L’EQUILIBRIO, forza della Vita benedettina
Tocchiamo oggi un tema fondamentale nella vita e nella Regola di san Benedetto: quello dell’equilibrio, come forza interiore e determinante. San Benedetto viene a ragione definito il santo dell’equilibrio, e ben sappiamo ormai, avendolo più volte espresso nel corso dei nostri incontri, quanto la sua vita, e tutto ciò che egli stabilisce per la comunità ed i monaci, ci parli di misura, di ponderatezza, di sobrietà e di armonia. La radicalità benedettina è sempre “condita” dall’olio lubrificante ed emolliente dell’equilibrio, che non rilassa, ma dà il tono giusto all’ascesi. Sempre e per tutto Benedetto stabilisce un pondus, una misura, una regola che disciplina l’amore, lo regola, lo ordina, modera e valorizza. Se tutto, come sappiamo, nella Regola benedettina è all’insegna della mitezza, tutto in essa ci parla di equilibrio.
Ma che cos’è l’equilibrio? Non è una via di mezzo, ma è il giusto mezzo nella virtù, nel cammino di fede: è discernimento retto, chiarezza luminosa della giusta via da prendere, senza eccessi e senza mollezze, nel rapporto con Dio, con il prossimo, con noi stessi.
Abbiamo un assoluto bisogno di equilibrio, nella vita sociale, familiare, personale. Senza equilibrio, tutto o si irrigidisce, si indurisce, o si rammollisce, e non va bene. Apprezziamo allora l’aiuto che ci dà san Benedetto, nel tracciarci una via di equilibrio, che regola lo spirito ed il corpo, il cuore e la natura. Senza equilibrio manca l’ordine, la marcia giusta, manca la gioia. Senza equilibrio non c’è la bussola. Desideriamolo, l’equilibrio, chiediamolo come grazia e come regola: lasciamoci aiutare da san Benedetto nel nostro cammino, lasciamoci istruire dalla sapienza del suo cuore paterno, che ha una parola illuminata, a questo riguardo, per noi.
Preparando questo sussidio, ho pensato di sviluppare il tema almeno in due incontri, questo, e quello prossimo. Proprio perché vale la pena di approfondire, di andare a fondo, anche nella prassi, non passare oltre con leggerezza.
Dividiamo pertanto ogni riflessione in due parti: nella prima parte, più monastica, rifletteremo insieme sul posto che ha l’equilibrio nella Regola benedettina, considerandone per il momento la prima parte: analizzeremo per ora, con il ‘filtro’ dell’equilibrio, dal Prologo al sesto capitolo. Nella seconda parte ci chiederemo insieme come un Oblato/a benedettino/a debba vivere questo, in concreto, come applicazione pratica. Naturalmente, quelli che offrirò saranno solo degli spunti, che poi ciascuno può continuare a elaborare nel proprio cuore, a casa e nella vita, approfondendo la riflessione.
Cominciamo dal Prologo. E cogliamo subito questi spunti: prima di tutto san Benedetto rettifica, e con grande equilibrio!, un’eventuale idea non corretta che potremmo farci di Dio, e che purtroppo, nel passato troppo ci si è fatta, di un Dio giudice e sempre pronto a punire, a intervenire con durezza. Sappiamo quanto il nostro caro Papa Francesco stia lavorando a riguardo, in ogni suo intervento, per rettificare questa categoria sbagliata di Dio. No, Dio è Padre, prima di tutto è Padre. E non è che un padre – lo sa bene chi di voi è papà! – non debba anche permettersi di dare dei giudizi riguardo al comportamento dei propri figli, anzi, ha il dovere di educare con chiarezza; però, il volto di Dio è quello di un papà, che ama, e se giudica, e deve intervenire, è solo perché ama. San Benedetto nella Regola si rivolge, dunque, prima di tutto a dei figli, che si sanno amati dal Padre, e allora accolgono il cammino della vita, lo riconoscono come dono: “Ascolta figlio,…apri docili il tuo cuore, accogli volentieri i consigli del tuo padre buono…” (Prol. 1, 1).
Dio è Padre, e Padre buono. Non un Padre qualunque, ma un Padre buono! La bontà è la sua qualifica, è il tratto che lo determina. Ci dice niente, questo?
