La Pace in san Benedetto
(prima parte)
LETTERA APOSTOLICA
SANCTORUM ALTRIX
DEL SOMMO PONTEFICE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
PER IL XV CENTENARIO DELLA NASCITA DI S. BENEDETTO
PATRONO D'EUROPA, MESSAGGERO DI PACE
Testo prelevato dal sito della Santa Sede (https://www.vatican.va)
Ai diletti figli, Vittore Dammertz, abate primate dell'ordine di san Benedetto; Giacomo del Rio, maggiore della congregazione degli eremiti camaldolesi di Montecorona; Paolo Anania, abate generale della congregazione mechitarista di Venezia; Sigardo Klainer, abate generale dell'ordine cistercense; Ambrogio Southey, abate generale dell'ordine dei cistercensi riformati (trappisti) nel XV centenario della nascita di san Benedetto abate.
Diletti figli, salute e apostolica benedizione.
Nutrice di santi, la madre Chiesa presenta ai suoi figli, come maestri di vita, coloro che, con uno splendido esercizio di virtù, hanno seguito fedelmente Cristo, suo sposo, affinché imitando il loro esempio, possano pervenire ad una perfetta unione con Dio, pur tra le varie vicissitudini terrene, e raggiungere così il proprio fine. Quegli eccellenti uomini e donne, sebbene sottomessi nel corso della loro vita terrena alle particolari situazioni del loro tempo, specialmente culturali, tuttavia hanno fatto risplendere, con il loro modo di vivere e con la loro dottrina, un aspetto particolare del mistero di Cristo che, oltrepassando i limiti angusti del tempo, ancora oggi conserva la sua forza e il suo vigore.
Celebrandosi ora solennemente il XV centenario della nascita di san Benedetto, si presenta l'occasione di ascoltare di nuovo il suo messaggio spirituale e sociale.
1. In ogni religione vi sono sempre stati coloro che, «sforzandosi di venire incontro in vari modi alla inquietudine del cuore umano» («Nostra Aetate», 1), sono stati attratti in modo singolare verso l'assoluto e l'eterno. Tra questi, per quanto riguarda il cristianesimo, eccellono i monaci, che già nel secolo III e IV avevano istituito in alcune zone dell'oriente una propria forma di vita, protesi a realizzare per ispirazione divina, dietro l'esempio di Cristo «dedito alla contemplazione sul monte» («Lumen Gentium», 46), o una vita solitaria e nascosta, o la dedizione al servizio di Dio in una convivenza di carità fraterna.
Dall'oriente, poi, la disciplina monastica penetrò in tutta la Chiesa e alimentò il salutare proposito di altri che, conservando le forme della vita religiosa, imitavano il Salvatore, «che annunciava alle turbe il regno di Dio e convertiva a vita migliore i peccatori»(«Lumen Gentium», 46).
In un momento in cui, a causa di questo spirituale fermento, la Chiesa cresceva, e intanto la civiltà romana, ormai decrepita, decadeva - poco prima infatti era crollato l'impero d'occidente -, verso l'anno 480 nasceva a Norcia san Benedetto.
«Benedetto, che era tale per grazia di Dio e non solo per nome, ebbe addirittura dagli anni della fanciullezza il senno di un anziano»; «desideroso di piacere soltanto a Dio» (S. Gregorii Magni «Dialogorum lib. II», Prolog.: PL 66,126), si mise in ascolto del Signore, che cercava il suo operaio (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 1.14), e vincendo, con la guida del Vangelo, le esitazioni dell'animo sorte all'inizio, «attraverso difficoltà e asprezze» (S. Benedicti «Regula», 58,8) si incamminò «per la via stretta che porta alla vita» (cfr. Mt 7,14).
Conducendo vita solitaria in diversi luoghi, e purificandosi attraverso la prova della tentazione, giunse ad aprire completamente il suo cuore a Dio. Spinto poi dall'amore divino, radunò altri uomini, con i quali, come padre, intraprese «la scuola del servizio del Signore» (S. Benedicti «Regula», Prolog., 45). Così, con l'uso sapiente degli «strumenti delle buone opere» (cfr. S. Benedicti «Regula», 4), congiunto con il senso del dovere, egli e i suoi discepoli costituirono una piccola città cristiana, «dove finalmente - come disse Paolo VI, predecessore nostro di recente memoria - regni l'amore l'obbedienza, l'innocenza, la libertà dalle cose e l'arte di bene usarle, il primato dello spirito, la pace, in una parola il Vangelo» (cfr. Pauli VI «Allocutio in Archicoenobio Casinensi habita», die 24 oct. 1964: «Insegnamenti di Paolo VI», II [1964] 604).
Portando a compimento tutto ciò che di buono vi era nella tradizione ecclesiale dell'oriente e dell'occidente, il santo di Norcia si elevò alla considerazione dell'uomo nella sua totalità, e inculcò la sua dignità irripetibile come persona.
Quando egli moriva nell'anno 547, già erano state gettate le solide fondamenta della disciplina monastica, la quale, specialmente dopo i sinodi dell'epoca carolingia, divenne il monachesimo occidentale. Questo, poi, attraverso le abbazie e le altre case benedettine, diffuse per ogni dove, costituì la struttura della nuova Europa, dell'Europa, diciamo, alle cui «popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall'Irlanda alle pianure della Polonia, egli principalmente e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l'aratro, la civiltà cristiana» (cfr. Pauli VI «Pacis Nuntius»: AAS 56 [1964] 965).
2. È nostro intendimento oggi richiamare alla vostra mente tre caratteristiche fondamentali della vita benedettina: e cioè l'orazione, il lavoro, e l'esercizio paterno dell'autorità. È utile per noi considerare in un più ampio quadro teologico ed umano questi tre elementi - in quanto emergono dalla vita e dal magistero di Benedetto, e principalmente dalla sua Regola -, per poterli comprendere più profondamente.
La Regola benedettina, stando alle parole del suo santo Autore, vuol essere «una regola minima per principianti»; ma in realtà è un compendio molto ricco del Vangelo, tradotto in un genere di vita non comune. Infatti, avendo davanti agli occhi l'uomo e la sua sorte associata alla redenzione, essa propone alcuni principi di dottrina, ma specialmente una forma di vita. E sebbene tale metodo di vita sia proposto ai monaci - e per di più a monaci del secolo VI - tuttavia esso contiene e irradia ammaestramenti che riguardano anche il nostro tempo, e giovano a tutti quelli che sono rinati nel battesimo e cresciuti nella fede; a tutti coloro che per «l'inerzia della disobbedienza» si sono allontanati da Dio, e ora con l'obbedienza non sempre facile, della fede, si sforzano di tornare a lui (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 2).
