Dopo aver vissuto talvolta lunghi anni nella sua comunità, un monaco può sentirsi chiamato ad andare nel deserto e a vivere in una solitudine più radicale e più marcata. Durante i suoi anni di vita comunitaria ha dovuto spesso sostenere un combattimento quasi continuo contro le forze del male che l'assalivano, contro ciò che gli Antichi chiamavano le "malattie del cuore" e che assomigliavano stranamente a ciò che i monaci moderni si scoprono capaci di subire, a quelle cattive tendenze contro le quali ogni monaco deve lottare.
Inabissandosi nella solitudine, sarà liberato da questo combattimento? Ormai solo con il Solo, potrà gustare questa pace del cuore che segue in generale i duri combattimenti? San Benedetto, infatti, col suo abituale realismo e la sua esperienza personale non vuole lasciare nell'illusione colui che va nel deserto e non esita ad avvertirlo:
"Il secondo [genere di monaci] è quello degli anacoreti, o eremiti. Questi, non per un facile fervore, com’è proprio dei principianti, ma per una prolungata e matura esperienza acquisita in monastero, con il sostegno dei fratelli, sono divenuti esperti nella lotta contro il maligno. Bene esercitati nella vita comune con i fratelli per lottare poi da soli nel deserto, sono ormai forti e pronti a combattere – unicamente con l’aiuto di Dio – contro i vizi della carne e dello spirito”.
Nella vita comunitaria, nell' "esercito fraterno" il monaco deve, dunque, sostenere un duro combattimento; se, infatti, è vero che "è bello e dolce vivere insieme ed essere uniti"(sal 132), l'esperienza dimostra che vivere con dei fratelli, nello stesso ambiente, in uno spazio ridotto, provoca al tempo stesso gioie e sofferenze, pace e lacerazioni. La realtà, dunque, si impone: solo o con altri, il monaco è sempre un combattente. Egli sostiene un combattimento che lo può definire: farsi monaco significa entrare in una forma di vita che è quella di un combattimento da cui non sarà possibile uscire se non con la morte. E la morte stessa ha talora il volto di un estremo combattimento.
Combattere è preferire
Qual è, dunque, il combattimento che ogni monaco deve sostenere, sia egli solo o in comunità? Quando, obbedendo a un richiamo interiore irresistibile, è entrato nella vita monastica egli ha trovato questa massima di san Benedetto: "non preferire assolutamente nulla al Cristo" (RB 4,21) ed ha subito capito che gli era così fornito il programma di tutta la sua vita.
Essere monaco è decidere di avere una preferenza: il Cristo e il suo amore. Si tratta dunque di una decisione che, in capo ad alcuni anni, assume la forma di una professione: davanti all'assemblea liturgica il monaco professa solennemente che ormai "per lui vivere è Cristo" (cf. Fil 1,21). Egli ha avuto tempo di verificare la sua capacità di vivere tale preferenza. Ha certo scoperto la sua fragilità, la sua debolezza; si è anche scoperto radicalmente peccatore, ma non può esitare nella scelta libera e cosciente, nella sua decisione ferma e meditata: ormai potrà, dunque, definirsi e presentarsi come colui che ha deciso di non preferire assolutamente nulla al Cristo.
L'insieme delle osservanze tradizionali che strutturano la sua vita, le varie "obbedienze" e gli incarichi che egli sta per assumersi come segni liberatori della sua obbedienza, tutto questo forma il quadro del suo impegno: liturgia delle ore, lectio divina, lavoro manuale, servizi comunitari, accoglienza degli ospiti; il tutto vissuto in una certa presa di distanza dal mondo, presa di distanza che potrà anche portarlo a condurre più tardi una vita eremitica.
Il combattimento del pellegrino
Orbene, questo monaco può trovarsi, in circostanze imprevedibili, di fronte alla più terribile delle tentazioni: quella di scoprire che forse sta per cessare di non preferire più assolutamente nulla al Cristo. Ciò che gli sembrava veramente impossibile al momento di quella professione proclamata con gioia davanti all'assemblea, perché sinceramente radicata nel più profondo del suo cuore, ha lasciato il posto in lui a una lieve musica interiore che chiama subdolamente all'infedeltà.