E noi: quante volte vediamo Dio così, come un Padre buono, un Padre che ci ama?
Secondo spunto sull’equilibrio dal Prologo, al v. 4: “Prima di tutto, però, ogni volta che ti accingi a fare qualcosa di bene, chiedi al Signore, con ferventissima preghiera, di portarlo Egli stesso a compimento…”.
Equilibrio è non presumere di sé, non crederci capaci noi, da soli, per merito, noi fautori del bene che facciamo, ma rimetterci sempre amorevolmente, e umilmente, nelle mani del Padre, appunto, affidandogli tutta la nostra vita, le nostre azioni, e sapendo che senza di Lui noi non faremmo proprio nulla. Nell’affidamento al Padre c’è la gioia, la fiducia, la pace, l’equilibrio.
E, sempre nel Prologo, il passo più mirato a riguardo è al v. 19:
“Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci chiama? Ecco, il Signore, nella sua grande bontà, ci mostra il cammino della vita”.
Il Signore, nella sua grande bontà… Torna il richiamo fedele sulla bontà di Dio.
E, ancor meglio, dal v. 45 al 49, san Benedetto precisa:
“Eccoci dunque a istituire una scuola di servizio del Signore, con la speranza di non stabilire nulla, in esso, che risulti troppo austero e pesante; tuttavia, se nell’intento di stabilire un giusto equilibrio, si riterrà necessario introdurvi qualcosa di più esigente che giovi a correggere i vizi e a conservare la carità, tu, sopraffatto dal timore, non fuggire subito lontano dalla via della salvezza. È naturale infatti che, agli inizi, la via sia stretta e faticosa, ma poi, avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore…”
Pensiamo subito a quanto è padre san Benedetto, a quale serena paternità sia la sua: nello stilare la Regola egli è mosso dal desiderio, meglio, dalla speranza, di non stabilire “nulla in esso che sia troppo austero e pesante…”. Sempre i santi, i fondatori, nella loro radicalità, rischiano di oltrepassare la misura comune, nello stendere una Regola, ed è normale che sia così. Il santo, il fondatore, è mosso e come infiammato dallo Spirito Santo, gli brucia dentro, animato da una grazia speciale, che è appunto quella di tracciare una via ai suoi discepoli. Il problema è che i discepoli non sono ancora a questo livello, e se il fondatore non sta attento, non misura la sua regola sul passo dei figli, rischia di fare dei danni, e di offrire qualcosa di eccessivo, di improponibile. È questa la critica che è stata fatta più volte a grandi santi: pensiamo, ad es., a san Francesco, o alla beata Teresa di Calcutta [1]. Il santo, nel suo fervore, non sempre si avvede degli eccessi, ossia che quel che Dio vuole da lui, e va bene per lui, non sempre va così bene per i suoi figli. Ecco perché c’è bisogno della Chiesa, madre e maestra, che glielo faccia capire, e rettifichi un po’ il tiro primitivo dell’ispirazione del santo: per condire di più la Regola con equilibrio, con una misura più accessibile e che rimanga anche… umana. Ora, di questa esigenza di moderazione, non sempre, appunto, i fondatori se ne accorgono da soli; poi, la loro umiltà, e non senza sofferenza personale, gli fa accettare le modifiche che alleggeriscono e ammorbidiscono le loro indicazioni primitive. I santi sono speciali, e vanno oltre… Capite come ragionano?! Con una logica soprannaturale, che va oltre ogni logica umana. Non ci stanno, ci stanno stretti, dentro la logica puramente umana, che avvertono borghese e mondana. E in fondo, anche se ci fa paura, è vero, è così, hanno ragione loro: ed è questo che fa la santità.
San Benedetto ha il dono di superare da solo questo scoglio, già in partenza. Egli è radicale sì, per se stesso molto radicale, ma misurato e attento a calibrare subito la regola sulle possibilità reali dei suoi monaci. Subito, senza che altri gli aprano gli occhi, si avvede del pericolo di chiedere troppo, di essere troppo esigente, istituendo la sua ‘misura’ cenobitica, e in anteprima, già ne chiede scusa ai suoi figli… quale delicatezza, pur nella decisione del fondatore, e quanta lucida, realistica umiltà, quanta sapienza! Come si fa a non amare san Benedetto?!
