Incontro Oblati
14 giugno 2015
La mitezza: virtù debole?
È difficile essere miti?
Sì, è difficile per tutti. Miti non si nasce. Si diventa, lungo tutto il corso della vita, concorrendo all’opera di Dio in noi, corrispondendo alla grazia.
Va di moda oggi la mitezza?
Per niente! La società di oggi non esalta la mitezza: per i più, mitezza è sinonimo di debolezza, di mancanza di grinta e di coraggio, di pavidità, se non di vigliaccheria.
Ma allora, perché a noi interessa così tanto?
Ma… ci interessa davvero?! Ne siamo sicuri?
“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita…” (Mt 11, 28-29)
Gesù Cristo è il mite, l’umile di cuore. Solo Lui.
E la nostra vita vuole essere imitazione di Cristo. Vuole esserlo davvero?
Se sì, allora il parametro per noi è chiaro, limpido. Allora la mitezza diventa una meta a cui guardare, perché Gesù ci porta proprio lì. Per questo san Benedetto ha intessuto tutta la sua Regola con il filo d’oro e portante della mitezza, perché è chiaro: la vita evangelica porta proprio lì.
Nessuno nasce mite. Neanche i monaci sono miti. Ma vogliono diventarlo, almeno, ci provano: e solo guardando infallibilmente a Cristo, assolutamente a Lui, ci arrivano.
La mitezza è via monastica, in quanto via evangelica. San Benedetto, del resto, non ha inventato proprio nulla facendo della mansuetudinis Christi l’emblema dei suoi monaci. Ogni fondatore di vita monastica, come ogni santo, sceglie questo, passa di qui, e sempre a sue spese: perché sceglie Gesù Cristo, e la grazia lo porta.
Ci aiutiamo con un limpido esempio di fondatore, che traiamo dalla sorgente della storia del monachesimo: san Pacomio, padre del cenobitismo. A lui il nostro san Benedetto deve molto!
Pacomio, la cui testimonianza è documentata da ben quattro Vite in greco, due in copto, una in arabo e una in siriaco, era un giovane pagano, imbattutosi nella forza della testimonianza cristiana durante il servizio militare a Tebe: subito vi si converte, e, affascinato dalla vita solitaria, intraprende la vita monastica presso un asceta famoso, Palamone, che gli sarà maestro, finché Pacomio stesso non diverrà, per volontà divina, fondatore di un primo cenobio, e capace di trasmettere ad altri la vita ricevuta. Ma proprio qui viene il bello.
Pacomio custodisce ed è portatore di un dono. Ma i suoi primi discepoli, che pure accorrono al cenobio per seguire il Signore, non riconoscono questo dono, e – scrive il biografo – non hanno il cuore sinceramente rivolto al Signore. Si tratta di contadini, che desiderano un lavoro più alto di quello che svolgono, ma non sono disposti all’umiltà, all’obbedienza. E allora, Pacomio cosa fa? Forse che si altera ed adira? Per niente. Fa lui, ripara l’incomprensione dei figli con l’amore ed il servizio umile, sollecito e buono, che si china con misericordia sulla debolezza dei discepoli. Sceglie, proprio per la debolezza dei discepoli, di farsi loro servitore.
A leggere queste pagine c’è da reagire, con la nostra sensibilità e reattività moderna, se non si comprende l’intima, evangelica forza di tanta mitezza. Sentiamo l’avvincente narrazione del Gobry:
“Egli distribuiva a ciascuno la razione che gli conveniva, costringendosi a svolgere il ruolo di economo e di cuoco, servendoli a tavola, mente per sé si accontentava di un tozzo di pane accompagnato da un pugno di sale (…) C’era, in ciò, un atteggiamento più di servitore che di padre” [1].
