Incontro Oblati
4 dicembre 2016
Beata Suor Maria Fortunata Viti
Lo straordinario nell’ordinario. Al cuore dell’umiltà benedettina
“Se si perdesse la Regola, la si potrebbe riscrivere
osservando Suor Maria Fortunata! [1]
La piccola, grande figura della beata e monaca benedettina di Veroli Suor Maria Fortunata Viti (1827 – 1922) ci mostra un fiore semplice e raro, straordinariamente bello e prezioso, della vita monastica benedettina.
Chi fu suor Maria Fortunata?
Anna Felice Viti nacque a Veroli, caratteristica cittadina della Ciociaria, il 10 febbraio 1827. Già la data è un programma eloquente! La piccola nasce infatti sotto la protezione della nostra santa Scolastica, sorella gemella di san Benedetto. Terza di nove fratelli, Anna Felice nasce in una famiglia agiata di commercianti, caduta però in miseria a causa dei grossi debiti contratti dal padre, Luigi, per il vizio del gioco e del vino. La mamma, Anna, molto buona e retta, muore a soli 36 anni, per il dolore. Anna Felice ha 14 anni. È la più matura e preparata ad assumersi le responsabilità del governo e conduzione della casa, assieme alla sorella maggiore Agnese. Ma la più assennata e forte è lei. Di fronte alle difficoltà, si rimbocca presto le maniche, senza quasi avere il tempo di andare a scuola. Si impegna senza sgomentarsi, e si accolla senza recriminazioni il peso della famiglia. Per un po’, accanto a loro c’è lo zio sacerdote, don Giuseppe, fratello del papà, che con umiltà discreta e buon senso veglia sui nipoti e i loro problemi. Purtroppo, però, questa bella figura di zio prete, che con la sua moderazione e modestia deve avere ben inciso e giovato sui suoi cari, scompare presto dalla scena di questo mondo. Anche la sorella Agnese lascia presto la casa paterna, per entrare nel monastero delle Benedettine di Boville Ernica, e così, a 17 anni, la nostra giovane rimane sola a fare da mamma ai fratelli più piccoli, senza tempo e pensieri per sé. Impara a donarsi nel quotidiano, totalmente, lavorando sodo, senza possibilità di scelta. Semplicemente, impara a dimenticarsi, assumendo con amore ogni sacrificio, fronteggiando i problemi concreti del lavoro casalingo e della crescita dei fratelli più piccoli.
In un clima di casa non certo roseo, per l’intrattabilità di umore del padre, abbruttito dal vizio dell’alcool, Anna Felice – Felicetta, come la si chiamava – manteneva non solo il controllo del cuore e della situazione generale, ma insegnava ai fratelli a rispettare comunque il padre, esercitando nei suoi confronti, prima ancora di essere religiosa, un genuino spirito di fede, non privo di eroismo. Quando, la sera, il padre rientrava a casa, rifiutando in malo modo il cibo che la figlia gli aveva preparato, questa non perdeva la pace e il silenzio, e sempre, prima di ritirarsi, gli chiedeva in ginocchio la benedizione.
Tutto questo ci dimostra che non sono le circostanze esterne più o meno facili e felici a sostenerci, ma quanto abbiamo dentro, nel cuore. Anna Felice, ancora prima di diventare monaca, impara a prendere bene in mano e a fronteggiare le battaglie del cuore, per custodirlo, e vivere bene ogni situazione, anche la più contraddittoria. Prima ancora di entrare in monastero vive il programma che Papa Paolo VI le attribuirà alla beatificazione: Vivere lo straordinario nell’ordinario. Fare bene e più che bene, addirittura con eroismo, le cose di ogni giorno. Senza evadere dalla responsabilità quotidiana, senza fuggire dal presente, senza perdere mai la pace e l’equilibrio, né per sé né per gli altri.
Questi sono già i tratti tipici di un’anima benedettina: l’equilibrio – la semplicità – la pace – la modestia – l’umiltà – la serenità – la fortezza d’animo – la genuinità – la sodezza. E l’affidamento.