Il giusto equilibrio è il suo punto di forza, persuaso che è necessario indicare una via di disciplina, anche di austerità, ma mai fine a se stessa, e sempre e solo “che giovi a correggere i vizi e a conservare la carità”. La carità mantiene l’asceta in equilibrio. Così Benedetto persegue una via limpida e sicura, perché il fine resta, dentro ogni ascesi, la carità, l’“ineffabile dolcezza dell’amore”. Niente di smisurato, di smodato, se non la dolcezza di una carità genuina, cortese, delicata, che non va mai oltre i limiti, né si abbandona a mollezza.
Oltre a questi tocchi inconfondibili dell’equilibrio benedettino riscontrabili nel Prologo, prendiamo in considerazione altri passi eloquenti della Regola a riguardo, a mo’ di panorama, per renderci conto di quanto il tema in esame oggi sia importante per noi, discepoli di Benedetto, nella nostra vita. Come anticipato sopra, lavoreremo per questa volta sui primi sei capitoli della Regola.
Cap. 1 – I diversi generi di monaci
Tra i generi diversi di monaci, quello dei cenobiti è l’emblema dell’equilibrio, del giusto mezzo, tra la ribellione dei sarabaiti e dei girovaghi, e la “vetta” degli eremiti ( a cui si giunge nella gradualità di un cammino di vita, quindi, con equilibrio, mai di botto). Notiamo che i cenobiti, il fortissimum genus – il genere solido, robusto, sicuro – sono definiti da san Benedetto come “coloro che vivono in monastero e obbediscono a una Regola e a un Abate” (1, 2-3). Vivono in monastero: la stabilità, centro e luogo di equilibrio, fisico e spirituale; Obbediscono a una Regola e a un Abate: il non regolarsi da soli, il non darsi da soli il programma di vita, il riconoscere di avere bisogno di una mediazione oggettiva – la Regola e l’Abate – da cui dipendere e a cui consegnare la propria volontà, davanti al Signore, è radice e norma pratica di un cammino equilibrato, senza colpi di testa. Di qui, per Benedetto, il cammino dell’obbedienza, e della trasparente docilità.
Cap. 2 – Come dev’essere l’Abate
Il profilo che san Benedetto traccia dell’Abate è un gioiello di equilibrio: in una parola, possiamo dire che l’Abate è chiamato ad essere testimone, con tutta la sua persona, la sua vita. La sua fonte, la sua ispirazione, è Cristo buon Pastore. Paternità, mitezza, benevolenza, ma anche fermezza e giustizia devono essere i suoi tratti inconfondibili, che segnano e illuminano il suo operare: “si mostri insieme esigente maestro e tenerissimo padre”. Tutta la sua vita deve parlare del Signore, dentro i limiti umani comprensibili. L’abate è chiamato a donare una parola che incoraggi, un giudizio equanime e senza preferenze di persone, avere somma cura del bene spirituale dei suoi monaci, più che delle cose materiali, e restare sempre umile, nella consapevolezza della missione tanto difficile e delicata che ha ricevuto. Ci vuole equilibrio, e sapienza, per rimanere mite ed umile, rispondendo delle anime davanti a Dio, guidandole con soavità e fermezza, senza cedere a compromessi e accondiscendere ai capricci. Restando padre, e valutando ogni cosa con giustizia, davanti al Signore. Se l’Abate deve avere equilibrio, deve anche chiederlo ai suoi figli, a tutta la Comunità insieme, per essere corpo di Cristo insieme, per camminare insieme, responsabilmente, nella carità del Signore. L’Abate segna il passo, ma i monaci sono chiamati a rispondere, altrimenti anche qui, il peso, il ‘giogo di Cristo’, è sbilanciato, e non si cammina bene, e insieme, in Lui.