La vita benedettina appare nella Chiesa soprattutto come un'ardentissima ricerca di Dio, dalla quale, in qualche modo, è necessario che sia contraddistinto il corso della vita di ogni cristiano che tende alle «più alte vette di dottrina e di virtù» (S. Benedicti «Regula», 73,9; cfr. «Lumen Gentium», 9; «Unitatis Redintegratio», 2), finché arrivi alla patria celeste. Cammino che san Benedetto percorre con animo sollecito e commosso ed osserva, mostrando i non pochi impedimenti che lo rendono arduo, e i pericoli che sembra esso lo precludano e rendano vani tutti gli sforzi: poiché l'uomo è schiavo di smodate cupidigie per le quali ora si gonfia di vana presunzione, ora è atterrito da uno sgomento che strema le forze (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 48).
Ma questa «via di vita» (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 20) può essere percorsa soltanto a determinate condizioni: cioè nella misura in cui si ama Cristo con cuore indiviso, e si conserva una genuina umiltà.
Allora il cristiano, cosciente della sua infermità e della sua indigenza, entra con l'aiuto di Dio nella vita spirituale, si libera da ciò che lo appesantisce, contempla più chiaramente la sua natura autentica come persona, e nelle profondità più intime della sua anima, scopre Dio presente. L'amore quindi e l'umiltà si fondono e muovono l'uomo a discendere, per poi ascendere più in alto. La nostra vita infatti è una scala «che per l'umiltà del cuore viene dal Signore drizzata verso il cielo» (S. Benedicti «Regula», 7,8).
Orbene, una considerazione limitata all'aspetto esteriore della vita monastica può ingenerare l'opinione che il genere di vita benedettina favorisca soltanto l'utilità propria del monaco che la professa e lo induca a facile noncuranza degli altri, alienando perciò il suo animo dal senso sociale e dai problemi reali dell'umanità. Purtroppo, la vita condotta nella clausura monastica con la consuetudine dell'orazione, nella solitudine e nel silenzio, viene valutata in tal modo anche da taluni che appartengono alla comunità ecclesiale.
In realtà, invece, quando il monaco raccoglie il suo spirito, o, come disse san Gregorio di san Benedetto da Norcia, abita con sé stesso e attende diligentemente a sé stesso attraverso la purificazione dell'ascesi penitenziale, fa questo anche per liberarsi dalla schiavitù della «volontà propria». Ma questa attenzione dello spirito che uno dirige verso sé stesso è solo una condizione del tutto necessaria perché il suo animo si apra con più sincero anelito verso Dio e i fratelli. Sotto l'impulso di questa concezione benedettina della vita avviene che i singoli monaci vivano in comunità, e questa diventi una sede di accoglienza.
San Benedetto percorre questa via maestra attraverso la quale, nell'ambito della famiglia monastica, si va a Dio. Ora, la convivenza monastica - chiamata dallo stesso santo ambito singolare nel quale i cuori di coloro che vi fanno parte si dilatano nell'esercizio della reciproca obbedienza - è mossa e stimolata da veemente amore del prossimo, per il quale ciascuno è spinto a dedicarsi al bene del fratello trascurando il proprio vantaggio.
Quando l'uomo giorno per giorno si adopera perché l'esigenza insopprimibile del raccoglimento interiore e della modestia, e la partecipazione alla vita, altrettanto insopprimibile, vengano equamente contemperate, cresce in lui la capacità di attuarsi come persona autentica, che ha relazioni con gli altri, soprattutto con Dio, che è «l'assolutamente altro».
Tuttavia, in questo modo di stimare gli uomini e le realtà sociali, che è proprio di san Benedetto e di tutta la tradizione che proviene da lui, le relazioni non sono circoscritte alla sola comunità monastica. La clausura separa invero il monaco dal secolo, e deve costituire contro ogni vuota dissipazione una specie di barriera che non è lecito oltrepassare. Ma questa non divide e non separa dall'amore; anzi, questa difesa quasi apre lo spazio necessario a una più ampia libertà, dove il monaco - ed in certo qual modo ogni uomo sollecito della sua «piccola clausura» - viva e cresca nell'amore; dove apra il suo cuore ai fratelli che desiderano condividere tutto ciò che egli sperimenta nella sua unione con Dio; dove felicemente avviene, che come rilevò sagacemente Paolo VI, che la sua sede sia «sempre più frequentata come casa di pace e di orazione, dove gli uomini ritrovino se stessi e Dio dentro di loro» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 615).
In altre parole, vi si deve costituire «la scuola del servizio del Signore», cioè «la scuola... della virtù e della contemplazione, che scaturisce abbondantemente da chiare e solide spiegazioni del Vangelo, della dottrina tradizionale, del magistero della Chiesa» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 616); così che il monaco necessariamente raggiunga tutti i singoli, superando con la preghiera ogni confine di spazio e limite di tempo. Per tutte queste condizioni, il monaco di san Benedetto risulta fratello universale, evangelizzatore, messaggero di pace e di amore.
3. Al tempo di san Benedetto la comunità ecclesiale e la società umana mostravano molte somiglianze con le condizioni attuali della vita umana. Gli sconvolgimenti della cosa pubblica e l'incertezza del futuro, a causa di guerre incombenti o già in atto, arrecavano mali che gettavano gli animi nel turbamento e nell'angoscia: fino al punto da ritenere la vita priva di ogni certo e valido significato.
Intanto nell'ambito della Chiesa era in atto un'ardua e diuturna controversia per la quale uomini ardenti, investigavano, in modo piuttosto animoso i misteri di Dio, specialmente l'imperscrutabile verità della divinità del Figlio e della sua genuina umanità. Tutte queste cose risuonavano come un'eco nelle parole degne di eterna memoria di Leone Magno, successore del beato Pietro e Vescovo di Roma.
San Benedetto, considerando attentamente questo stato di cose, chiese a Dio ed alla viva tradizione della Chiesa la luce e la via da seguire. La risoluzione da lui presa, pertanto, può essere considerata il paradigma del dovere cristiano nelle vicissitudini del pellegrinaggio terreno, anche se non offre a tutti un metodo di vita concretamente determinato.
Gesù Cristo è il centro vitale, assolutamente necessario, a cui tutte le realtà e gli eventi devono essere riferiti, perché possano acquistare un senso e una solida consistenza. Richiamandosi a un pensiero di san Cipriano Vescovo di Cartagine, Benedetto con forza e gravità afferma che assolutamente «nulla deve essere anteposto all'amore di Cristo» (cfr. S. Benedicti «Regula», 4,21; 72,11).
Negli uomini infatti e nelle realtà terrene vi è una forza ed una importanza in quanto sono connessi con Cristo; in questa luce devono essere considerati e stimati. Tutti coloro che si trovano nel monastero - dal superiore (che è il padre, l'abate) all'ospite ignoto e povero, dall'infermo al più piccolo dei fratelli - significano la viva presenza di Cristo. Anche i beni del monastero sono segni dell'amore di Dio verso le creature, o dell'amore che conduce l'uomo verso Dio; addirittura, gli strumenti e le attrezzature per il lavoro «vengono considerati come vasi sacri dell'altare» (cfr. S. Benedicti «Regula», 31,10).