I fratelli riusciranno poi tutti bene nella vita, distinguendosi tutti per un amore particolare per il Santissimo Sacramento. Quattro delle cinque sorelle si fecero religiose; una di loro entrò anche lei nel monastero di Veroli, dove morì a 72 anni, nel tentativo fallito di salvare da un incendio una sorella inferma; gli altri si sposarono, e furono famiglie sane e felici. Persino una nipote, figlia della sorella Filomena, monaca agostiniana, morì in concetto di santità. Quanto contagia la santità!
Ma Felicetta era sempre ricorsa alla Madonna, per garantire il futuro dei suoi cari, ponendoli tutti, uno per uno, sotto il manto della Vergine. Quale protezione più potente?!
Riflettiamo su questa prima parte, per un confronto di vita con la nostra beata.
Notiamo come lei affronta le difficoltà della vita, come abbraccia la croce con amore, e ne trae frutti di bene e di pace.
Proviamo a verificarci su questo punto.
Dalla morte della mamma all’ingresso in monastero passano, per Anna Felice, quasi dieci anni. La giovane, per aiutare i suoi, va a servizio presso una famiglia di Monte san Giovanni Campano, non senza sentire l’umiliazione interiore di chi passa da un’estrazione piccolo-borghese allo stato di servitù. Eppure, anche nella famiglia Mobili la giovane Felicetta lasciò una scia di bene ineguagliabile, tanto che poi questi padroni la andranno a trovare in monastero, con riconoscente e devota stima. Quanta traccia lascia il bene che si fa!
Non mancò un buon pretendente: un giovane di ricca famiglia di Alatri chiese la sua mano, trovando Felicetta buona, brava e bella. Ma la nostra giovane declinò prontamente la seria proposta. Ben altro aveva in cuore. Quella chiara vocazione che le occupava il cuore fin da bambina, e che in questi anni di permanenza nei luoghi di vita di san Tommaso d’Aquino – cui sr. M. Fortunata restò sempre particolarmente devota – facevano ormai maturare in lei la decisione a bussare senza indugio alla porta di un monastero.
Anna Felice aveva ormai 24 anni, e il tempo si era fatto maturo: aveva preso la ferma decisione di entrare nel monastero di S. Maria Ripa a Pontecorvo. Il giorno prima dell’ingresso, esattamente il 20 marzo 1851, Anna Felice si reca al monastero di Veroli per salutare due monache sue compaesane. La biancheria del corredo di Felicetta era già stata spedita a Pontecorvo, e tutto era pronto per l’ingresso. Sennonché, il 21 marzo, nel giro di ventiquattr’ore, Anna Felice entra proprio a S. Maria de’ Franconi in Veroli. Cos’è successo? Mentre la giovane si trova in parlatorio, passa – per caso! – Donna Maria Cecilia Mazzoli, e, ispirata, comprende come per un sentore chiaro e netto che il Signore chiama questa giovane così devota proprio nel loro monastero. Con coraggio, le chiede: E tu avresti piacere ad entrare da noi? La risposta di Anna Felice, colta di sorpresa, è: Debbo entrare domani nel chiostro di S. Maria Ripa a Pontecorvo; il mio corredo è già là…”. Queste espressioni danno adito alla monaca ad ulteriori domande, con la conclusione franca: Tu puoi entrare anche da noi, il tuo corredo lo manderemo a prendere. E, dopo un attimo di riflessione, Anna Felice sente nella voce di Donna M. Cecilia quella di Dio, che le indica il convento in cui la vuole: Sì, entrerò in questo monastero. Donna Cecilia corre subito a chiamare l’Abbadessa, la quale accorre in parlatorio, con le monache consigliere, e, deliberato unanimemente il consenso per l’ingresso, dopo votazione e assoluto consenso comunitario, la giovane viene accolta, nella lieta festa di san Benedetto, non prima di aver avvisato il Vescovo, il quale benedice con la sua piena approvazione.
