi se non sappiamo vedere lo sguardo degli altri” (Dubois, Passione estrema per l’assoluto, p. 51).
Per il monaco che vive in comunità e comunione fraterna, l’evangelico rinnegamento della propria anima è fatto coincidere
con la consegna di sé alla fraternità, che ha la sua quotidiana verifica nella sottomissione reciproca nella libertà dell’amore: “Tutta l’antropologia dell’Evangelo e del Nuovo Testamento può essere condensata in due termini: eleutheria e agape, libertà e amore. L’uomo del Nuovo Testamento è un uomo reso libero per amare Dio e i fratelli” (G. Dossetti, La parola e il silenzio, Bologna, 1997, p. 349), un amore che porta alla salvezza perché amore di Cristo (Rom. 8, 35; Act. 4, 12).
In questa grazia di libertà e di amore, “ognuno vive nel monastero con la coscienza di essere là solo per servire i fratelli che deve amare più di sé stesso, così come Gesù ci ha amato” (D. Barsotti), e, se siamo attenti, effettivamente, ‘nella nostra giornata monastica c’è una catena ininterrotta di queste possibilità: la scelta tra l’utile mio e l’utile di un altro, o di tutti gli altri, nell’assoluta dimenticanza di sé (RB, 72, 7), in quella ‘carità apostolica’ che è amore oblativo, unicamente preoccupato del vantaggio altrui (Cassiano, Conl., 16, 22). Modello di questa sollecitudine nel servizio gratuito dei fratelli altro non è che il solo Gesù nel suo annientamento e nella sua totale dedizione (RB 5, 10-13; 7, 5-9.31-32.34.51-54; 33, 4; 35, 1-3; 38, 10-
Un monastero non è una comunità alternativa nel senso di comunità perfetta, bensì comunità in cui ci si ama, ci si comprende, ci si sopporta, in cui si perdona molto. Nella risposta di Gesù a Pietro: “Non ti dico di perdonare fino a sette ma fino a settanta volte sette” (Mt. 18, 22) si dice se perdoniamo così ogni giorno, perdoniamo di fatto ogni tre minuti, per cui comunità ideale è quella in cui ci si perdona ogni tre minuti, e si esperimenta come sia bello il perdono, riflesso di Dio che è Carità. Il livello spirituale di un monastero perciò “non si misura né sulla qualità della sua liturgia, sul suo irradiamento apparente, né sulle sue vocazioni: si misura nella qualità della riconciliazione e sulla relazione tra fratelli. Quello che Dio ha nel cuore deve passare nel nostro: la misericordia” (Dubois, Passione estrema per l’assoluto, p. 60) per cui, “se ti capita di litigare con un fratello che ti ha fatto soffrire, se il tuo cuore ferisce un fratello, se nella tua mente cresce l’antipatia e sei in contesa, piangi solo a solo con il Cristo e lo Spirito di Gesù parlerà alla tua mente e ti farà comprendere la pienezza del comandamento nuovo” (S. Pacomio).
Per viverlo pienamente con fedeltà fino alla fine, è necessaria “l’umiltà interiore che fa stimare se stesso come l’ultimo e il più piccolo di tutti, e il silenzio interiore che fa evitare molti peccati e ci permette di ignorare le imperfezioni altrui” (A. M. Caneva, Il riformatore della Trappa, p. 124). Proprio questa umiltà e piccolezza mette in azione il prezioso carisma monastico della vicendevole correzione fraterna, perché fa “guardar con fede ogni membro della comunità come se fosse da Gesù Cristo incaricato di addestrarci e di formarci”: “Dite a voi stessi che siete entrato in convento per esservi lavorato, come si scalpella una pietra per adattarla ad una costruzione. Con questo pensiero, voi non vedrete in tutti i confratelli che operai messi da Dio vicino a voi per sbozzarvi e perfezionarvi per mezzo della mortificazione” (S. Giovanni della Croce, Quattro avvisi a un religioso, seguito del volume: La salita al Carmelo, V. II, p. 181).