Le forme di questa tentazione sono molteplici: per l'uno sarà l'obbedienza diventata non solo difficile, ma semplicemente impossibile, cosa che san Benedetto ha del resto previsto (RB 68); per l'altro sarà la castità nel celibato che diventa un peso così gravoso da portare che egli è tentato di lasciarsi cadere le braccia, soprattutto quando la stessa preghiera è diventata una prova quasi insopportabile; per un altro ancora sarà la stanchezza nella ricerca di Dio e quel disgusto della lectio divina o della preghiera che i Padri chiamavano acédia. Coloro che partecipano a un Ufficio liturgico in un monastero probabilmente non immaginano quale forza morale è talvolta necessaria a un monaco per restare al suo posto in coro. Ci sono, infatti, dei momenti in cui i salmi, per esempio, sembrano completamente estranei all'esperienza spirituale che si vive, e allora bisogna resistere.
Questi momenti di tentazione, spesso sconcertanti, sono infatti per il monaco occasione per lasciarsi condurre verso il luogo in cui lo Spirito Santo l'attende: il luogo del cuore. Bisogna diventare il pellegrino del proprio cuore e spesso la tentazione è un mezzo privilegiato di cui il Signore stesso sembra servirsi per condurre colui che lo segue a penetrare in se stesso, come è detto del figliol prodigo che, nella sua miseria, “rientrò in se stesso” (Lc 15,17). Ogni sorta di sete che la tentazione rivela – sete di potere, d’autonomia, di tenerezza e di libertà – l’attirano a poco a poco verso la radice del suo essere, verso un desiderio d’amore che sorge da profondità prima sconosciute. Fino a qual momento egli viveva alla periferia di se steso, ma la prova lo costringe a entrare nel profondo di se stesso e a scoprirsi abitato e atteso da una presenza che non è nientemeno che l’Amore. Egli scopre, così, che un Altro scava in lui uno spazio per versarvi senza fine il suo amore e la sua gioia.
Orbene, l’amore è luce e il monaco è condotto a capire che egli non possiede ancora – o meglio, che non ha ancora ricevuto – ciò che tutta la tradizione ha considerato come il fine ultimo della vita monastica: la purezza del cuore. Egli prende coscienza che questo cuore, finalmente scoperto, non è ancora puro, non tanto di una purezza morale, quanto di una purezza che consiste nell’ “amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, con tutta la propria forza” (cf. Lc 10,26). Dio non solo deve avere il primo posto nel cuore di un monaco, come del resto nel cuore di ogni battezzato, ma bisogna che Dio occupi tutto il posto, che il suo cuore appartenga totalmente a Dio e dunque che non vi sia il minimo idolo in lui, non la minima divisione. I primi Cistercensi amavano dire che la carità deve essere ordinata in noi, cioè bisogna che ci sia ordine nel nostro modo di amare, che tutto sia in ordine. Ora, giustamente, un cuore in cui l’amore è ordinato avendo dato a Dio tutto lo spazio, può amare veramente i suoi fratelli e sorelle senza contraddizioni con il suo amore assoluto per Dio. Bisogna pure avere il coraggio di dire che, per amare veramente una persona, bisogna che l’amore per Dio abbia invaso il nostro cuore, bisogna che lo Spirito Santo sia diventato l’unico Maestro interiore, che abbia reso semplice il nostro sguardo, unificato tutte le nostre capacità di amare nello slancio del suo stesso Amore.
Il combattimento di ogni battezzato si colloca precisamente a questo livello perché bisogna arrivare, e questo può richiedere molto tempo, a una totale sottomissione allo Spirito, a una totale spogliazione di sé, il cui frutto non è che la libertà in una purissima gioia.