Questa storia fa sorridere! Ma, dove noi siamo più inclini a leggere l’astuzia e quasi la truffa, il furto di una vocazione sottratta al monastero cui era candidata, la postulante, assieme alle monache di Veroli, vi legge la mani di Dio, della Sua Provvidenza, del Suo amore che può cambiare e riplasmare le disposizioni umane. Dove noi vediamo la mano dell’uomo – o della donna, furba, anche se monaca! – la nostra beata fin dalla giovinezza vede e legge Dio, la Sua volontà, e si lascia interrogare, mettere in gioco, portare.
Proviamo a riflettere su questa assoluta disponibilità alla Provvidenza, che può cambiare e dirottare il nostro cammino… l’importante è vedere Dio, scoprire Lui, oltre gli eventi o i cambi di programma. Non dare per scontato ciò che capita…
La Comunità delle Benedettine di Veroli,al tempo dell’ingresso di Anna Felice,è composta di 18 sorelle coriste e 14 converse. Il monastero si occupa anche di un educandato, da cui nascono buone vocazioni religiose. Anna Felice viene ricevuta in monastero come conversa. Queste le su motivazioni: “Nessuna considerazione o mira umana mi ha indotto ad abbandonare il mondo. Io sono entrata nel chiostro unicamente per servire Dio e farmi santa” [2]. Il desiderio di santificarsi è il motore che guida la giovane in monastero,e che la modella lungo il cammino: “una volta che ho la bella sorte di farmi santa, se la perdo, la perdo per sempre. E se ho la fortuna di potermi far santa, dunque mi voglio fare santa. Signore, datemi la forza!”.
Notiamo il dunque voglio! della giovane. In questa determinazione sicura della volontà c’è tutto il suo assenso al piano di Dio. “Una donna quasi analfabeta dice la cosa più esatta nel modo più semplice, arrivando ad una essenzialità di espressione delle due forze componenti: la libera scelta: “Dunque voglio farmi santa” e la indispensabilità della grazia: “Signore, datemi la forza” [3].
Il Vescovo Mons. Mariano Venturi, che segue da vicino la comunità monastica, vero fiore all’occhiello della sua Diocesi, notando le attitudini anche intellettive della giovane, propone all’abbadessa di ammetterla tra le Sorelle coriste. La giovane però non fa leva su questa possibilità, e chiede e ottiene di poter essere un’umile conversa in monastero. Quando la Madre abbadessa le chiede che cosa sappia fare, lei, in ginocchio, risponde: “So cucire e filare, e compiere le varie faccende di casa”. Chiede l’umiltà. Dirà, poi, alla sua beatificazione, Papa Paolo VI: “Umiltà: Maria Fortunata personifica questa virtù. La sua grandezza è quella piccolezza. Siamo nel quadro del Magnificat”.
L’umiltà: un tratto tipicamente benedettino. Un profumo che ci riguarda,e che Maria Fortunata emana da subito in monastero, e già per sempre. Per tutta la vita monastica sarà, semplicemente, aiuto-guardarobiera e aiuto-infermiera. Semplicemente. Mai ufficiale, mai in prima linea. Con gioia e amore, nell’umiltà ha dato tutto. “Per santificarsi non si richiedono grandi opere. Del resto Gesù fu per trent’anni semplice artigiano. (…) Che cosa può insegnare a noi oggi una suora che passa in clausura settant’anni a filare e a rattoppare biancheria e vesti sdrucite?” [4].
Di qui passa il messaggio delle Beatitudini evangeliche. “Gesù aveva realizzato nella bottega di Nazareth i paradossi del discorso della montagna, prima di averli predicati…. Nel cuore c’è il vero spazio di Dio, più che nell’esteriorità delle grandi opere” [5].