In questa alleanza con i fratelli, il monaco cresce in quella stabilità senza la quale non possiamo affrontare le questioni più fondamentali della vita, e nemmeno conoscere il nostro vero ‘io’: “La stabilità monastica è l’accettazione di questa comunità, di questo luogo, con queste persone e non altre, come cammino verso Dio” (Ester de Waal), e, in questa luce di grazia, “si entra in una comunità per essere felici. Ci si ferma per rendere felici gli altri” (J. Vanier, La comunità. Luogo del perdono e della festa, p. 97), perché ‘l’amore è una potenza unificatrice’, dice Dionigi l’Areopagita.
5. VIA MONASTICA DI UMILTÀ E POVERTÀ
“La povertà è parte essenziale dello stato religioso, non solo perché è richiesta per rompere l’attaccamento ai beni di questo mondo, aspetto puramente negativo, ma perché è un mezzo d’amare Dio e il prossimo come gli apostoli amavano Cristo e si amavano tra di loro”.
Povertà e umile carità, due condizioni essenziali e costitutive della vita monastica nel cuore della Chiesa, sposa dell’Agnello e serva del Vangelo. Il mettere in comune i beni rende possibile un amore più grande: “La divisione causa sempre una diminuzione di patrimonio; la concordia e l’intesa l’aumentano. così ora nei monasteri si vive ancora come vivevano i fedeli della Chiesa primitiva (S. Giovanni Crisostomo, In Act. XI, 4, PG 60, 97)” (J. Leclercq, La vita perfetta, p. 94).
Le beatitudini evangeliche conferiscono una dignità regale al cristiano che, come un saggio sa accontentarsi di poco (S. Basilio, Hom De ieiunio 1, 3), perché la felicità umana non consiste nel possedere e consumare molto, ma nell’avere pochi bisogni e soddisfarli a poca spesa, l’ideale monastico della frugalitas o parcitas (cfr. RB 39,10; 40, 6; 34, 48). Questo proposito di vivere in piccolo ha per radice l’amore biblico della povertà (cfr. Fil. 4, 12; 1 Ts. 6, 6-10), che esige, per esempio, un nutrimento semplice e poco costoso. Così “il modo di vivere dei monaci è semplice e frugale. Che tutto nella casa di Dio sia in armonia con quel genere di vita nel quale il superfluo non ha parte alcuna, in modo che la sua stessa semplicità possa essere un insegnamento per tutti. Che questa semplicità appaia chiaramente negli edifici, nel mobilio, nel cibo e nell’abbigliamento, perfino nella celebrazione liturgica “ (Costituzioni Trappiste, n. 27) .
S. Benedetto invita successivamente ad ‘amare il digiuno’ e ‘ristorare i poveri’ (RB 4, 13-14), ed è evidente un legame di causa ed effetto tra questi due ‘strumenti’ posti in stretta succes- sione. E proprio S. Benedetto è molto attento ai poveri, e così l’ultima categoria di cui parla nel capitolo sull’ospitalità è quella dei poveri (RB 53, 15) che figurano già, insieme agli ospiti, tra coloro di cui il cellerario deve avere cura particolare (RB 31, 9), distribuendo loro cibo e indumenti (RB 55, 9). Ma il passo più rilevante è quello in cui S. Benedetto domanda al portinaio di rispondere “Con ogni mansuetudine ispirata dal timore di Dio, sollecitamente, con fervore di carità, appena qualcuno busserà o un povero chiamerà” (RB 66, 3-4), Si manifesta qui, in modo forte, il personale costante desiderio che S. Benedetto ha di ‘onorare tutti gli uomini’.
La beatitudine di chi ha fame e sete di giustizia è un pressante appello del Signore a tutta
Ci si deve sempre chiedere come possa essere credibile la povertà monastica ed è ovvio che “sui beni del monastero grava una ‘ipoteca missionaria’, cioè invece di paramenti costosi, grandi campane e organi ecc. niente affatto necessari per l’efficacia reale della liturgia, si impieghino i mezzi disponibili per le tante necessità e iniziative delle missioni. Non è bene investire capitali in campi, boschi, officine, birrerie ecc. I monasteri ricchi dovrebbero sorreggere le iniziative di quelli volenterosi ma meno provvisti di mezzi” (B. Borghini, Studi sulla povertà, in Vita monastica 21 (1967) 184).
