L’EQUILIBRIO, forza della Vita benedettina
(seconda parte)
Riprendiamo il filo del discorso dello scorso marzo, su questo tema tanto importante nella Regola di san Benedetto. Nell’incontro precedente abbiamo visitato i primi sei capitoli della Regola sotto il filtro dell’equilibrio. Ora analizziamo alcune parti della Regola più disciplinari e normative, sulla concretezza quotidiana della vita in monastero: avendo sempre presente che, per san Benedetto, santo romano, ogni aspetto disciplinare o normativo nella vita cenobitica non è mai fine a se stesso, e dunque meramente regolativo, ma sempre portatore di un profondo senso spirituale. Siamo davanti a una ‘mistica’ molto concreta, che parte sempre dalla terra, dagli aspetti più comuni della vita di ogni giorno, per alzare bene gli occhi al cielo.
Cominciamo dai capitoli 39 – 40, su La misura del cibo e del bere.
Al cap. 39 emerge subito il senso della misura. Benedetto ripete il verbo bastare. “Due vivande cotte bastino…”… “basti per tutta la giornata una buona libbra di pane” (39, 4). E poi, a seconda delle situazioni e necessità: “… il cellerario trattenga un terzo… l’abate avrà piena facoltà di aggiungere…” (39, 5-6). C’è la necessità di una regola anche nel cibo. Regolare la misura del cibo è fondamentale, per san Benedetto, non è superfluo. La santità parte da una misura, da una regola di vita, da una certa sobrietà, senza eccessi:
“evitando però assolutamente che vi sia eccesso nel cibo e che il monaco sia colto da indigestione. Nulla infatti è tanto sconveniente ad ogni cristiano quanto l’ingordigia, come dice Nostro Signore: State ben attenti che i vostri cuorinon si appesantiscano per l’intemperanza… e in tutto si conservi la sobrietà” (vv. 7 – 10).
Similmente, al cap. 40, su La misura del bere, san Benedetto si rivela ancora una volta come il padre della discrezione, riconoscendo che “ciascuno ha il proprio dono da Dio, per cui ci sentiamo un po’ perplessi nel determinare la misura del vitto per gli altri…” (40, 1-2). Anche qui, è sempre questione di equilibrio, di misura, di regolatezza, che ciascuno, non solo nella grazia di Dio, ma anche nel buon senso, deve sapersi dare. Ciascuno è chiamato a sapersi regolare, insomma, sapendo che la bellezza della vita spirituale sta nel non eccedere mai, né nel troppo, né nel troppo poco, bensì nel darsi una regola, una bella regola, nella forza e costanza della gioia dello Spirito.
Credo, dunque, che da questi due capitoletti, “normativi”, come abbiamo detto, sul cibo e sul bere, possiamo già trarre molti spunti di vita anche per Voi Oblati.
San Benedetto pone la Regola come fondamento.
La Regola non è tutto: è il mezzo, lo strumento, la base di vita, la pista di lancio. Senza una regola di vita, e una regolarità di vita, non si avanza, non si fa nessuna strada, nessun progresso, e non si è contenti. Questo è il primo punto, anche per gli Oblati. Il primo passo, per chi vuol essere Oblato benedettino, è regolare la propria vita, in concreto, secondo una buona misura evangelica, che norma tutti gli aspetti della nostra esistenza, anche i più ordinari e quotidiani.
La Regola ti mette in ordine, mette ordine nella tua vita, sfronda, tira via il superfluo, l’eccesso, la dispersione, la frammentazione.
Se vuoi essere oblato benedettino, e vivere veramente, seriamente, con gioia la tua Oblazione, devi essere costante nell’assumere una chiara norma di vita, che comporta anche una certa disciplina personale, che tolga il disordine. Questo va detto con chiarezza. Perché
“La disciplina ascetica mette ordine e misura in tutta la persona, specialmente nella sfera dell’istinto, dove è più prepotente la ribellione e difficile il controllo. Scopo dell’ascesi è dunque la migliore realizzazione della persona umana; mai perciò la mortificazione e la rinuncia vanno intese come fine a se stesse, ma sempre in ordina ad un bene più grande, ad una completezza e ad una liberazione il cui raggiungimento è ostacolato dal peccato.