Quel che colpisce è che, di fronte alla proposta del Vescovo e dell’Abbadessa, la nostra giovane chiede, con grazia e umiltà, pur riconoscente del dono (il Vescovo è pronto a pagare la dote!), di poter essere annoverata tra le converse, per restare piccola, nascosta, inosservata, e poter così ricevere più occasioni per servire Dio e le Sorelle. Il senso profondo del suo niente, della sua indegnità non le permette di sentirsi a suo agio tra le coriste. Anni dopo, quando una giovane conversa si lamenterà di non poter essere monaca corista, suor M. Fortunata le dirà: “L’essere corista è una grande dignità, le monache assomigliano agli angeli che danno gloria a Dio. Però l’umile stato di conversa è quasi un dono maggiore, trovandosi nella facile condizione di poter rimanere sempre nascosta e di potersi umiliare più spesso per amore di Dio” [6].
La nostra giovane, che dalla vestizione accoglie il nome di Suor Maria Fortunata, compie il suo noviziato nel segno di questa rinuncia, che è offerta di sé gioiosa e totale.
Nella Regola di san Benedetto, così limpida e regolare, lo spirito della novizia si ritrova pienamente. Le consorelle attestano l’esemplarità del suo noviziato, soprattutto per la sua umiltà, carità, sollecitudine nel servire le Sorelle, delicatezza e pietà. Quel che colpisce è la sua forza nel lavoro, nel sobbarcarsi con grande spirito di sacrificio la fatica, come se niente fosse.
L’8 settembre 1853 emette i voti perpetui, previo assenso unanime della Comunità, che ha ormai imparato ad apprezzare il grande dono che Suor M. Fortunata è per tutte.
Una delle espressioni più care alla nostra conversa è: “Potenza e carità di Dio!”. Nella natura, nelle situazioni, nelle persone suor M. Fortunata non tarda a vedere il tocco e la mano di Dio, a stupirsene, a contemplare, a commuoversene.
La Comunità monastica si sveglia alle 3,30. “Potenza e carità di Dio!” Per vivere così, alzandosi di norma nel cuore della notte, ci vuole coraggio, per ripetere con slancio rinnovato questa bella giaculatoria! Ci vuole fede grande e genuina!
Veramente la fede di questa nostra conversa è adamantina, e, da brava benedettina, cristocentrica. Devotissima alla SS. Trinità, le dedica il giorno di domenica, votandosi al Dio Uno e Trino in particolare relazione al Verbo Incarnato. Davvero questa conversa vive di una sapienza teologica infusa, che non ha bisogno di trattati, ma è concreta, perché vive in Dio.
Al suono di ogni ora dell’orologio, suor M. Fortunata si unisce al mistero dell’Incarnazione, e prega così: “Benedetta sia quell’ora che s’incarnò Nostro Signore, nel seno di Maria, per salvare l’anima mia!”. Per prepararsi bene al S. Natale, impiega nove settimane, con preghiere, atti di amore, di rinuncia, custodia della purezza, sacrifici, come per preparare spiritualmente il corredino di Gesù Bambino. Sono pratiche che magari ora fanno sorridere… ma intanto l’anima della nostra Sorella si eleva, e nella prassi.
Assieme alla grande devozione per l’Incarnazione del Verbo, Maria Fortunata nutre un grande amore per la Passione di Nostro Signore. Tutto le è di stimolo per unirsi alla Passione di Gesù: anche il semplice salire le scale in monastero lo vive in unione a Gesù che sale il Calvario…
Ogni giorno recita la coroncina delle sante piaghe, con l’offerta del Sangue di Gesù.
Devotissima al Mistero Eucaristico, sensibile alla Riparazione degli oltraggi contro la presenza reale di Gesù nel SS. Sacramento, mentre le monache coriste fanno la ricreazione, lei sta con Gesù, e va anche di notte a farGli visita. A chi la sgrida perché, anziana, non misura con prudenza le forze, confida che è portata da Gesù su invito dell’angelo custode.