Ben lontani dallo scomporsi o dall’andare in crisi di fronte all’umiltà del maestro, che non li smuove né commuove, non li tocca proprio, quei presunti discepoli si adattano con comoda convenienza a tutte quelle premure, e, in più, disobbediscono sfacciatamente all’abate. Certamente il comportamento del padre, Pacomio, è pedagogico: mira a condurli a conversione attraverso la sua impareggiabile bontà a tutta prova. Ma quel che edifica in lui, oltre alle modalità di relazionarsi con loro, chinandosi verso la loro debolezza, sono la paziente attesa, la fiducia nei tempi di Dio, la speranza che sia il Signore a toccare i loro cuori attraverso la sua umiltà.
Ce ne vuole di forza, per essere miti così, sui tempi lunghi, senza risultati e riscontri immediati. Ce ne vuole di mitezza, e dunque di fortezza, visto che “cinque anni dopo, le cose stavano ancora così”. E dopo cinque anni, senza risultati di conversione, cosa fa il buon padre?
Prega. Prega, e pazienta ancora: “Una notte, si ritirò da solo in disparte, elevando con tutta l’anima preghiere al cielo, in un lungo grido di adorazione e fiducia”.
La mitezza è anche questo. Parlare con Dio, cuore a cuore, gridare a Dio, a tu per tu, con fiducia, con spirito filiale. Non volere cambiare il mondo, e fare rivoluzioni, prima di aver “fatto fuori” ogni ragione davanti a Dio, lottando con Lui, dialogando intimamente con Lui.
Qui c’è il cuore di ogni vera battaglia, per diventare miti con il prossimo, e forti con se stessi. Qui, nella preghiera, si gioca la ‘guerra’ più importante: quella del proprio cuore, levigato, trasformato, convertito da questo grido di adorazione.
E il tempo passa, ma i discepoli non cambiano. Solo dopo averle tentate tutte, ed essere passato finalmente alla correzione orale, Pacomio mette alla porta con decisione i finti monaci, li congeda con coraggio, e purifica finalmente il clima torbido di quel primo cenobio. Quelli, ancora non capiscono, e si risentono, incapaci di rileggere tutta la pazienza portata dal maestro.
Ora, vediamo se quello del padre del cenobitismo non è un grande esempio di mitezza. Prima di insegnare, dà l’esempio: serve, si fa umile, si abbassa per amore di Cristo. Prima di correggere, attende. Dà fiducia ai tempi di Dio, crede che è Lui ad operare, non decreta condanne, non si sovrappone all’azione di Dio prima del tempo e non brucia le possibilità del prossimo. Tutto questo è mitezza.
Prima di intervenire, e ‘tagliare’, prega, e prega lungamente, fiduciosamente.
Si fida di Dio e della potenza della preghiera.
Prima di… Noi viviamo nel tempo della continua reattività.
Si agisce subito, tutto subito. Non si ha più la pazienza di attendere, di costruire piano piano il cammino, nella grazia e potenza di Dio.
Mitezza è fiducia. Notiamo come la fiducia prepara la mitezza.
Mitezza è capacità di attesa, non reattività immediata.
Ma ci vuole fortezza. Esercizio costante di fortezza. La mitezza non è debolezza. La mitezza si unisce sempre alla fortezza, è espressione di fortezza.
Per questo, quando tutto è compiuto, quando è esaurita ogni risorsa e possibilità, Pacomio agisce per la verità e la giustizia. Senza verità e giustizia non può esserci mitezza: ma sempre passando dall’alto, da Dio. E mai a buon mercato, sempre pagando un prezzo sulla propria pelle.
La mitezza diventa così testimonianza, martirio intimo, partecipazione d’amore, sofferta, al dolce patire del Maestro divino. Pacomio, primo rappresentante della “fortissima stirpe” dei cenobiti, è già tutto questo.
Ma anche Benedetto è tutto questo.
Mite e forte è la Regola, come la vita di san Benedetto: piccolo gioiello di sapienza, dove la mitezza risplende come il ‘fiore all’occhiello’ più bello del monaco, come la sua strada, la via maestra, perché Cristo è il suo modello.