Tutta l’ascesi cristiana tende a portare l’uomo a un pieno dominio delle proprie facoltà fisiche e spirituali, per dare spazio alla crescita dell’uomo interiore, che è la stessa vita di Cristo innestata nel credente. Poiché in noi sopravvive sempre l’uomo vecchio, si rende necessaria una continua vigilanza e un rinnegamento di esso, affinché non prenda il sopravvento a scapito del nuovo.
Mortificare (mettere a morte) l’uomo carnale non significa materialmente distruggere il corpo; significa invece riportare l’ordine dove è entrato il disordine e mantenere l’equilibrio in modo che l’istinto sia governato dalla ragione, la materia sia trasformata dallo spirito.
Non si può dunque pensare che vi sia un’epoca in cui l’uomo non abbia più bisogno di questa ascesi…” [1].
La fragilità della nostra natura, avvolta più che mai, adesso, da un contesto sociale fragile e che fa dell’istinto la norma più lecita e più ovvia dell’esistenza, non ci fa vedere di buon occhio la disciplina, la regolarità, l’equilibrio e la misura in ogni aspetto della nostra vita. La leggerezza in cui viviamo ci fa cedere ad ogni richiamo sensibile e istintivo, con tanta facilità, superficialità. Certamente, la società odierna non ci aiuta, ma è un chiaro ostacolo alla bellezza di una vita cristiana vera. Essere cristiani autentici, essere Oblati benedettini oggi, comporta un chiaro, limpido, deciso lavoro controcorrente. Di questo dobbiamo essere decisamente convinti.
Dobbiamo volere questa regola, questa regolarità, dobbiamo desiderarla, con una vera conversione della mente, del cuore, di tutta la nostra persona a Cristo. Solo Cristo ci dà la forza di essere forti – la virtù della fortezza mette gioia dentro, oltre che fuori! – e di non essere molli, lasciandoci andare ad ogni brezza passeggera.
L’Oblato, insomma, non può essere una persona leggera, ma forte con se stessa, convinta, decisa sui valori cristiani, e quindi contenta. Bisogna saper disciplinare la vita, se vogliamo essere Oblati benedettini. Altrimenti, non ha senso e non reca buona testimonianza al prossimo.
Questi due capitoletti della Regola, il 39 e il 40, dunque, sono più importanti di quello che si potrebbe sospettare ad una prima lettura. Come ci conferma ancora Madre Canopi:
“… se il monaco (leggi: se l’oblato) non comincia a dare una misura e una disciplina ai propri appetiti nella sfera sensibile, non arriverà mai a porre un ordine nella sua vita morale e spirituale, essendo egli un’unità di spirito e materia. Non si è mai verificato che un uomo intemperante e incontinente fosse un santo… capace di conoscere e gustare le cose di Dio, come pure di sacrificarsi per amore del prossimo” [2].
L’illusione, spesso, è il voler essere buoni cristiani, o addirittura spirituali, senza rimetterci troppo, senza rinunce, senza sacrificio. La vita stessa di Gesù, il Vangelo, la vita dei Santi ci dimostra esattamente il contrario. Questi nostri fratelli e sorelle che, in ogni tempo e luogo, hanno desiderato ardentemente l’imitazione di Cristo, non si sono avvicinati a Lui conservandosi, ma perdendo senza paura se stessi dietro a Lui, che ha dato tutta la Sua Vita per noi, senza sconti.
Certamente, questa rinuncia è un dono, una grazia, e chi è chiamato alla vita monastica lo sperimenta: si entra “ricchi” di tante cose, e a poco a poco, con gradualità benedettina!, ma con autenticità benedettina, e quindi nella radicalità evangelica, si impara a fare a meno di tante cose… e non solo materiali. Si impara a fare a meno di tanti desideri, che poi non sono così importanti: di tanti sfizi, di tanti capricci, anche spirituali… Si ordina la vita, e ci si ritrova più felici in questa essenzialità.