A Veroli, come in ogni Comunità benedettina, alla preghiera intensa si alterna il lavoro assiduo. Da subito, si può dire dallo stesso giorno di ingresso in monastero, Maria Fortunata viene subito impiegata a filare, nei lavori di cucito, e come aiuto-guardarobiera, dal primo all’ultimo giorno della sua vita monastica, dunque, per più di settant’anni. Aiuto-infermiera lo è per soli tre anni, con una cura e carità encomiabili verso le malate, nelle quali con facilità vede Gesù sofferente. Anche tra gli ottanta e i novant’anni – muore a 95 anni – suor M. Fortunata va avanti a filare, con atti di fede e di virtù non comuni. Un giorno, non riuscendo più a cucire per l’abbassamento forte della vista, chiede al Confessore di benedire i suoi occhi. Dopo la benedizione, con grande slancio e fiducia suor Fortunata torna ad infilare l’ago e a cucire, esclamando: “Oh, potenza della benedizione Sacerdotale! Ora posso lavorare di nuovo e vedere bene!”. Un’altra volta, che non riesce più a filare e a girare il fuso a causa dei reumatismi, dopo la benedizione del Confessore alle braccia e alle mani, torna a filare a più non posso, con gioia rinnovata. Alla fede nel ministero sacerdotale si aggiunge una grande confidenza nel suo angelo custode, che l’assiste nei lavori. E veramente sembra che questa piccola conversa sia legata al Cielo con un filo speciale, e concretissimo. Nel lavoro resta calma e serena, ponderata, e riesce a fare tutto, anche quando le Sorelle, approfittando della sua sordità, le aggiungono altro lavoro, senza che lei le senta arrivare… e suor M. Fortunata procede, sgobba, senza perdere tempo, senza perdersi o lamentarsi mai, e sempre pregando… fa scorrere continuamente il fuso, e insieme prega il santo Rosario, pensando alla salvezza delle anime.
Il 15 maggio 1863 Papa Pio IX, in visita a Veroli, si reca anche al Monastero di santa Maria de’ Franconi, e… succede un fatto curioso. Ascoltiamolo dalla cronaca:
“Sul trono del Papa salirono prima le monache coriste in cocolla… sfilavano a una a una e baciavano il piede del Vicario di Cristo. Dopo le coriste, ecco le converse, senza cocolla, ma con il velo bianco, come corolla di giglio. Il Papa guardava compiaciuto e sorridente. Quando toccò a suor M. Fortunata, questa baciò il piede, come le altre. Tutta l’anima era affacciata negli occhi. Sembra che per la commozione, dopo il bacio del piede, incespicasse. Pio IX la guardò, la sorresse, poi le strinse le mani e la invitò di nuovo a ripetere il gesto, quasi a soddisfare a pieno la devozione al Vicario di Cristo di quella monaca. Suor M. Fortunata si inginocchiò e baciò il piede una seconda volta. La cosa fu notata da tutte le religiose e interpretata come un ‘privilegio’ che il Papa concesse istintivamente e forse per l’impressione che ebbe di trovarsi davanti ad un’anima segnata da Dio (…) Pio IX non aveva concesso un segno di distinzione alla badessa o a qualcuna delle coriste in cocolla, ma la sua attenzione si era fermata su sr. M. Fortunata. Più verosimilmente si trattò di un puro incidente, che diede spunto ad una semplice espressione di bonarietà di Pio IX. Ma l’umile conversa l’aveva meritata l’ammissione al doppio bacio del piede del Papa!” [7].
Sì, un puro incidente… ma in cui passa la mano di Dio, la predilezione della Provvidenza per chi è più piccolo ed umile… senza nulla togliere all’Abbadessa e alle Sorelle di Coro!