E basta scorrere anche velocemente la nostra santa Regola, per accorgerci che la mitezza che san Benedetto esalta non è affatto una virtù debole, bensì il dono dei forti:
“Il monaco (leggi: l’oblato/a) se non è un uomo mansueto, tradisce la sua vocazione, smentisce la sua identità. Tutta la Regola benedettina propone al monaco – nelle varie situazioni che gli si presentano – la scelta della mitezza, il distacco pronto e generoso da sé per dare la precedenza alla ricerca pura di Dio e al bene altrui (…). Mansueti nel vero senso evangelico non si nasce; lo si diventa per dono di grazia. (…)” [2].
Dov’è rivolto il nostro sguardo? Verso il Signore Gesù? È veramente rivolto a Lui? Chiediamocelo con sincerità.
Così capiamo come non possiamo, noi monaci e oblati benedettini, non desiderare, almeno, di assumere a poco a poco la mitezza che Gesù ci mostra, a partire dal Suo Volto di misericordia, non cercare almeno un poco di assomigliarGli, senza le solite scuse della nostra debolezza, dei difetti che ci ritroviamo, ecc.. Se no, la vita cristiana è una farsa, non è vera.
Quali sono i sentimenti del Cuore di Cristo?
Forse la durezza, l’arroganza, la furbizia, la prepotenza?!
O non sono sempre e comunque l’umiltà, la compassione, la dolcezza, la docilità, la mitezza?
Certamente non è facile arrivare qui, puntare con slancio alla “misura alta” di Gesù Cristo: ma non possiamo, non vogliamo avere altri programmi di vita che Lui.
Bisogna volerlo, e restare vigilanti:
“Solitamente a noi non manca questo desiderio; manca però la capacità di riconoscere nelle situazioni concrete della nostra esistenza la realtà della croce da abbracciare, l’ora di grazia di cui approfittare. Accetteremmo la prova da Dio, ma non dagli uomini. Ci immaginiamo che sapremmo tacere ed essere miti davanti al Signore, se fosse lì presente a darci un ordine o a farci un rimprovero, ma non è la stessa cosa davanti agli uomini! In tal modo non ci rendiamo conto che Gesù ha subìto da noi l’umiliazione – da noi, uomini e peccatori, Lui, Dio, innocente! – e che Egli è stato crocifisso da noi… Troppo facilmente noi separiamo il disegno di Dio dalla storia umana in cui si va misteriosamente compiendo. Le nostre resistenze e ribellioni, le nostre contese e insubordinazioni, che riteniamo legittima difesa dei sacri diritti della nostra persona, tradiscono non di rado nel nostro comportamento una concezione ancora ben poco cristiana della vita (…) È certo che dove non c’è amore e mitezza d’animo Cristo non regna ancora” [3].
Se il Signore è passato per questa via, noi dobbiamo chiederci seriamente, senza ipocrisie con noi stessi, se vogliamo davvero la via del Christus patiens, oppure, sì, lo diciamo a parole, lo pensiamo anche, magari quando siamo in adorazione, ma poi, in concreto, e nelle occasioni un po’ contrarianti, seguiamo la mondanità…
Certamente ci è molto più facile e naturale questa via, non è facile esercitare la mitezza: è una vera arte del cuore e della volontà, di questa benedetta ‘volontà’ che vuole restare proprietaria di sé. Dice bene padre Guillaume, con simpatico realismo:
“È infatti più facile fare 100 km quando siamo noi che lo proponiamo, piuttosto che 100 m quando ce lo chiedono con un tono che talvolta ci dispiace… Facciamo allora l’esperienza di una resistenza in noi, di una volontà che si oppone, ed è un’esperienza essenziale, preliminare a ogni vera obbedienza” [4].