La notte della fede
Questo non significa, però, che il combattimento sia terminato e che ormai tutto sarà facile perché l’amore avrà preso tutto lo spazio del cuore. C’è una prova ancora più terribile. Dopo un’esperienza di profonda libertà interiore, infatti, la prova suprema non è forse quella in cui sprofonda il monaco per il quale Dio sembra non solamente lontano e assente, ma addirittura inesistente? Gravi domande salgono al cuore di questo monaco: il Padre che l’ha creato e chiamato sarebbe indifferente all’immensa sofferenza del mondo? Com’è possibile che degli uomini, tutti figli di questo Padre e dunque veramente fratelli, continuino a straziarsi, a uccidersi, a rendere questo mondo talvolta così disumano? Quale monaco non ha sentito nella sua preghiera quelle grida che salgono dai salmi e che egli comincia talvolta a far sue, quando prima gli sembravano quasi blasfeme: “E tu, Signore, cosa fai?” (sal 6,4); “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?” (sal 12,2); “Svegliati, perché dormi, Signore?” (sal 43,24). Anche i Padri del deserto, pure loro, spesso erano attaccati da questo demonio della bestemmia. Del resto, quel Cristo al quale il monaco non voleva assolutamente anteporre nulla, a poco a poco sembra scomparire e diventare senza volto, senza forma. Perfino lo Spirito Santo, di cui aveva scoperto la presenza luminosa nel più profondo di se stesso, quello Spirito che aveva incontrato, alla maniera di sant’Agostino, “più intimo a sé di se stesso” e che gli aveva ispirato le più audaci decisioni, pare ora impotente a sostenerlo, lasciandolo abbandonato e perduto nella notte della sua prova.
Dio tace! Il monaco che affronta questo silenzio di Dio non sa se questa privazione è passeggera o se dovrà subirla a lungo, e questo silenzio è tanto più pesante e insopportabile in quanto egli non sa nemmeno se tale prova ha un senso. Eccolo, lui che voleva essere e affermava di essere profeta del senso, di fronte all’assenza di Dio, assenza che toglie ogni significato alla sua esistenza. Terribile assenza di un Dio che fino a quel momento si imponeva come più reale di tutta la realtà.
Ci troviamo qui nel cuore del combattimento della fedeltà monastica, perché questo monaco, sia egli solo o in comunità, non ha altra vocazione se non quella di avanzare nella notte della fede con la stessa ferma sicurezza che ormai non preferisce nulla al Cristo, perché egli è ora assimilato a Gesù, il Verbo incarnato che è rimasto fedele al Padre e agli uomini fino al dramma del Calvario.
Nella sua enciclica Fides et ratio, il papa Giovanni Paolo II ha scritto con audacia:
“Impegno primario della teologia […] diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio".
Non si tratta forse della vocazione ultima del monaco: lasciarsi condurre dalla kenosi di Dio con il desiderio bruciante di amare di questo stesso amore che non chiede nulla in cambio neppure quando si dona? E’ un cammino lungo, talvolta molto lungo e difficile che porta il monaco ad accettare questo posto “nel cuore della Chiesa”, come diceva santa Teresa di Lisieux. Fin dai primi passi nella vita monastica, egli si chiedeva: “Che cos’è l’amore?”, come san Bernardo che, alla fine della sua vita, nel suo trattato De consideratione si poneva la domanda essenziale: “Che cosa è Dio?”. Orami egli lo sa, e comincia a sapere, che amare è donare senza nulla chiedere in cambio, darsi anche alla sua comunità, dare se stesso in ogni azione, fosse anche la più umile. La sua fedeltà consiste in questa volontà di donarsi “fino alla morte”, come precisa san Benedetto (RB, Prol 50). La sua fedeltà non sarà un’esperienza temporanea perché non si è fedeli in prova. Il cuore dell’esperienza della fedeltà sta proprio in questa durata, in questo continuo nascondersi di una risposta a un amore, l’amore del Crocifisso che “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). L’incontro con Gesù, l’Uomo Dio, fedele al Padre fino all’impressione dolorosa di essere abbandonato da lui – quando sulla croce il Padre non è mai stato così vicino a suo figlio, il suo Amatissimo – insegna al monaco la gratuità dell’amore. Nella contemplazione del Crocifisso, infatti, egli coglie all’improvviso che amare è veramente donarsi senza nulla chiedere in cambio. Gesù si è dato gratuitamente, abbandonandosi con fiducia al volere del Padre, e il monaco si sente lui stesso condotto al medesimo amore, questo amore la cui inattesa fecondità oltrepassa tutto ciò che egli può immaginare, questo amore che porta in lui i frutti stessi della Risurrezione.