San Benedetto non propone una certa visione teologica astratta, ma partendo dalla verità delle cose, come è solito fare, inculca fortemente negli animi un modo di pensare e di agire, per il quale la teologia è trasferita nel vivere quotidiano. A lui non sta tanto a cuore di parlare delle verità di Cristo, quanto di vivere con piena verità il mistero di Cristo e il «cristocentrismo» che ne deriva.
È necessario che la priorità da attribuire alla visione soprannaturale delle vicissitudini quotidiane, concordi con la verità dell'incarnazione: non è lecito all'uomo fedele a Dio dimenticarsi di ciò che è umano; egli deve essere fedele anche all'uomo. Perciò il dovere che dobbiamo assolvere, come si usa dire, in senso «verticale», e che si traduce nella vita di preghiera, è rettamente ordinato quando si armonizza strettamente con gli impegni che provengono dalla considerazione «orizzontale» della realtà, il più importante dei quali è il lavoro.
Nella convivenza monastica, quindi, sotto la guida di colui che «come si sa per fede, fa nel monastero le veci di Cristo» (S. Benedicti «Regula», 63,13; cfr. 2,2), san Benedetto indica la via da percorrere, via che si distingue per la grande discrezione ed equilibrio. Questa via, che associa solitudine e convivenza, preghiera e lavoro, deve essere percorsa anche da ogni uomo del nostro tempo - pur contemperando questi elementi in modo diverso secondo le condizioni di ognuno - perché possa attuare fedelmente la sua vocazione.
4. L'amore vero ed assoluto verso Cristo si manifesta in modo significativo nell'orazione, che è come il cardine intorno al quale ruotano la giornata del monaco e tutta la vita benedettina.
Ma il fondamento dell'orazione, secondo la dottrina di san Benedetto, è riposto nel fatto che l'uomo ascolti la parola: perché il Verbo incarnato, qui, oggi, ai singoli uomini, viventi nella presente non ripetibile condizione; lo fa attraverso le Scritture e la mediazione ministeriale della Chiesa; cosa che nel monastero si esercita anche attraverso le parole del padre e dei fratelli della comunità.
In una tale obbedienza di fede, la parola di Dio è accolta con umiltà e con gioia, che derivano dalla sua perenne novità che il tempo non diminuisce, ma anzi rende più vivida e di giorno in giorno più avvincente. La parola di Dio, pertanto, diviene fonte inesausta di orazione, poiché «Dio medesimo parla all'anima, suggerendole al tempo stesso la risposta che il suo cuore attende. Sarà una preghiera diffusa nei vari momenti della giornata e alimentante, come polla sotterranea, le attività quotidiane» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die 29 sept. 1976: «Insegnamenti di Paolo VI», XIV [1976] 771).
Così, attraverso la meditazione pacata e saporosa - che è una vera ruminazione spirituale - la parola di Dio eccita nell'animo di coloro che sono dediti all'orazione quegli acuti bagliori di luce che illuminano tutto il corso della giornata.
Per dirla brevemente, questa è «l'orazione del cuore», quella «breve e pura orazione» (cfr. S. Benedicti «Regula», 20,4), per mezzo della quale rispondiamo agli impulsi divini, e insieme sollecitiamo il Signore a largirci il dono inesauribile della sua misericordia.
L'anima dunque attende ogni giorno con amore alla parola di Dio, e la investiga con fervido impegno; tutto ciò attraverso un'applicazione vitale, frutto non di scienza umana ma di una sapienza che ha in sé qualcosa di divino; cioè non «per sapere di più», ma, se così si può dire, per «essere di più», per colloquiare con Dio, per rivolgere a lui la sua stessa parola, per pensare quello che egli stesso pensa, in una parola, per vivere la sua stessa vita.
Il fedele, ascoltando la parola di Dio, è portato a capire il corso delle vicende e dei tempi che il Signore nella sua provvidenza ha disposto per l'umana famiglia, così che all'anima credente viene offerta una più ampia visione del più disegno divino di salvezza. In questa visione di fede giungiamo anche a percepire le opere mirabili di Dio con occhi aperti e «con orecchie attentissime» (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 9).
La luce divinizzante della contemplazione eccita la fiamma, e sia il silenzio, congiunto con lo stupore, sia i canti di esultazione, sia l'alacre azione di grazia, donano a quella orazione un'indole particolare, mediante la quale i monaci celebrano cantando le lodi del Signore ogni giorno.
Allora la preghiera diventa quasi la voce dell'intera creazione e in qualche modo anticipa l'eccelso canto della celeste Gerusalemme.
La parola di Dio in questo pellegrinaggio terreno, ci fa sentire tutta la vita come aperta allo sguardo di colui che dall'alto vede ogni cosa. Così la preghiera rivolta al Padre, dà voce a quelli che ormai non hanno più voce; e in essa in qualche modo risuonano le gioie e le ansie, gli esiti favorevoli e le speranze deluse, e l'attesa di tempi migliori.
San Benedetto è condotto, particolarmente nella sacra liturgia, da questa parola di Dio, non certo per ottenere che la comunità divenga soltanto un'assemblea che celebra con ardore i misteri divini, e nel canto corale esprima la comune esperienza attinta dallo Spirito; a lui infatti sta soprattutto a cuore che l'animo risponda più intimamente alla parola divina proclamata e cantata, e che «il nostro spirito concordi con la nostra voce» (S. Benedicti «Regula», 19,7).
Le sacre scritture, conosciute e gustate in questo modo vitale, vengono lette con diletto quando allo stesso tempo ci si dedica intensamente all'orazione. Per impulso dell'amore, l'animo spesso si raccoglie davanti a Dio; nulla è anteposto all'opera di Dio (cfr. S. Benedicti «Regula», 4,55.56; 43,3); la preghiera fatta nella liturgia viene trasferita nella vita, e la stessa vita diventa preghiera. L'orazione, appena terminata la liturgia, quasi da quegli ampi spazi si riverbera in un ambito più ristretto e si prolunga nel raccoglimento e nel silenzio interiore. Così avviene che uno preghi per conto suo, e la preghiera continuata pervada le azioni e i momenti della giornata.
San Benedetto, amante della parola di Dio, la legge non solo nelle sacre scritture, ma anche in quel grande libro che è la natura. L'uomo, contemplando la bellezza del creato, si commuove nel più intimo del suo animo, ed è portato ad elevare la sua mente a colui che ne è la fonte e l'origine; e allo stesso tempo è condotto a comportarsi quasi con riverenza verso la natura, a porne in luce le bellezze, rispettandone la verità.