Cap. 3 – La convocazione dei fratelli a consiglio
Che bell’equilibrio, in questo capitolo, tra ascolto e parola, tra comunione e riflessione personale, nel dono e nell’uso retto del discernimento, come dono che lo Spirito Santo estende a tutti i fratelli, giovani compresi, oltre ogni prevenzione: “…spesso proprio al più giovane il Signore manifesta ciò che è meglio fare”. Comunità in ascolto orante e fiducioso dello Spirito. Ecco il segno dell’equilibrio nel cenobio.
Cap. 4 – Gli strumenti delle buone opere
Se il monastero è l’officina in cui si lavora alla conversione, ecco che ci sono degli strumenti specifici, degli attrezzi di lavoro adeguati: e san Benedetto ne indica tanti in questo capitolo ben 73 (interessante: uno per ogni capitolo della Regola!). Consideriamo solo: Non voler essere considerato santo prima di esserlo, ma diventarlo realmente perché lo si possa dire con più verità” (4, 62). Dove l’equilibrio è sano realismo, con i piedi per terra, sempre condito di umiltà.
Cap. 5 – L’obbedienza
L’obbedienza è la vera forza del monaco, il mezzo che lo guida sicuramente a Gesù Cristo, e lo conferma nel fiducioso slancio di corrispondere senza intoppi e resistenze al Suo amore di predilezione. L’obbedienza è disarmo di noi stessi. Chi non è disarmato fino in fondo, resiste alla voce del Signore, che si manifesta con chiarezza ogni giorno, nelle varie situazioni, nelle indicazioni dei superiori, della comunità, dei fratelli. Il vero obbediente aderisce fuori, con la sua condotta, perché è libero dentro. “Chi è del tutto disarmato non indugia; si butta subito non perché è sicuro di sé, ma perché è sicuro di Dio” [2]. E questa sicurezza di Dio genera gioia, forza interiore, entusiasmo, equilibrio. Genera profonda libertà interiore: produce equilibrio. Certo, qualcuno penserà: per gli insicuri, l’obbedienza è fonte di appoggio, di sicurezza. L’obbedienza vera non è tanto psicologica, ma mistica, intrisa di fede, di umiltà, di sguardo intimo proteso al Signore. Si crede, ci si abbandona a Dio, si cammina credendo, guardando Lui: e certo, poi tutta la persona, anche psicologicamente, ne esce più serena e rafforzata. Ma è sempre questione di fede! L’equilibrio, sì, anche psicologico, per il monaco ha come radice la fede. Il paino soprannaturale non sta in alto: è il fondamento, il basamento su cui il monaco poggia i piedi, e da qui costruisce tutta la sua ‘casa’. Senza questo fondamento, il monaco muore. Il monaco sta bene obbedendo, è lieto obbedendo: lieto di compiere la volontà di Dio, di esserci tutto, e non solo un pezzo, alla sequela del Signore, che costa, sì, ma genera grande gioia. E ne viene, come conseguenza, anche l’equilibrio, in tutti i sensi. Tutta la vita ne trae vantaggio e bene.
Cap. 6 – L’amore al silenzio
Il silenzio vero, che non è mutismo, ma intimità d’amore con Dio, è un’altra grande fonte di equilibrio per la vita del monaco. Nella società complessa e frenetica in cui tutti siamo immersi, ci illudiamo di risolvere i tanti problemi prima di tutto parlandone, discutendone, incontrandoci a non finire, anche in parrocchia. No, prima bisogna pregare, pregare tanto. Consegnare i problemi al Signore: parlarne, sì, ma prima al Signore, con una confidenza massima. Chi più di Lui ci può aiutare? E così, parlandone a Dio, noi taciamo. Azzittiamo un po’ il nostro io, sempre pronto a levarsi, a dire la sua. Impariamo a fare un po’ tacere le cose, e a guardarle da altre e nuove angolature, che non quelle agitate delle “acque della loquacità”. “Quante volte, se noi pensassimo questo e riuscissimo a farlo, otterremo una comunione più profonda…” [3]con tutto e tutti.