Del resto, la devozione di questa conversa per il Sommo Pontefice è stata grandissima. Davanti al tabernacolo, suor M. Fortunata è solita pregare così: “Signore Gesù Cristo, ti raccomando il tuo rappresentante in terra, il Santo Padre. Egli ha su di sé la parte più pesante della tua croce. Abbrevia la mia vita e allunga la sua, perché egli deve guidare la tua Chiesa ed ha perciò bisogno del tuo aiuto”. Suor M. Fortunata vive ed offre per l’unità della Chiesa e dei cristiani, ed è disposta anche a dare la vita per la conversione degli infedeli, sostenendo con i suoi sacrifici i missionari nella loro opera di evangelizzazione. Si sente coinvolta e responsabile di fronte a un peccatore che non si converte, e sente, e porta su di sé con la preghiera e la sofferenza il peso delle anime che sono in pericolo mortale. Le consorelle hanno testimoniato che, quando si voleva la conversione di un peccatore, tutte ricorrevano a lei, perché di questo era specialista…
Ormai ci è chiaro: il dono di suor M. Fortunata è l’umiltà. Il desiderio dell’ultimo posto, del sentire basso di sé. In linea con il 6° e 7° grado della scala benedettina dell’umiltà.
Quando, in presenza delle coriste, l’abbadessa la invita ad avvicinarsi al gruppo, suor M. Fortunata obbedisce prontamente, ma dentro le costa tanto, e lo si vede dal suo rossore.
Di fronte alle occasioni un po’ contrariante, lei non si offende né scompone, ma ripara e supera con più grande umiltà e carità ogni contrasto. Un giorno una Sorella le dice: “Sa, se non la trattano molto bene, non se ne affligga… E lei: “Oh! Ma deve essere così!. Io prego Dio tutte le mattine nella santa comunione, che mi faccia disprezzare, altrimenti, come potrei farmi santa?”.
A una consorella piuttosto grossolana, che sembra fare apposta a stuzzicarla, lei con semplicità le si rapporta con maggior garbo e gentilezza, chiedendole scusa con sincerità. Si mantiene dolce, serena, affabile. Ha compassione per chi soffre, partecipa. Se le si parla di cose futili e mondane, lei lascia cadere il discorso, e prega. Il suo stesso portamento esprime umiltà, compostezza, freschezza interiore, la sua modestia d’aspetto suscita stima e rispetto. Il suo raccoglimento porta a Dio.
C’è materia viva per un bell’esame di coscienza.
Certamente l’umiltà concreta, di vita, è frutto di un cammino. Ma bisogna volerlo questo cammino, e iniziarlo una buona volta!
L’umiltà vera la si vede dall’obbedienza. E l’obbedienza di suor M. Fortunata è semplice, spontanea, limpida. Nell’abbadessa lei vede Gesù, come vuole la Regola benedettina. Quando la Madre dava degli ordini generici, rivolti a tutta la Comunità nel suo insieme, suor M. Fortunata li prende come se fossero proprio per lei, e se ne sente responsabile, e agisce all’istante.
Ma anche verso i Confessori, oltre a uno spirito di fede soprannaturale, la nostra conversa nutre obbedienza profonda, che non ha bisogno di tante spiegazioni. Si fida e si affida, senza dubbi o perché. Una volta che il Confessore vuole spiegarle meglio un tema che lei gli ha sottoposto, si sente dire: “Grazie, padre, mi basta. Il rappresentante di Dio ha parlato. Mi basta”.
Non occorrono trattati per chi vuole andare dritto a Dio!
La sua offerta per i Sacerdoti è quotidiana. Ha lasciato scritto: “Mattina e sera prego assai per i Sacerdoti e i Religiosi affinché il Signore dia loro la salute e li faccia crescere in santità per la carità che fanno al prossimo. Dico tante altre cose alla Madonna affinché dia loro la forza per sopportare le fatiche che fanno per le anime”.
Robusta nel sacrificio del lavoro e della penitenza, tuttavia sr. M. Fortunata è degna figlia di san Benedetto per il grande equilibrio psicofisico che la tiene nell’alveo dell’obbedienza, anche se, per sua natura, sarebbe molto inclina alla penitenza esterna. Ma sa che, per Benedetto, c’è più merito nella mortificazione della volontà propria che nelle più grandi penitenze decise di propria testa, senza il “bene dell’obbedienza”.