«Dove spira il silenzio, ivi parla la preghiera» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinos monachos», die 8 sept. 1971: «Insegnamenti di Paolo VI«, IX [1971] 756): nella solitudine infatti la preghiera si intensifica per una certa ricchezza personale; e questo vale tanto per quella valle incolta dell'Aniene nella quale Benedetto visse solo con Dio solo, quanto per la città sovrabbondante di prodotti della tecnica, ma alienante per gli animi, dove l'uomo del nostro tempo spesso resta emarginato, abbandonato a se stesso. È necessario che lo spirito sperimenti un certo deserto, per poter condurre una vera vita spirituale; poiché questo preserva da parole vane, facilita un rapporto nuovo con Dio, con gli uomini e con le cose.
Nel silenzio del deserto, le relazioni che la persona intrattiene con gli altri vengono ricondotte a ciò che è essenziale e primario, e acquistano una certa austerità; così il cuore si purifica, e si riscopre la pratica dell'orazione quotidiana che dall'intimo del cuore si eleva Dio. Tale preghiera non si perde in molte parole, ma si eleva «nella purezza del cuore pieno di fervore e nella compunzione delle lacrime» (cfr. S.Benedicti «Regula», 20,3; 52,4).
5. Il volto dell'uomo spesso è rigato da lacrime, che, non sempre sgorgando da sincera compunzione o da gioia sovrabbondante, col loro prorompere spingono l'animo a pregare; spesso infatti le lacrime vengono sparse per dolore e angoscia da coloro che vedono calpestata la propria umana dignità e che non riescono a conseguire ciò a cui giustamente aspirano, né a ottenere un lavoro adeguato alle loro necessità e alle loro capacità.
Anche san Benedetto viveva in una società sconvolta da ingiustizie, nella quale la persona spessissimo era tenuta in nessun conto o stimata solo come una cosa; in quel contesto sociale strutturato in vari ordini, i diseredati venivano emarginati e considerati di condizione servile, i poveri sprofondavano in una miseria sempre maggiore, i possidenti si arricchivano sempre più.
Quell'uomo egregio, invece, volle che la comunità monastica poggiasse sul fondamento dei precetti del Vangelo.
Egli restituisce l'uomo alla sua integrità, da qualsiasi ordine sociale provenga; provvede alle necessità di tutti secondo le norme di una sapiente giustizia distributiva; ai singoli assegna uffici complementari e tra loro saggiamente coordinati; ha cura delle infermità degli uni, senza indulgere in alcun modo alla pigrizia; dà spazio all'operosità degli altri affinché non si sentano coartati, ma stimolati ad esercitare le loro energie migliori. In tal modo egli toglie il pretesto anche alla pur leggera, e alle volte giusta, mormorazione, creando le condizioni per la pace.
L'uomo, nella visione di san Benedetto, non può essere considerato una macchina anonima da sfruttare con l'unico intento di trarne i massimi profitti, affermando che l'operaio non merita alcuna considerazione morale e denegandogli la giusta mercede.
Si deve infatti ricordare che in quel tempo il lavoro era fatto ordinariamente da schiavi ai quali non si riconosceva la dignità di persone umane. Ma san Benedetto ritiene il lavoro, per qualsiasi motivo esercitato, parte essenziale della vita, e obbliga ad esso ciascun monaco per dovere di coscienza. Il lavoro, poi, dovrà essere sostenuto «per motivo di obbedienza e di espiazione» (Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 154), giacché il dolore e il sudore sono inseparabili da qualsiasi sforzo veramente efficace.
Questa fatica, pertanto, ha una forza redentrice in quanto purifica l'uomo dal peccato, e inoltre nobilita sia le realtà che sono oggetto dell'operosità umana, sia lo stesso ambiente nel quale essa si svolge.
San Benedetto, trascorrendo una vita terrena, nella quale il lavoro e l'orazione sono convenientemente contemperati, e così inserendo felicemente il lavoro in una prospettiva soprannaturale della vita stessa, aiuta l'uomo a riconoscersi cooperatore di Dio e a diventarlo veramente, mentre la sua personalità, esprimendosi in una operosità creatrice, viene promossa nella sua totalità. Così l'azione umana diventa contemplativa e la contemplazione acquista una virtù dinamica che ha una sua importanza e illumina le finalità che essa si propone.
Ciò non viene fatto soltanto perché si eviti l'ozio che ottunde lo spirito, ma anche e soprattutto per rendere l'uomo come persona cosciente dei suoi doveri e diligente, capace di crescere e di perfezionarsi nel loro compimento: perché dal profondo del suo animo si rivelino energie forse ancora sopite, il cui esercizio possa contribuire al bene comune, «affinché in tutto sia glorificato Dio» (1Pt 4,11).
Con ciò il lavoro non è alleggerito dal grave dispendio di energie, ma ad esso viene aggiunto un nuovo impulso interiore. Il monaco infatti, non malgrado il lavoro che compie, ma anzi attraverso il lavoro stesso, si congiunge a Dio, poiché «mentre lavora con le mani o con la mente, si dirige sempre continuamente a Cristo» (cfr. Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 147).
E così accade che il lavoro, anche se umile e poco apprezzato, tuttavia arricchito di una certa qual dignità, viene intrapreso e diventa parte vitale «di quella ricerca somma ed esclusiva di Dio nella solitudine e nel silenzio, nel lavoro umile e povero, per dare alla vita il significato di una orazione continuata, di un "sacrificium laudis", insieme celebrato, insieme consumato, nel respiro di una gaudiosa e fraterna carità» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die 28 oct. 1966: «Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 514).
L'Europa è divenuta terra cristiana, specialmente perché i figli di san Benedetto hanno comunicato ai nostri antenati una istruzione che abbracciava tutto, insegnando appunto loro non solo le arti e il lavoro manuale, ma anche, specialmente, per infondendo in loro lo spirito evangelico, necessario per proteggere i tesori spirituali della persona umana.
Il paganesimo, che in quel tempo da folte schiere di monaci missionari è stato trasformato in cristianesimo, torna oggi a propagarsi sempre più nel mondo occidentale, ponendosi come causa ed effetto di quella perduta maniera di considerare il lavoro e la sua dignità.
Se Cristo non dà alla azione umana alto e perpetuo significato, colui che lavora diviene schiavo - nelle forme portate dai nuovi tempi - della sfrenata produzione che cerca solo il guadagno. Al contrario, san Benedetto afferma la necessità impellente di dare al lavoro un carattere spirituale, dilatando i confini dell'operosità umana, così che questa si preservi dall'esasperato esercizio della tecnica produttiva, e dalla cupidigia del privato guadagno.
6. Nella compagine sociale, che si è instaurata nei nostri tempi, e che qua e là acquista l'aspetto di una «società senza padri», il santo di Norcia aiuta a ricuperare quella dimensione primaria - forse troppo trascurata da quelli che hanno autorità - che chiamiamo dimensione paterna.