Imparando il silenzio, che è il linguaggio della preghiera e della comunione con il Signore, noi guadagniamo in verità, in profondità. E in equilibrio. Ne usciamo meno affannati, meno presi da tutto, meno preoccupati. Lo sa bene chi esce da un ritiro spirituale. Questo amore al silenzio: amore, desiderio, gusto di Dio, dovrebbe sempre essere il proprium del monaco, bisognoso di silenzio, di vita interiore, per comprendere le cose di Dio, per parlare a Lui dei fratelli, per portargli il mondo. Se il monaco non trova nel silenzio il suo equilibrio, non c’è, la sua vita monastica non tiene, e non produce frutti spirituali e visibili. Pregate, Voi, Cari Oblati, pregate perché i monaci siano custodi del silenzio come sacralità di Dio: allora, attingendo al monastero, berrete alla sorgente. Quanto equilibrio, quanta bella intensità di vita vera produce l’amore al silenzio!
Silenzio che custodisce, che domina l’animosità, che smorza e sana emozioni e passioni, che equilibra, appunto. Il silenzio è valore importantissimo della vita monastica e sempre siamo chiamati a riprenderlo, e a rinnovarne la forza e lo spessore: perché, vedete, “un uomo di Dio ha veramente un gran peso: ed è la sua stessa capacità di Dio, è il peso del divino di cui portatore a dargli al chiave d’interpretazione degli avvenimenti e delle cose. Egli non ha bisogno di tante spiegazioni, perché ha una conoscenza intuitiva del mistero. Quando si ha bisogno di tante spiegazioni, è segno che non si è capaci di ascoltare bene la voce dello Spirito” [4].
II. Applicazione pratica per gli Oblati/e. Come vivere in concreto l’equilibrio benedettino
Cominciamo dal Prologo, in parallelo con la prima parte della nostra riflessione.
Abbiamo visto come san Benedetto parte dalla bontà e paternità di Dio per intessere il lungo e intenso intreccio della sua Regola. Ora, anche nella tua vita di Oblato/a, come vedi Dio, come vivi con Dio determina tutto della tua vita, del tuo porti rispetto alle situazioni, alle relazioni, ecc. Dimmi… che Dio hai e ti dirà chi sei! Che tu lo sappia o meno, il rapporto che hai con Dio – o che non hai con Dio! – incide su tutto: su quel che sei, sulla tua identità, su quel che vivi e su come lo vivi. E il tuo equilibrio viene da qui!
Non me ne vogliano gli psicologi, ma… migliora il tuo rapporto con Dio, comincia ad amare veramente il Signore, meglio, a corrispondere al Suo amore per te, e a corrisponderGli sempre più, e la tua vita cambierà, vivrai un salto di qualità che ti donerà forza. Acquisterai fiducia, serenità. Equilibrio!
Dio è Padre, e Padre buono, per san Benedetto è il primo punto questo. Se poggi su questa coscienza la tua vita, la coscienza di Dio, Padre buono, sei al sicuro anche tra le ‘tempeste’ e le prove inevitabili della vita. Sai in Chi confidi, su Chi ti appoggi. Ci dici niente?! È una vera grazia vivere così, ed è canale continuo di nuovo equilibrio anche in mezzo a tutto ciò che tende a destabilizzarci. Dio è amore. Amati, riamiamo. Siamo amati, privilegiati da Dio, e questa è la nostra garanzia, che ci dà forza. Perché, donando l’amore di Dio – e gli Oblati sono chiamati ad essere testimoni! – tu ti rafforzi, esci dalle tue secche, diventi più vero e libero, più grato.
Sempre dal Prologo. San Benedetto istituisce una scuola del servizio divino, nella speranza di non stabilire nulla di troppo pesante. Se il tuo rapporto con Dio è bello, è vero, è pieno, e ti fa felice, questo si vede. Anche tu puoi stabilire – con l’aiuto di chi ti segue spiritualmente – un bel programma di vita (quante volte abbiamo parlato insieme dell’importanza del programma di vita!), che non sarà nulla di trascendentale, di stratosferico, di pesante. Un programmino di preghiera, di cammino nel Signore, con piccoli atti d’amore, ma costanti, regolari. Con qualche rinuncia, per amore del Signore e delle anime: anche qui, per mettere ordine, per regolare la tua vita, per offrire qualcosa di te. Niente di troppo, ma un cammino va fatto, e con costanza, appunto. Così sei più contento, tutto in te ci guadagna, se Gesù ti segna il passo. Prova, e ci dirai!