Non solo, seguendo Gesù, ci si avvede che si può fare a meno di tante cose – dunque si semplifica la vita, ma addirittura si desidera questa spoliazione, per stare con Lui, per non perdere Lui, perché tutto il resto non è Lui. Certo, è una grazia questa. Ma questa grazia di unificazione della vita in Cristo non è solo per la ‘categoria privilegiata’ dei monaci, di chi vive dentro le mura di un chiostro.
Gli oblati devono voler vivere così, con questo equilibrio, con questa bella semplicità che rischiara menti, cuori, discorsi, ideali: è bello vivere la regolarità e l’equilibrio di una vita evangelica in una società sregolata, rilassata, disordinata e gaudente.
Certo, questo ci implica, e vi implica, una bella conversione ogni giorno.
E la costanza nella conversione. La costanza! La regolarità, appunto. La regolarità è la base della santità. Di convertirsi ad tempus – per un tempino, come direbbe Papa Francesco – per 2, 3, 5 anni… sono capaci molti… Ma ai veri cristiani, e dunque agli oblati benedettini, che partecipano alla stabilità monastica della comunità cui appartengono, è chiesta la conversione di vita, e la stabilità di vita nella conversione: mi converto a Cristo oggi, domani, sempre. Senza scoraggiarmi mai. Aggrappati a Lui, assolutamente. Cado e mi rialzo, cado e mi rialzo, senza abbattermi, ma resto, ci sto, ci sono. E Lui, Gesù, a poco a poco mi cambia, trasforma la mia vita, la fa nuova.
Allora, l’equilibrio è semplicemente una grazia, un dono del Signore che noi accettiamo di vivere anche con l’ascesi corporea, con la regolarità di tutti gli aspetti della nostra vita di ogni giorno: a casa, in famiglia, in ufficio, nelle buone relazioni, in parrocchia, ecc. Se non regolo bene la vita, non avanzo, non posso nemmeno desiderare, e in progressione, un cammino cristiano sempre più bello e santo.
La ‘pulizia’ esterna e l’ordine interno, non ce n’è, vanno insieme. Spesso, anche nel passato, nei conventi si è detto: l’ordine parla di Dio. Dove questo ordine non è pignoleria, ma vita bella, pulita, sana, fiori e dentro, e quindi ben regolata, anche con le sue giuste rinunce, ‘discrete’ fin che si vuole, ma sempre rinunce. Dio passa di qui! L’esperienza di Dio passa di qui, in ogni tempo.
Senza ascesi il Vangelo perde il profumo, si annacqua, si svilisce.
Così, altri spunti ci dona il cap. 41: L’orario dei pasti per i fratelli. C’è tutta una regolazione, nel monastero benedettino, dei tempi per prendere i pasti, a seconda delle stagioni, dei tempi liturgici (la quaresima, il tempo pasquale…), ecc. Ma, anche qui, non è meramente questione di dare dei tempi, di fissare un ordine esterno,fissato dalle lancette dell’orologio. È questione di equilibrio interiore, che passa per la regolazione esterna dei pasti, così da progredire nell’obbedienza, nello spirito di povertà e di mansuetudine. Chi lo direbbe, che un capitoletto così spicciolo, sulla disciplina dell’orario dei pasti, coinvolga tutte le energie spirituali del monaco, fino a chiedergli, ancora una volta, una profonda conversione personale, senza poter barare con se stesso:
“Se il monaco deve avere pazienza che gli sia dato il cibo all’ora stabilita, senza prenderselo prima da sé, è proprio perché a lui si addice la totale povertà e mansuetudine, che esclude ogni atteggiamento di pretesa e di mormorazione. Soffrendo un po’ l’attesa del cibo materiale, egli impara a conoscere pure la fame del cibo spirituale… la disciplina dell’attesa aiuta il monaco a cercare Dio e ad attenderlo umilmente, senza stancarsi; perché cercare Dio non significa avere la pretesa che Egli venga subito e che, pronto al nostro comando, faccia presto ad aiutarci come intendiamo noi (…) È necessario quindi assumere anche la disciplina dell’aspettare l’ora di Dio, così come si deve aspettare l’ora del pasto” [3].