San Benedetto tra i suoi monaci fa le veci di Cristo, ed essi obbediscono a lui come al Signore, con i sentimenti che lo stesso Salvatore aveva per il Padre.
A questa obbedienza-ascolto, propria dei figli, che in questo modo contribuiscono a configurare la figura del padre, risponde la penetrante considerazione che san Benedetto ha per tutti i monaci, avendo riguardo alla loro persona nella sua totalità. Questa attenzione lo stimola a curare diligentemente tutte le necessità della comunità.
Colui che esercita l'autorità, pur non trascurando nulla di ciò che attiene all'ordinamento della famiglia monastica, né gli affari materiali, ha cura soprattutto della condizione spirituale di ciascuna persona, poiché questa deve essere preferita a tutte le cose terrene e transitorie.
Nella considerazione di quegli elementi che nella vita terrena sono spirituali e fondamentali, l'abate è illuminato dal contatto che ha assiduamente con la parola di Dio, dalla quale attinge tesori nuovi e vecchi. A questa parola di Dio, il padre del monastero dovrà intimamente conformarsi, così che la sua azione divenga quasi un fermento della giustizia divina che si sparge nella mente dei figli.
Nelle deliberazioni da tenersi nell'ambito della comunità, san Benedetto concede piena autorità all'abate; la sua decisione non potrà essere impugnata. Questo non deriva dal fatto che l'autorità sia quasi stimata una dominazione assoluta, poiché il padre prende consiglio da tutti i fratelli, e da alcuni di loro in privato, senza alcun pregiudizio, nella persuasione che anche nelle cose di grande importanza «spesso il Signore svela quello che è meglio al più giovane» (S. Benedicti «Regula», 3,3).
Nel colloquio fraterno, l'abate ascolta le richieste di coloro che interpella perché accettino un particolare ufficio; ma per il bene del singolo e della comunità deve essere fermo nell'ingiungere cose che alle volte potrebbero anche sembrare impossibili; a lui dovrà stare soprattutto a cuore la promozione dei singoli, perché si sviluppino meglio, e tutta la comunità ne tragga incremento e vigore.
Il fine primario che deve prefiggersi il padre della comunità dovrà essere di aiutare i fratelli e guidarli con saggezza, in modo che appaia chiaramente che il primato è dato all'amore.
Il padre, perciò, «faccia prevalere sempre la misericordia sulla giustizia» (S. Benedicti «Regula», 64,10; cfr. Gc 2,13), e cerchi più di farsi amare che temere, sapendo che egli «deve piuttosto giovare che comandare» (cfr. S. Benedicti «Regula», 64,14.8).
Consapevole che dovrà render conto di tutti coloro che gli sono stati affidati, l'abate ama i fratelli; con essi e per essi, svolgendo il compito di buon pastore, fa ciò che è più utile al bene di tutti, ciò che più conviene e quello che giudica essere più salutare. «L'abate deve infatti preoccuparsi intensamente e adoperarsi con ogni premura, accortezza e zelo, per non perdere nessuna delle pecorelle che gli sono state affidate... E imiti l'esempio del buon pastore, che lasciò le novantanove pecorelle sui monti e andò a cercare l'unica che si era smarrita, provando tanta compassione per la sua debolezza, da degnarsi di porsela sulle sue sacre spalle e di riportarla così all'ovile» (S. Benedicti «Regula», 27,5.8-9).
Il padre della comunità che deve guidare le anime, sappia che in questo ministero pastorale deve adattarsi alla diversa indole di molti (cfr. S. Benedicti «Regula», 2,31); si conformi e si adatti ai singoli, affinché ad essi possa dare l'aiuto sicuro e preciso di cui hanno bisogno; sia paziente verso tutti, non tollerando tuttavia i peccati dei trasgressori; abbia in odio la prevaricazione, ma sia privo di risentimento e di zelo inopportuno e diriga i figli con magnanimità.
Questo modo di guidare gli altri con autorità, rivela un ulteriore aspetto dell'ufficio del superiore: parliamo della discrezione, che è misura ed equilibrio nelle deliberazioni e nelle decisioni, affinché non sorgano inutili mormorazioni. I singoli pertanto, se obbediscono con umiltà, non solo sono aiutati a oltrepassare i limiti angusti di ciò che ritengono utile per loro in quel momento, ma si elevano ad una più ampia visione del bene e della vita sociale, cooperando per dovere di coscienza e così raggiungendo quella libertà interiore che è necessaria perché ognuno arrivi alla maturità personale.
Le cose dette dell'abate che adempie il suo dovere come sapiente amministratore della casa del Signore, (cfr. S. Benedicti «Regula», 64,5; 72,3-8), sono il fondamento di una somma pace. Pace che è riposta nel fatto che i fratelli si accettino benevolmente e grandemente si stimino l'un l'altro, malgrado gli inevitabili difetti, e ciò permetta un modo del tutto proprio di espressione della persona di ognuno.
Questa è la pace che deriva dal fatto che i singoli, umilmente e con la coscienza di un dovere, si obbligano con il legame di una tale società umana, dove la legge dello Spirito prevale sulla legge della materia, dove si instaura un giusto ordine, dove tutte le cose sono convenientemente disposte per l'incremento del regno di Dio.
San Benedetto quest'anno è venuto in qualche modo di nuovo a farci visita, mostrandoci i modi di condurre la vita umana che si richiamano da vicino alla dottrina del Vangelo.
Un simile progetto non può trovare il nostro spirito indifferente e neghittoso.
Specialmente i suoi figli, fedeli all'esempio e alle istituzioni del padre, sono chiamati a raccolta, per dare viva testimonianza di una così eccelsa, e allo stesso tempo sicura e determinata forma di vita. Questa testimonianza muoverà anche i meno edotti e i duri di cuore, nell'animo dei quali le parole non hanno più risonanza.
Il rinnovamento che ne deriverà, potrà fare in modo che il mondo acquisti un nuovo volto, più spirituale, più sincero, più umano. Tuttavia, colui che detiene l'autorità, in qualsiasi gruppo sociale, e di qualsiasi grado essa sia, dovrà sempre più promuovere e manifestare il dono della paternità, la quale è la sola che possa riuscire a tenere legati gli uomini con vincolo fraterno. Solo nella pace, infatti, essi edificheranno il mondo, e costituiranno la società nella quale, pregando e lavorando, l'uomo divenga cooperatore e interlocutore del Dio unico.
Giova anche ricordare, in questa occasione, che da Paolo VI nostro predecessore, san Benedetto è stato dichiarato patrono d'Europa, la quale è nata dopo la caduta dell'impero romano, da quella faticosa gestazione a cui hanno partecipato anche i monaci, conservandone gli ordinamenti di vita.
Questa silenziosa, costante, sapiente opera degli stessi monaci ebbe il merito di conservare e trasmettere il patrimonio della cultura antica ai popoli europei e a tutto il genere umano.