Dal capitolo primo: che applicazione pratica traiamo?
Vivi bene il tuo stato di vita, lì dove sei, e sei chiamato ad essere e a donare. Non sognare altri stati, altre realtà, altre dimensioni: sarebbe solo tentazione, evasione, e dispendio inutile di energie, il che non ti porta alla pace. Sei sposato: vivi bene la tua Oblazione dentro il matrimonio, il rapporto principale, che è quello con il tuo coniuge… non sognare oasi ‘spiritualistiche’ che non ti fanno essere lì, bene sul ‘campo’, con tuo marito o tua moglie, con i vostri figli, ecc. Non sei sposato/a: trova sempre più il tuo dono, la tua missione, così come la vita te la consegna ogni giorno, perché ogni giorno è un regalo… Vivere con equilibrio ed amore il proprio stato di vita è fonte di bene per sé e per gli altri, ed è già il segreto della santità. Se un cenobita facesse l’eremita, e viceversa, sfaserebbe il suo status vivendi et operandi, uscirebbe dai binari giusti, quelli della volontà di Dio incarnata nello spazio e nel tempo… e non produrrebbe frutto [5]. Per ciascuno di noi il Signore ha un disegno unico, una missione specifica: non tradiamola cercando e sognando altro. L’Oblazione deve fortificare il mio stato di vita, dal di dentro, non modificarlo.
Cap. 2 – L’Abate: nessuno di Voi Oblati/e sarà mai… un Abate, il Signore vi risparmia questo peso! Ma, come applicare questo secondo cap. della Regola a Voi, fratelli e sorelle associati alla Comunità monastica, e leggerlo per voi in chiave di equilibrio? Beh, quanti spunti potete trarre anche Voi da queste paginette preziose. Chi di Voi è padre, è madre, è nonno o nonna… chi ha responsabilità lavorative, qualunque siano, o parrocchiali o in associazioni cattoliche, sa bene quanto equilibrio occorre nel rendersi disponibile e ben servire… c’è sempre una paternità o una maternità spirituale, nei compiti che ci vengono dati, da offrire bene: con il sorriso, la longanimità, l’amore sincero, la verità, la pazienza. Fermezza e dolcezza sono doverosamente da alternare in ogni incarico, in ogni missione. Quando san Benedetto ricorda all’Abate che egli dev’essere più amato che temuto, forse che questo non vale per ciascuno di noi?! Il tratto duro, la parola aspra, il modo di fare sbrigativo e magari un po’ scorbutico, che non tiene conto della ricchezza dei cuori, non edifica, allontana: anche qui, quanto equilibrio pratico questo capitolo suggerisce a tutti!
Cap. 3 – La convocazione dei fratelli a consiglio: cosa suggerisce questo capitolo? La necessità della comunione, anche tra Voi Oblati, di volervi bene nel Signore ed accettarVi proprio nelle differenze di età, di cultura, di sensibilità e anche di gusti spirituali… ma tutti siete associati alla Comunità, tutti membri che cooperano alla vita e alla fecondità di questo cenobio, di cui anche Voi partecipate nel Signore. Il saperci accogliere, ascoltare, nel dialogo rispettoso e alieno da giudizi negativi, questo crea una circolarità di grazia che si sente, eccome se si sente. E la avverte la Chiesa! Se invece, anche nel sottofondo, serpeggiano piccoli dissapori, amarezze malcelate, qualche sfoghetto di corridoio non trattenuto – e vediamo quanto Papa Francesco metta in guardia dalle chiacchiere e dai pettegolezzi, lesivi della vera carità – tutto questo ‘fumo’ si diffonde, più di quanto non si immagini, e inquina l’aria attorno al monastero, e tira giù… e addio cammino unito verso la santità! Equilibrio è allora, a questo riguardo, rispetto reciproco, e verità nel dire il proprio pensiero, in sede e tempo opportuni, non dietro le quinte, con sincerità e limpidezza, per il maggior bene comune, lasciando sempre all’Abate l’ultima parola, il tirare le somme…
Questo capitoletto ci richiama sulla necessità della vigilanza sulla propria lingua, e insieme all’importanza della parola ben purificata, che edifica il prossimo, nel rispetto vicendevole, per costruire sempre il bene, insieme.