Anche se la solidarietà monastica non si esprimerà in diretti interventi sociali o specifiche attività pastorali, un monastero evangelicamente povero dovrà essere, ogni giorno di più, un tempo e uno spazio per l’ascolto e la compassione, irraggiando la consolazione con cui il Signore conforta il suo popolo, nella sua Chiesa, comunità eucaristica e fraterna di grazia e di amore per la speranza di ogni uomo e di tutto l’uomo.
CONCLUSIONE COME PROPOSITO
“Non dobbiamo occuparci della cronaca ma della storia sì, con tutta la vigilanza della preghiera e del cuore e, cioè, dei grandi drammi dell'umanità del nostro tempo: l'ingiustizia, la fame, l'oppressione, il buio della fede, la fatica della ricerca di verità e di luce, il dramma delle Chiese divise, dei popoli che non hanno ancora ricevuto l'annuncio del Vangelo” (G. Dossetti, in M. Gallo, Una comunità nata dalla Bibbia, p. 11).
Il futuro della vita monastica non è e non sarà un semplice prolungamento del passato, ma un adventus, come è di tutto ciò che riguarda il Regno di Dio che viene, di tutto ciò che appartiene al mistero di Cristo, ‘colui che viene’. La vera tradizione monastica è capace di creare osservanze nuove, in seno a comunità vive ed entusiaste: “Avanti o indietro, dunque? Dentro - fu la risposta che mi diede il piccolo San Placido”. Ecco allora che quando i nostri ‘eremiti’ parlano per TV, quando i nostri ‘maestri spirituali’ vanno e vengono dal Deserto in jet, quando il monaco ‘fa notizia’ sui rotocalchi, quando le preghiere gremiscono gli stadi, c’è da temere. C’è da temere che la vita interiore non sia ancora abbastanza interiore, non abbia cioè ancora inghiottito tutto il nostro essere...” (Piero Gribaudi).
È necessario un ritorno convinto alla Regola. per ‘bere a quella roccia spirituale che ci segue’ (1 Cor. 10, 4), con una osservanza ‘letterale’, senza la quale è illusione sperare di poterne avere lo spirito, per cui, se si abbandonano le osservanze concrete, non si può più parlare di monachesimo: “È con
Se sarà un vero monaco, anche ai nostri giorni, il monaco non sarà un isolato e un egoista, un ‘monaco in pelliccia’, come Reb Mendel di Tomaszov diceva di un noto sapiente che gli sembrava un ‘rabbino in pelliccia’, perché di fronte al problema del freddo aveva trovato la soluzione della pelliccia, che riscaldava solo lui, mentre se avesse acceso un fuoco anche altri ne sarebbero stati riscaldati (J. Langer, Le nove porte, p. 239): sarà invece ‘tutto fuoco’ come volevano i Padri del deserto, quel ‘fuoco che non dice mai basta’ e che Gesù è venuto a gettare nel mondo e che è lui stesso: “Chi s’avvicina a me, s’avvicina al fuoco” (Agraphon). “Anche i religiosi contemplativi e di clau-sura, forse questi in modo speciale, devono essere intonati ai problemi più profondi dell’uomo contemporaneo. Essi devono mantenere la loro unica prospettiva, che solo la solitudine può dare, e dalla posizione di vantaggio devono capire l’angoscia del mondo e condividerla nel loro modo” (Th. Merton).
L’unità di questi due momenti della vita monastica, dipende da una concreta cristologia, che insegna al monaco e al mona-stero a ‘niente anteporre all’amore Cristo’, sapendo riconoscere la sua presenza reale dovunque egli sia e come sia, nella sua vera umanità come nella sua divinità, sia dentro che fuori il monastero. Cosi il monaco è colui che sa riconoscere bene e vivere ‘1a verità eterna e la realtà del presente’, e così incontra nel totale mistero di Cristo, quel Dio che cerca con tutte le forze, e “se noi amiamo veramente il mondo reale con tutti i suoi orrori, se osiamo allacciarlo con le braccia del nostro spirito, le nostre mani incontreranno le mani che reggono il mondo” (M. Buber).
p. Giuseppe Anelli osb
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