Così lo «spirito benedettino», come già dicemmo il primo gennaio di quest'anno, «è totalmente contrario allo spirito di distruzione» (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Homilia Calendis Ianuariis, in Patriarchali Basilica Vaticana habita». «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III,1 [1980] 5-6); e quindi questo «padre dell'Europa» (Pauli VI «Pacis Nuntius». AAS 56 [1964] 965) esorta tutti gli interessati a promuovere vigorosamente i beni che nutrono e nobilitano le menti, e a tener lontano con ogni forza tutto ciò che è distruzione e sovversione di questi stessi beni.
San Benedetto, come «annunciatore di pace» (Pii XII «Homilia die 18 sept. 1974 habita»: AAS 39 [1974] 453), parla particolarmente alle genti d'Europa, intente al salutare progetto di costruire una loro unità.
Una convivenza pacifica, da ricercare con tutte le forze, si deve fondare soprattutto sulla giustizia, sulla libertà autentica, sul mutuo consentimento, sul fraterno aiuto - cose tutte che sono conformi agli insegnamenti del Vangelo.
Questo santo protegga e favorisca quindi i popoli di questo continente e l'umanità intera; e con la sua preghiera allontani le gravissime calamità che possono essere portate da armi funestissime e sommamente distruttive.
Queste cose si agitano nel nostro cuore, mentre ci rivolgiamo, con il pensiero e con la preghiera, a questo eccelso uomo, romano ed europeo, gloria della Chiesa.
A voi infine, diletti figli, e alle famiglie monastiche che sono in qualunque modo sotto la vostra giurisdizione, di cuore impartiamo la nostra apostolica benedizione, segno della nostra paterna benevolenza.
Dato a Roma, da San Pietro, il giorno 11 del mese di luglio, nella festa di san Benedetto abate, nell'anno 1980, secondo del nostro Pontificato...........................................................................................................................................
San Benedetto: la Pace dentro.
San Benedetto, Padre dei monaci d’Occidente, Patrono d’Europa con altri luminosi santi, è stato un Uomo di Pace, perché essenzialmente Uomo di Dio, tutto di Dio.
E, in quanto Uomo di Dio, ha promosso e riscattato l’uomo, tutto l’uomo. L’uomo nella sua integrità e pienezza.
San Benedetto, vivendo, fin da giovanissimo, alla presenza di Dio, ha coltivato in sé la PACE. Non c’è vera pace senza Dio.
La pace non è solidarietà. Non basta una giustizia umana.
Ci vuole lo sguardo, il cuore, la mente in Dio. Tutta la vita in Dio.
Una vita conforme a Dio, vera, e in conversione continua. Allora, la vita diventa PACE,
Questo incontro ha questo centro di riflessione: San Benedetto, la Pace dentro.
Parliamo tanto di pace. Desideriamo la pace. Ma la cerchiamo fuori, prima di trovarla dentro, nell’intimo. Di ricostruire la pace dentro di noi.
San Benedetto ha ricostruito il fuori, l’esterno di una società distrutta, perché ha puntato dritto alla ricostruzione del suo cuore. Ha puntato dentro, in Dio, per agire fuori.
Egli non ha voluto eminentemente e prima di tutto occuparsi del fuori, della società, della civiltà. Si è occupato del fuori ‘lavorando’ dentro di sé, con umiltà e modestia, con amore grande per Dio e quindi per l’uomo.
La sua Regola comincia con la parola: “Ascolta”. Parola fondante.
E spesso dimentichiamo che Benedetto ha prima di tutto ascoltato sé stesso, il suo cuore.
Si è messo quindi in ascolto di tutti, poveri e ricchi, ignoranti e dotti, perché dentro di sé ha cercato Dio, ed è rimasto sempre in ascolto, per tutta la vita, in costante ricerca del Dio vivo dentro di sé. Quell’ascolto interiore e profondo, che fugge la leggerezza, la smemoratezza, la rilassatezza, la mormorazione, Benedetto l’ha chiesto prima di tutto a sé stesso, prima di chiederla ai suoi figli.
Quella ricerca eminente di Dio – “se veramente cerca di Dio” (RB 58,7) – che chiede al candidato alla vita monastica, in primo luogo Benedetto l’ha chiesta a sé. Così ha costruito la vera pace. Esigendo da sé, prima che dal prossimo. Lavorando dentro, per cambiare fuori, ma senza contestazioni.
San Benedetto non ha voluto ridare un assetto di ordine, di pace, di armonia all’Europa distrutta del suo tempo. Non ha avuto grandi mete, cosmopolite, non ha pensato a un suo impegno sociale… non ha proclamato nulla al mondo.
Nel silenzio prima di Subiaco e poi di Montecassino, nell’orazione ardente, nell’ascolto continuo di Dio, ha coltivato la pace. E così ha contribuito alla ricostruzione di una civiltà distrutta.
La sua Regola ha fatto scuola. E la fa, oggi. Ma lui non ha voluto questo. Non ci ha proprio pensato.
Nella modestia, nel nascondimento del chiostro, lui ha pensato solo a una piccola regola per principianti, che impostasse la ricerca di Dio, sua e dei suoi monaci. Niente più.
Le grandi cose nascono nel silenzio e nella piccolezza. Nella modestia del cuore. E oggi, san Benedetto, è Maestro di pace. La sua Regola è scuola di pace.
Ma lui questo non l’ha chiesto, non l’ha voluto. Lui ha badato al suo cuore in Dio. E tutto il resto, il grande influsso sulla storia e sulle civiltà dello spirito benedettino, è venuto di conseguenza, da questa sua ricerca pura e totale di Dio.
Assimiliamo lo spirito di Benedetto. Coltiviamo la pace dentro. E saremo, nel nostro piccolo, testimoni di pace vera tra i fratelli!
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Estratti per la meditazione personale
Prologo: Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: "Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?". Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà: "Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila". Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!"".
Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere: Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio. Amare la castità, non odiare nessuno, non essere geloso, non coltivare l'invidia, non amare le contese, fuggire l'alterigia e rispettare gli anziani, amare i giovani, pregare per i nemici nell'amore di Cristo, nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole. E non disperare mai della misericordia di Dio. Ecco, questi sono gli strumenti dell'arte spirituale!
Capitolo XXXIV - La distribuzione del necessario: "Si distribuiva a ciascuno proporziona-tamente al bisogno", si legge nella Scrittura. Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze - Dio ce ne liberi! - ma che si tenga conto delle eventuali debolezze; quindi chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi, mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza, invece di montarsi la testa per le attenzioni di cui è fatto oggetto e così tutti i membri della comunità staranno in pace.