Amante della povertà, sr. M. Fortunata ha usato lo stesso scapolare, ben rammendato, naturalmente, dalle sue mani d’oro di guardarobiera, per settant’anni! Partecipe della sorte dei poveri, non ha mai chiesto niente per sé e di superfluo, e, come vuole la S. Regola, ha sempre considerato le cose del monastero con rispetto sacro, con gran cura di tutto, e trasmettendo questa cura alle consorelle.
Uno spazzacamino di Veroli, che, da piccolo, ogni anno bussava alla porta del monastero con il padre, il quale aggiustava le vecchie pentole di rame delle monache, dopo la morte della conversa dirà: “Tutte buon e le monache rinchiuse, ma quella era più buona di tutte. Un angelo. Con che cuore mi dava la zuppa calda, e mi parlava di Dio e della necessità di salvare l’anima, e del Paradiso!”.
Ci sarebbe ancora molto da raccontare della vita di questa nostra beata dell’Ordine: della sua lotta spirituale, che non ebbe sconti, dei suoi doni soprannaturali, tra cui lo spirito profetico e la lettura dei cuori, della sua fortezza, come ancora, e qui gli aneddoti sarebbero innumerevoli, della sua invincibile fede. Rimandiamo, per chi volesse conoscerla meglio, alla lettura diretta della sua vita. Ma, di questa umile monaca benedettina, che ha concluso la sua esistenza dopo ben 72 anni in clausura, ancora lucida e colma di amor di Dio, cosa ci resta nel cuore, se non, conoscendola da vicino, la nostalgia di una vita vera e santa, che non ha perso la ‘partita’ terrena, la possibilità unica che si ha sulla terra, di crescere ogni giorno nell’amore del Signore e del prossimo?!
Non ha fatto niente di straordinario suor Maria Fortunata.
Ma ha fatto tutto, ha fatto le più umili cose, nel modo più straordinario. Le sue giornate sono state una continua preghiera. E ha risposto così nel modo più pieno alla chiamata di Dio, al Suo disegno su di lei, per la vita eterna.
Dopo la sua morte, in monastero resta un’impressione viva della cara conversa, ma nessuna delle Sorelle, né l’Abbadessa, pensano a un eventuale iter verso la beatificazione. Solo i Confessori e i vari Direttori spirituali che si sono succeduti lungo quegli anni in monastero hanno unanime e chiara coscienza che sr. M. Fortunata è stata molto… speciale. Ed è stato uno di questi, Padre Corrado da Alatri, Cappuccino, ad avere avuto l’intuizione più chiara della santità di quest’anima semplice. Proprio lui, poi maestro dei novizi a Palanzana, in provincia di Viterbo, le raccomada, tre anni dopo la morte, un novizio che dev’essere operato alla gamba. Padre Corrado gli dà la corona del rosario che era stata di sr. M. Fortunata, il giovane la applica alla gamba e… la gamba guarisce, non c’è più bisogno dell’operazione.
Ben presto, la fama di santità della piccola conversa si diffonde a macchia d’olio.
Ma il vero miracolo di suor M. Fortunata è stata la sua vita pienamente benedettina: preghiera e lavoro, nascondimento e gioia, riparazione per i peccatori, e confidenza assoluta in Dio. Una piccola, grande vita, che ci parla, ci provoca, ci illumina sulla verità del nostro essere al mondo, anche come oblati/e del nostro santo Ordine: più siamo di Dio, più siamo con Dio, più siamo benedizione per il prossimo, più diventiamo luce, anche nelle mansioni più nascoste e abituali dei nostri giorni. Nulla è piccolo, nulla è monotono o sempre uguale, se l’Amore concreto di Dio illumina il nostro cuore, e dirada ogni tenebra e tristezza.
[1] Dalla testimonianza della consorella suor Maria Teresa Cianchetti.
[2] Andrea Sarra, Potenza e carità di Dio. Beata Maria Fortunata Viti, Monaca Benedettina, Roma 1967, p. 133.
[3] Ibidem, p. 134.
[4] Ibidem, p. 136.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem, p. 219.
[7] Ibidem, pp. 208 – 209.
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