Cap. 4 - Gli strumenti delle buone opere
Equilibrio è camminare verso Dio con i passi giusti, con chiarezza di intenti e mezzi adeguati, restando sempre in cammino, sempre con il cantiere della propria vita aperto e al lavoro, mai chiuso per ferie. Chi si ferma è perduto… il giusto, costante allenamento nella vita dello spirito: anche questo richiede e genera equilibrio.
Cap. 5 – L’obbedienza
Per chi è Oblato benedettino, il cap. 5 della Regola rappresenta una… “lima”: vivere dicendo di sì alla volontà di Dio, così come si presenta, e imparare… il disarmo da sé, dei propri difetti, della propria volontà caparbia e non di rado prepotente, che vorrebbe spesso averla vinta, per farne dono, oblazione, appunto, vivendo con più mitezza ogni cosa. Proprio un bel programma, questo! Ci vuole equilibrio, che poi è fortezza, per desiderarlo, per abbracciarlo, per restarvi dentro lungo la vita, e, creando un solco, non senza sacrificio, attendere che la terra si rinnovi. L’obbedienza come ascolto, e fedeltà quotidiana: alla Parola di Dio, alla Chiesa, ai propri doveri, l’obbedienza come sì incarnato, implica conversione, una continua conversione. Ma è proprio l’obbedienza che tiene anche Voi laici in equilibrio: compiere ogni giorno per amore il proprio dovere, goccia dopo goccia, rimanere lì dove siete anche quando vi costa – e qui c’è la stabilità, altro voto benedettino! – forse che questo non richiede un grande equilibrio, che si attinge dal Cuore amante di Gesù?!
L’obbedienza chiede all’Oblato, fedele alla Comunità a cui si è unito, fedele al Signore, fedele alla Chiesa, di non camminare da solo verso il Cielo: di sottoporre con umile fiducia i propri passi, per riceverne benedizione; di consigliarsi ed affidarsi, per attingere grazia e luce.
Cap. 6 – L’amore al silenzio
Certamente una grande sfida, per l’Oblato, questo capitolo. Ma un grande dono, se lo applica. E come può applicarlo l’Oblato, che non vive sempre in monastero?! Desiderando Dio, la Sua Parola. Trovando spazi e tempi anche brevi, lungo la sua giornata, per meditare la Parola di Dio, o fare qualche visita Eucaristica rigenerante… per affermare il primato del Signore nelle sue giornate.
Amore al silenzio, per l’Oblato, significa voler far tacere tante voci e rumori inutili, che sono solo chiasso e perditempo. Per imparare a vivere tutto più in profondità, con più intensità… allora, l’Oblato sarà cercato da fratelli veri, come amico e confidente, per la sua bontà. La custodia di sé favorisce l’equilibrio, e genera, con la pace interiore, tanta benevolenza e grazia.
Ne abbiamo, così, di materiale per la vita. Per costruire, con gioioso equilibrio, la casa di Dio dentro di noi e attorno a noi. Buon cammino!
[1] Cfr M. Teresa (a cura di B. KolodieJchuk, m. c.), Sii la mia luce, Rizzoli, Milano 2007, p. 148: “Quando l’arcivescovo Periér obiettò che quella vita sarebbe stata troppo dura per candidate non indiane, (madre Teresa) rispose: Vorrei davvero che ce ne fossero alcune (candidate non indiane) perché sarà dura per loro; e più sacrifici ci saranno nella congregazione, prima raggiungeremo l’obiettivo di saziare la sete di Gesù. La nostra opera per le anime è grande, ma senza penitenza e molto sacrificio sarà impossibile”.
[2] Anna Maria Canopi, Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria della Regola di san Benedetto in chiave di mansuetudine, III ed., Edizioni La Scala – Noci 1995, p. 59.
[3] Ibidem, p. 69.
[4] Ibidem, p. 75.
[5] Quanto aiutano a tale proposito gli insegnamenti di san Francesco di Sales! Si può leggere, ad es. La Filotea.
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