4. ASCESI MONASTICA, SPIRITO DI SERVIZIO
“Io chiamo perfettissima la comunione di vita in cui è bandito il possesso personale, rimosso lo scontro di opinioni, schiacciato sul nascere ogni tipo di scompiglio, di rissa, di contesa, una vita in cui tutto é comune: anime, pensieri, corpi, cibo e medicine; in cui Dio è comune, comune il bene della pietà, comune la salvezza, comuni le lotte, comuni gli sforzi, comuni le corone; una vita in cui molti sono uno e l’uno non è solo ma fra tanti. Cosa è pari a tale genere di vita, cosa vi è di più beato? Servi gli uni degli altri, padroni gli uni degli altri, pieni di quell’amore che sottomette i liberi gli uni agli altri” (S. Bemardo, cìt. in Dubois, Passione estrema per l’assoluto, p. 59)
S. Benedetto, contrapponendo ‘zelo amaro’ e ‘zelo buono’ intende parlare del ‘buon zelo dello Spirito Santo’ (S. Cesario, Regola delle Vergini, 65), cioè dell’'amore, ‘il buon zelo che i nonaci devono avere’ (RB 73), cioè quell’amore ardente’ (RB 71, 1-4) che porta a Dio e consiste, come suggerisce Cassiano, in una ‘pazienza’ eroica, che ‘non sta soltanto sulle labbra’ ma ‘dimora nel profondo santuario della nostra anima’. Il suo è di aiutare il fratello a ritrovare la pace interiore, ossia ‘vincere il male con il bene’ (Rom. 12, 21; Cassiano, Conl. 16, 22).
In effetti, il monaco è “un uomo dì solitudine che è sempre con gli altri, tutti gli altri che incontra nel monastero. I primi segni della vita contemplativa nascono attraverso questa fraternità che offre una infinità di occasioni dì perdere il proprio egoismo, il proprio individualismo. Dio non chiede di guardarlo negli occhi se non sappiamo vedere lo sguardo degli altri” (Dubois, Passione estrema per l’assoluto, p. 51).
Per il monaco che vive in comunità e comunione fraterna, l’evangelico rinnegamento della propria anima è fatto coincidere
con la consegna di sé alla fraternità, che ha la sua quotidiana verifica nella sottomissione reciproca nella libertà dell’amore: “Tutta l’antropologia dell’Evangelo e del Nuovo Testamento può essere condensata in due termini: eleutheria e agape, libertà e amore. L’uomo del Nuovo Testamento è un uomo reso libero per amare Dio e i fratelli” (G. Dossetti, La parola e il silenzio, Bologna, 1997, p. 349), un amore che porta alla salvezza perché amore di Cristo (Rom. 8, 35; Act. 4, 12).
In questa grazia di libertà e di amore, “ognuno vive nel monastero con la coscienza di essere là solo per servire i fratelli che deve amare più di sé stesso, così come Gesù ci ha amato” (D. Barsotti), e, se siamo attenti, effettivamente, ‘nella nostra giornata monastica c’è una catena ininterrotta di queste possibilità: la scelta tra l’utile mio e l’utile di un altro, o di tutti gli altri, nell’assoluta dimenticanza di sé (RB, 72, 7), in quella ‘carità apostolica’ che è amore oblativo, unicamente preoccupato del vantaggio altrui (Cassiano, Conl., 16, 22). Modello di questa sollecitudine nel servizio gratuito dei fratelli altro non è che il solo Gesù nel suo annientamento e nella sua totale dedizione (RB 5, 10-13; 7, 5-9.31-32.34.51-54; 33, 4; 35, 1-3; 38, 10-
Un monastero non è una comunità alternativa nel senso di comunità perfetta, bensì comunità in cui ci si ama, ci si comprende, ci si sopporta, in cui si perdona molto. Nella risposta di Gesù a Pietro: “Non ti dico di perdonare fino a sette ma fino a settanta volte sette” (Mt. 18, 22) si dice se perdoniamo così ogni giorno, perdoniamo di fatto ogni tre minuti, per cui comunità ideale è quella in cui ci si perdona ogni tre minuti, e si esperimenta come sia bello il perdono, riflesso di Dio che è Carità. Il livello spirituale di un monastero perciò “non si misura né sulla qualità della sua liturgia, sul suo irradiamento apparente, né sulle sue vocazioni: si misura nella qualità della riconciliazione e sulla relazione tra fratelli. Quello che Dio ha nel cuore deve passare nel nostro: la misericordia” (Dubois, Passione estrema per l’assoluto, p. 60) per cui, “se ti capita di litigare con un fratello che ti ha fatto soffrire, se il tuo cuore ferisce un fratello, se nella tua mente cresce l’antipatia e sei in contesa, piangi solo a solo con il Cristo e lo Spirito di Gesù parlerà alla tua mente e ti farà comprendere la pienezza del comandamento nuovo” (S. Pacomio).
Per viverlo pienamente con fedeltà fino alla fine, è necessaria “l’umiltà interiore che fa stimare se stesso come l’ultimo e il più piccolo di tutti, e il silenzio interiore che fa evitare molti peccati e ci permette di ignorare le imperfezioni altrui” (A. M. Caneva, Il riformatore della Trappa, p. 124). Proprio questa umiltà e piccolezza mette in azione il prezioso carisma monastico della vicendevole correzione fraterna, perché fa “guardar con fede ogni membro della comunità come se fosse da Gesù Cristo incaricato di addestrarci e di formarci”: “Dite a voi stessi che siete entrato in convento per esservi lavorato, come si scalpella una pietra per adattarla ad una costruzione. Con questo pensiero, voi non vedrete in tutti i confratelli che operai messi da Dio vicino a voi per sbozzarvi e perfezionarvi per mezzo della mortificazione” (S. Giovanni della Croce, Quattro avvisi a un religioso, seguito del volume: La salita al Carmelo, V. II, p. 181).
In questa alleanza con i fratelli, il monaco cresce in quella stabilità senza la quale non possiamo affrontare le questioni più fondamentali della vita, e nemmeno conoscere il nostro vero ‘io’: “La stabilità monastica è l’accettazione di questa comunità, di questo luogo, con queste persone e non altre, come cammino verso Dio” (Ester de Waal), e, in questa luce di grazia, “si entra in una comunità per essere felici. Ci si ferma per rendere felici gli altri” (J. Vanier, La comunità. Luogo del perdono e della festa, p. 97), perché ‘l’amore è una potenza unificatrice’, dice Dionigi l’Areopagita.
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