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La pace benedettina
Estratto da
“ATTESA DI DIO - Riflessioni sulla Regola”
Di Catherine Mectilde de Bar - Jaca Book 1982
Che pensate di questa terra che è dolce ai miti? È la terra dell’annientamento, perché mitezza significa una persona dolce, benefica, che porta la pace dappertutto e la possiede in sé. È una conoscenza che mette l’anima nel nulla: là si trovano tutte le grazie e benedizioni. Là le viene data in dono quella terra fortunata dove si trova Dio. Tale beatitudine è molto simile a quest’altra: «Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio». Quest’ultima esprime più particolarmente che siamo figli di Dio. Essa abita quel cuore come un figlio abita la casa di suo padre; l’operatore di pace mette pace in tutte le cose, porta una calma profonda nel suo intimo, e questo lo fa somigliare a Dio che è un Dio di pace.
(n° 2606 alla contessa di Châteauvieux)
Desideriamo la pace che Gesù Cristo dà oggi ai Suoi apostoli: è questo il frutto della Sua vita gloriosa. La pace è un tesoro di paradiso, non si trova sulla terra, è la presenza di Gesù che la opera... Questa pace divina è il sostegno dell’anima... Quando l’anima possiede questa tranquillità, Dio contempla Se stesso nel fondo di lei e v’imprime le Sue perfezioni divine... Quando Gesù dà la Sua pace a un’anima, le dona il Suo Spirito, il Suo amore. È una grazia meravigliosa avere questa pace che calma i turbamenti del nostro interno, scaccia il timore, tiene l’anima in un semplice e amoroso abbandono all’operazione divina... Cos’è questa pace se non la presenza di Gesù e la Sua dimora nei nostri cuori? Per questo lo Spirito Santo risiede là dove c’è pace, come ci assicura il profeta: In pace locus eius; e se noi la possediamo, lo Spirito Santo ci colma di amore divino.
(n° 325 conferenza, martedì di Pasqua, 1665)
Vedete un po’, sorelle mie, se avete partecipato alla grazia della Risurrezione: quel che stimo più vantaggioso di tale grazia è la pace che Egli dà agli apostoli. Gli evangelisti sottolineano che gliela donò tre volte; questo c’insegna che egli ci vuole in pace con Dio, in pace col prossimo, in pace con noi stesse.
Per avere pace con Dio, bisogna fare tre cose: la prima, non avere alcun peccato nell’anima, perché tra Dio e il peccato esiste guerra. Sono sicura che per grazia del Signore, questa la possedete; ma occorre lavorare per la seconda, che consiste nel liberarsi di certe imperfezioni abituali che dispiacciono a Dio e impediscono l’efficacia di questa pace divina. La terza consiste nel sottomettere la volontà a tutto ciò che Dio vuole da noi, non avendo né desiderio né progetto alcuno, poiché ordinariamente i nostri desideri sono il soggetto delle nostre inquietudini. Dico lo stesso per le cose interiori e che riguardano la nostra perfezione e l’eternità.
La seconda pace è con noi stesse e si acquista lavorando alla prima, perché, se ci badate, noi soffriamo turbamenti e inquietudini quando abbiamo offeso Dio: la coscienza è in disagio e nel rimorso, come pure quando ci lasciamo vincere da qualche scatto di cattivo umore. Si dirà forse che seguire i propri desideri e volontà è il mezzo di aver la pace. Ma questa è una pace viziosa, non è affatto la pace di Gesù Cristo, pace che si acquista e si conserva solo rinunciando a noi stesse.
Vi è una terza pace: quella col prossimo, pace così necessaria a ogni cristiano e ancor più alle anime religiose. Penso che sia impossibile, senza questa pace, arrivare alla perfezione cristiana o religiosa. Essa è più difficile da acquistare e da conservare della pace con Dio. La ragione è che i rimorsi di coscienza e i rimproveri che seguono ordinariamente il peccato e le imperfezioni, ci trattengono spesso dal cadere; ma la nostra natura è così sregolata dopo il peccato del nostro primo padre, che troviamo soddisfazione nel seguire le antipatie e le cattive disposizioni che nutriamo contro il prossimo. È su questo punto che vi esorto, sorelle mie, a lavorare fortemente e con costanza, onde meritare dal Signore la grazia di questa terza pace, così importante per la nostra perfezione.
Se essa è necessaria a ogni cristiano, a maggior ragione lo è alle figlie del Santissimo Sacramento, Sacramento di pace e d’unione. Perciò vedete che Gesù Cristo ce la dà dall’altare dopo che il sacerdote ha detto: Dona nobis pacem. Ci viene portata «la pace» da baciare*, che è ordinariamente la figura del Santissimo Sacramento o di un crocifisso. Bisogna fare quest’orazione con spirito interiore. I sacerdoti e gli officianti si abbracciano all’altare in segno di pace. Dunque, la pace è una partecipazione di Dio che per essenza è pace, perfezione in Dio così adorabile e permanente che nulla al mondo può turbare [...].
Nota*: All'Agnus Dei era antica usanza dei monasteri femminili passarsi un quadretto sacro, chiamato appunto «Pace», che ogni monaca baciava e passava alla vicina di coro.
(n° 3167 capitolo del venerdì di Pasqua, 1664)
Un’anima che possiede questa pace è troppo ricca, è sempre uguale nei diversi avvenimenti perché è stabilita in Dio. Questa pace divina è il sostegno dell’anima. Gustatela, carissima, non nei sensi, ma nello spogliamento da tutte le cose. Quando l’anima ha perduto le creature, gode di questa pace preziosa che tiene tutto in tranquillità, silenzio e solitudine [...] Tutto questo è più intimamente gustoso all’anima di quanto la parola possa esprimere.
(n° 1478 alla contessa di Châteauvieux, qualche giorno dopo Pasqua, 1659)
Che si può dire della grande santa Scolastica, se non che è un’anima nascosta in Gesù Cristo, così profonda nell’orazione, da aver acquisito un potere sugli elementi? Se Giosuè ha avuto il potere di far retrocedere il sole di più ore, la nostra gloriosa santa ha avuto il potere di sconvolgere l’ordine dei pianeti e la serenità del cielo, poiché a un solo moto del suo cuore, esso è stato costretto ad aprire le sue cataratte e a dare una tale abbondanza di pioggia, che sembrava un piccolo diluvio. E perché? Per possedere la gioia di parlare delle grandezze di Dio, delle Sue divine perfezioni e dei Suoi ineffabili misteri, che sono cibi deliziosi di cui i santi si saziano per tutta l’eternità, senza disgusto e senza mutamenti. Questa grande santa, sentendosi vicina a quel magnifico possesso e tutta infiammata d’amor di Dio, chiede al fratello di parlarle delle cose eterne per sollevare il suo cuore tormentato dalle fiamme di quel braciere che ardeva senza posa nell’anima sua... Non era l’affetto che portava al nostro glorioso patriarca suo fratello, benché lo amasse per la sua rara virtù, che la spingeva a pregarlo con insistenza di restare con lei, ma era per parlare di Dio ed esultare per le sue grandezze.