Il combattimento nella comunità fraterna
Colui che ha imparato, con Teresa di Lisieux, che “amare è dare tutto e dare se stessi”, è spesso chiamato a sostenere un altro combattimento che non si aspettava entrando in una comunità monastica: il combattimento dell’amore fraterno. E’ sempre lo stesso combattimento, quello dell’amore vissuto nel cuore di una comunità
La contemplazione assidua del Crocifisso nella luce della Risurrezione gli ha fatto scoprire la bellezza, la grandezza, la nobiltà di ognuno dei suoi fratelli nei quali egli scopre e vede l’immagine di Dio. Per questo, amare il proprio fratello può essere, per un lungo periodo della vita monastica, un atteggiamento facile, che è sorgente di gioie purissime e durevoli. In questi periodi di luce e di pace la vita monastica appare come un felice anticipo celeste, perché il cielo è l’altro! Non vi sono forse degli incontri fraterni, dei momenti di comunione che offrono un anticipo della gioia trinitaria?
Ma viene il tempo della prova e del combattimento quando, senza che nessuno possa dirne le ragioni, due fratelli o due sorelle non arrivano più né a capirsi, né, addirittura, a incontrarsi. Chi può dire perché diventa non solo difficile ma perfino impossibile entrare in relazione con in fratello o una sorella coi quali, fino a quel momento, le relazioni erano facili? Orbene, a poco a poco si crea una distanza fra le due persone e gli sforzi per ristabilire relazioni normali sembrano destinati a fallire. Anche se una chiarificazione psicologica permette di dare degli elementi di spiegazione a difficoltà così sconcertanti, il contrasto rimane, e prende talvolta dimensioni quasi tragiche. Si tratta certo di una vera tentazione davanti alla quale veniamo a trovarci. Bisogna disperare? Oppure ci sono soluzioni per uscire da un simile vicolo cieco?
Senza trascurare gli aspetti umani di questo combattimento, né lo sforzo necessario per trovare soluzioni giuste ed efficaci, viene il momento di un tentativo di soluzione profondamente spirituale, un tentativo che non è possibile se non attraverso e nello Spirito Santo. E’ lui, infatti, lo Spirito di verità, che ci insegna a posare uno sguardo d’amore sulla persona che siamo tentati di respingere, di sfuggire o di ignorare, e che ci permette di accogliere in noi e per lei il perdono stesso di Dio. Lo sapeva bene quella monaca che, rifiutata misteriosamente da una delle sue sorelle, si era sentita spinta a contemplare Gesù presente in colei che la rifiutava. Siamo allora al cuore del combattimento della fedeltà monastica, che può condurre a una vera esperienza mistica perché, al di là di ogni sentimento di gioia, c’è l’incontro con Colui che ci dirà un giorno: “Ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Diventare il Cristo
Dobbiamo diventare cristiani. Non è forse questo il fine del combattimento del monaco e della monaca? Entrare nella vita monastica è voler semplicemente entrare nella logica del battesimo, attraverso il quale ogni cristiano è assimilato a Cristo Gesù, identificato con lui. Giovanni Paolo II, alla fine della sua esortazione sulla vita consacrata, ha lanciato questo messaggio:
“Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che siete divenuti Cristo!”.
Si tratta, dunque, non solo di diventare cristiani, ma di “diventare il Cristo”.
Orbene, tutta la vita del Cristo non è forse stata un lungo combattimento cominciato col famoso racconto delle tentazioni e terminato nell’orto del Gestemani, preludio della Croce? Ma questo combattimento è esattamente quello della fedeltà all’amore: il demonio voleva far vacillare Cristo nella sua fedeltà al Padre e, da qui, nella sua fedeltà alla missione che aveva ricevuto proprio dal Padre. Mai il Figlio amatissimo ha deviato dal cammino che aveva scelto, e la nostra vera gioia è di poter ricevere da lui il dono di una medesima fedeltà. Perché il segreto della fedeltà sta in questo: essa è un dono e perciò non può fiorire se non in un cuore "frantumato" e traboccante di umiltà.
p. Paul Houix ocso
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