È sempre salutare sperimentare che non siamo obbedienti, che non siamo miti, per iniziare a desiderarlo, e volerlo essere davvero.
Non reagire subito, lasciar sbollire i ‘fumi dell’ira’ quando ci investono, rispondere con un sorriso di bontà quando ci arriva una ‘puntura di spillo’ o ci viene calpestato un piede, può essere anche un tantino eroico, sì. Ma tutto dipende da dove ci concentriamo: se, anziché fermarci sul nostro piede dolente, guardiamo più su, al Signore Gesù, allora l’orizzonte si allarga.
Guardiamo a Lui, per diventare miti. È tutta questione di sguardo e di prospettiva. È tutta questione d’amore. Amare è diventare come Gesù.
Chiediamoci:
- Gesù cosa farebbe, come sarebbe il Suo sguardo?
- Gesù come risponderebbe, come suonerebbero qui le Sue parole?
- Come risolverebbe questa situazione?
- Come amerebbe, fino a che punto si donerebbe?
Sentiamo Lui con noi, al nostro fianco. Solo con Lui possiamo diventare miti, trovare la forza bella, sana della mitezza, che non è masochismo, ma armonia di una vita che sa attraversare la pasqua cantando.
Diciamocelo chiaro: l’oblazione benedettina è un aut/aut.
Non è un bel titolo né un’onorificenza, e non può essere compromesso tra il mondo (come mondanità, come mentalità pagana) e Gesù Cristo. La via di Benedetto è la via di Cristo: via della mansuetudine del cuore, della mitezza della mente che si lascia portare dal Cuore di Gesù nelle situazioni della vita, e mitezza – soprattutto - della volontà, che impara a cedersi e consegnarsi per amore di Cristo e della salvezza delle anime:
“Per raddrizzare le storture e formare coscienze rette e mature non c’è altra via di quella che il Cristo propone. Acquista vera libertà e condivide la signoria di Cristo su tutte e cose chi accetta la disciplina dell’obbedienza che fa i miti, ossia i forti nel regno dei cieli, chi si lascia arruolare nelle schiere dei miti, seguaci di quell’unico Re che vince nel perdere” [5].
Alla radice della mansuetudine sta il vivere alla presenza di Dio, in compagnia di Dio, con Lui, momento per momento. Se tu vivi alla Sua presenza, sia quando tutto va bene, sia quando le cose vanno male, tu diventi mansueto.
È l’esperienza della Presenza che ti fa mansueto. Quel “sono sempre con te” del sesto gradino della scala dell’umiltà. Se tu affronti la vita con Dio, facendo in tutto esperienza di Lui, nei giorni sì e nei giorni no, il Signore ti trasforma, ti porta gradualmente a sperimentare questa gioia e pace della mansuetudine:
“Nel sesto gradino, infatti [6], l’essere si è spostato verso quel ‘tu’ che a poco a poco invaderà tutta l’esperienza del monaco. Dalla preoccupazione di sé è passato a questa tensione verso un ‘tu’. Ed è la ragione per cui è contento. Perché questo capovolgimento è in effetti l’apertura a una pace che non è nostra, che non viene da noi, perché ‘è Lui la nostra pace’”[7].
[1] I. Gobry, Storia del monachesimo 1, Città Nuova Editrice, Roma 1991, pp. 217-219.
[2] A. M. Canopi, Mansuetudine: volto del monaco, Edizioni La Scala, Noci 1995, pp. 15-16.
[3] Ibidem, pp. 19-20.
[4] D. Guillaume, Un cammino di libertà. Commento alla Regola di san Benedetto, Lindau 2013, p. 151.
[5] Ibidem, p. 25.
[6] Nel sesto gradino della scala dell’umiltà, ma, in fondo, in tutta la Regola benedettina… questo vale per tutta l’esperienza della Regola, quando la Regola viene vissuta, diventa vita…
[7] D. Guillaume, Un cammino di libertà, op. cit., p. 167.
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