(n° 2608 a una religiosa, sulla festa di santa Scolastica)
Portiamo dunque questa sentenza di morte e moriamo sempre per vivere un giorno della vita di Gesù Cristo. È l’opera del Suo amore in noi e della Sua divina misericordia. Abbiate coraggio, quest’opera sarà compiuta in voi; restate in pace e in puro abbandono al Signore, senza ripensamenti e senza alcuna diffidenza, anche se aveste meritato l’inferno. Rimanete nell’amore di Gesù Cristo. A questo Egli vi attira. Non crediate che un moto d’orgoglio o di amor proprio vi faccia uscire da questa felicità. No, no, ma quando ciò vi accade, non fate altro che lasciarvi dolcemente riportare nella pace; e se questa mancanza vi lascia per qualche tempo in pena o in una piccola agitazione di cuore, sopportatela senza inquietudine e senza altra intenzione che di soffrirla in spirito di penitenza... Vi dico ancora che il vostro cuore è di Dio per la grazia e non naturalmente per voi stessa.
(n° 1331 conferenza)
Oh! Quelle che sono in pena, turbate, afflitte, vengano a cercare la pace e la calma di tutte le loro passioni ai piedi di questo adorabile Bimbo che si chiama Principe della pace. Crediamo come verità indubbia che la pace da noi spesso sentita nell’intimo ci dimostra che il Signore si avvicina per possederlo. Ma, sorelle mie, noi spesso Gli rifiutiamo l’entrata, non abbandonandoci abbastanza alla guida del Suo divino Spirito.
(n° 3060 conferenza)
Del nulla fate la vostra forza; infatti se una buona volta poteste sprofondarvi in esso trovereste il Paradiso in terra, e nessuna creatura potrebbe turbare la vostra pace.
(n° 416 sentenza)
Bisogna imparare a tacere all’interno e all'esterno. Il silenzio è così necessario che, senza di esso, la grazia non avrebbe possibilità di operare in un’anima. Cessate dunque di parlare e udrete la voce divina che vi darà una gioia inconcepibile. Quale ricchezza è il silenzio! Io sperimento davvero che la profonda solitudine è un raro mezzo per possedere e gustare Dio.
(n° 2567 argomenti spirituali diversi)
Io non potrò mai esortarvi abbastanza al silenzio; e trovo che non senza ragione san Benedetto lo raccomanda nella Regola così espressamente; perché è impossibile parlare molto senza commettere tante imperfezioni. Infatti, per poco che si parli, a mala pena si possono evitare; ecco perché, parlando molto è ben difficile essere esenti da tante mancanze e la carità verso il prossimo rimane spesso ferita. Se si potessero eliminare tanti discorsi e chiacchiere, saremmo tanto più nella pace. Se il nostro spirito non fosse occupato in tante bagattelle e inutilità, sarebbe più pieno di Dio.
(n° 950 conferenza, 1695)
Io vedo solo l’attimo presente: quello che segue lo lascio a Dio e sto attenta a non occuparmene. Perché altrimenti perderei non solo la grazia che è racchiusa nel momento presente, non usandone rettamente, ma in più mi esporrei a mille inquietudini, difficoltà e turbamenti di spirito che la vista di tanti affari mi causerebbe, e inoltre agirei secondo natura, il che sarebbe un gran danno.
Ciò non vuol dire che non abbia distrazioni su ciò che ho da fare, ma me ne distolgo con cura e me ne allontano dolcemente, come farebbe una persona che si ritira da una grande folla e, lasciando a Dio tutte le preoccupazioni, le vedo in Lui e lascio che Egli le governi secondo la Sua Volontà. È un gran segreto della vita interiore comportarsi così, perché altrimenti si perde la pace e la grazia racchiusa nel momento che possediamo e nell’azione che compiamo, e allora non si fa nulla di buono.
(n° 1021 argomenti spirituali diversi)
L’umiltà, a mio parere, è la più rara di tutte le virtù; ma quando un’anima è arrivata al punto di possederla sinceramente, è al colmo di una felicità inestimabile per il gran numero di ricchezze e grazie che possiede, di cui una delle più meravigliose è una pace così profonda che nulla al mondo può turbare. Voi sarete felice se potrete sostenere tutti i sacrifici necessari per pervenirvi solidamente; vi consiglio di applicarvi nel modo migliore e, a tale scopo, di chiedere un grande coraggio alla più umile di tutte le creature.
(n° 3038 a una religiosa, rue Cassette)
Dobbiamo esaminare spesso le nostre parole. Quante ne diciamo contro la carità! Con l’esame che faremo su questo punto, vedremo che non abbiamo circonciso la nostra lingua né mortificato i nostri sentimenti. Mortifichiamoli, sorelle, e anche le nostre parole; non si senta più tra noi nulla che si opponga alla carità.
Non condanniamo né biasimiamo nessuno, ma scusiamo ciò che ci pare difettoso nel nostro prossimo. Sarà un mezzo di conservare quella pace che non potrò mai raccomandarvi troppo, tanto è necessaria. Non parlo della pace con Dio, come la possiedono le anime che hanno la coscienza pura (non dubito che voi l’abbiate) e nemmeno di quella di cui godono le anime più sante; ma parlo della pace che dobbiamo avere tra noi, che alimenta l’unione dei cuori e permette che lo Spirito di Dio ci animi e ci dia veramente Lui quella pace in cui Egli dimora nell’intimo dell’anima.
(n° 2660 capitolo 1693)
Vi raccomando sempre la perfetta unione che si può conservare solo con una profonda umiltà. Se avrete queste due virtù, vincerete l’inferno e per conseguenza tutti i vostri nemici. Non siate mai divise, qualsiasi cosa possa capitarvi, una tentazione, o un’antipatia o un disgusto. Vivete nella pace divina che vi unisce grazie allo Spirito di Gesù.
(n° 117 alla comunità di Varsavia, 8 settembre 1687)
Amatevi a vicenda, ciascuna contribuisca da parte sua a mantenere nella comunità la pace e l’unione, poiché non formate che un solo corpo, così non ci sia tra voi che un sol cuore e un’anima sola; non vi sia altri a regnare che il Cuore di Gesù... Prendete sempre tutto in buona parte e, piuttosto che condannare, scusate; ciascuna si prenda a cuore di non manifestare più espressioni di critica: la carità ne va quasi sempre di mezzo. Se si pensasse bene che il prossimo di cui si parla è caro a Dio come la pupilla dell’occhio, che esso è il prezzo del sangue di Gesù Cristo, si starebbe molto più attente a non dir nulla che possa contristarlo, perché Dio stesso se ne ritiene offeso... L’unione dei cuori è frutto della virtù e della grazia del Cristo.
(n° 950 conferenza, 1695)
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