Vedete come per san Benedetto tutto ci parla di Dio, e di vita spirituale! Anche i pasti e l’orario dei pasti: questo è Vangelo incarnato! Com’è piena, completa la Regola benedettina!
Tutto questo discorso, dunque, vale per gli Oblati.
In un mondo che no sa più aspettare, l’equilibrio è rispetto, attesa, pazienza, è mansuetudine di rimettersi nelle mani di Dio, e lasciare a Lui i tempi e i momenti più opportuni per i Suoi passaggi di grazia nella nostra vita, rimanendo vigilanti e stabili, nella consapevolezza che siamo i Suoi poveri.
Dice ancora Madre Canopi: “Aspettare più a lungo può essere talvolta un gran bene per noi, più che il ricevere subito quello che desideriamo; e questo non vale di meno quando si tratta delle visite interiori di Dio” [4].
Nella nostra autonomia, noi vorremmo sempre regolare tutto, anche Dio.
Invece, questi capitoli ‘normativi’ della nostra Regola – qui ne abbiamo toccati solo alcuni, ma varrebbe la pena approfondire ed estendere lo sguardo – ci illuminano sulla bellezza di un equilibrio di vita, tanto promosso da san Benedetto, perché la grazia di Dio ci abiti, ci trasformi, e doni l’amore del Signore al nostro prossimo.
Concreto e umanissimo, san Benedetto non illude, non si attarda su sterili spiritualismi, e in ogni passo della Regola è molto chiaro: senza regola e regolarità, senza ascesi che ci equilibra fuori e dentro, non arriveremo mai a sperimentare Dio.
Mettere un freno all’istinto, alla sregolatezza della natura, all’onda troppo sensibile del nostro pensare ed agire, regolare la loquacità, la curiosità disordinata, che ci porta a disperderci ed inquina il cuore, questa ‘regola’ è necessaria, per liberare la vita spirituale, per generare la vera gioia dello Spirito Santo in noi.
Accettare la rinuncia – “nella gioia del più intenso desiderio spirituale”, RB 49, 7 – non significa vivere meno, ma di più, ampliando le possibilità del nostro essere verso una ‘pienezza’ anche umana, che, altrimenti, resta come soffocata. Certo, solo se ne siamo convinti dentro, assumiamo con gioia – spontaneamente, dice san Benedetto – e senza recriminazioni o nostalgie, l’ascesi, e così liberiamo lo Spirito: permettiamo allo Spirito santo di prendere veramente tra le Sue ali la nostra vita, facendola avanzare, progredire, volare… a cominciare da questa ascesi ‘dalla terra’, che crocifigge il corpo. Come è successo a Gesù nella Pasqua.
Comprendiamo così perché il benedettino ama la regolarità, respira nella regolarità, come nel suo ossigeno, che libera, appunto, lo Spirito Santo.
Questo vale per gli Oblati! “La mansuetudine deve essere sempre il nostro abito interiore e concretizzarsi in tutti i nostri atteggiamenti, non solo riguardo al cibo, ma riguardo a qualsiasi altra cosa, sia di ordine materiale che spirituale” [5].
L’equilibrio allora fa il monaco: fa la sua mansuetudine, il suo amore per Cristo e per il prossimo. L’equilibrio è la regola della santità benedettina.
Non spaventiamoci. Un passo alla volta, giorno per giorno, senza demordere: con quella costanza serena che mette i propri passi nelle orme di Gesù. E questo è non solo fattibile, ma bello, perché ci fa crescere nella grazia del Signore, nella certezza concreta che ogni nostro giorno è un passo di luce verso il Cielo.
[1] Anna Maria Canopi, Mansuetudine: volto del monaco, Edizioni La Scala – Noci, 1995 (3), pp. 281-282.
[2] Ibidem, p. 282.
[3] Ibidem, pp. 294-295.
[4] Ibidem, p. 295.
[5] Ibidem, p. 299.
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