Custodire e vigilare, per amare.
Siamo nel tempo prezioso della Quaresima, che san Benedetto vuole consacrato in modo speciale alla cura del rapporto personale e vivo con il Signore. Se sempre, dice il nostro fondatore nella sua Regola, noi siamo chiamati a vivere alla presenza di Dio, a custodire la Sua Parola e la nostra esistenza sotto il Suo sguardo d’amore, in particolare questa cura, questa custodia, vale per il tempo santo della Quaresima, in preparazione alla gioia della Pasqua:
“…raccomandiamo di custodire assolutamente integra la propria vita almeno nel tempo quaresimale, e insieme purificarsi, in questi santi giorni, da tutte le negligenze degli altri tempi” (RB 49, 2-3).
Non si può vivere da smemorati: questo san Benedetto lo aborrisce. Custodire è sempre il primo compito dei cristiani. Custodire e vigilare, purificarsi, sono condizioni per amare. Può sembrare un paradosso, eppure è proprio così. Non nel disordine, non nell’assenza di regole, nel fare ciò che si vuole, ma nella custodia di sé e nella cura profonda del reale si prepara e alimenta la libertà.
“Rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 4). Questo è il desiderio di Dio per noi.
Noi siamo stati amati, e lo siamo sempre. La “roccia”, il punto-fermo, stabile, è l’amore di Dio per noi, eterno, per sempre. L’altro polo, il nostro, dinamico, riguarda il rimanere. L’amore di Dio c’è sempre. E noi siamo chiamati nel tempo, nelle diverse età della vita, nelle circostanze buone e in quelle dolorose, a rimanere nell’amore, a rispondere all’amore di Dio con la nostra fedeltà: libera, dinamica, creativa, piena di vita e di speranza.
Pensiamo a Maria, la Madre di Gesù, che “custodiva nel suo cuore” la Parola e gli eventi straordinari della vita del Figlio[1]: facendone tesoro, meditandoli in silenzio, stupendosene, approfondendoli nel loro spessore, rivivendoli dentro.
È interessante come la custodia sia collegata allo stupore, alla meraviglia, alla profondità dello sguardo e della riflessione sulle cose. Senza custodia, non c’è meraviglia, né profondità, non c’è sguardo autentico e profondo sulla realtà. E lo viviamo oggi, in un mondo che non vive più la custodia delle cose più grandi, ma la dispersione. Nella dispersione c’è leggerezza, non c’è cura, non c’è vero amore.
L’amore vero esige custodia e vigilanza, necessita una ragionevole ascesi, che è slancio del cuore che corrisponde con gioia all’Amore di Dio, al “fuoco” che Lui ci mette dentro. Si custodisce la Sua Parola, il dono di Dio che è in noi, ci si custodisce, non per mero esercizio di virtù, non per virtuosismo, ma per amare sempre di più secondo il Cuore del Signore, per discernere e vivere la Sua volontà, e non secondo il nostro gusto che passa e fluttua.
L’amore vero, che si dona, esige pulizia, nettezza, ordine; esige sempre una bella, sana custodia, di sé e dell’altro, degli altri, della vita: custodia di Dio, del Suo amore, del Suo Cuore nella nostra vita, nelle relazioni, dentro il nostro e altrui cuore.
San Benedetto, il santo della discrezione, nella Regola educa all’amore come pienezza e libertà del dono di sé attraverso la costanza della custodia e vigilanza. Pensiamo al bel capitolo 6, su “L’amore al silenzio”: già il titolo è significativo. Amore al silenzio, non puramente: il silenzio. Commenta molto bene padre Guillaume:
“Se abbiamo una disciplina del silenzio nei nostri monasteri, non è per sfiducia nei riguardi della parola, ma per il desiderio di ascoltare chi ci parla nel fondo del cuore. Perché se noi ci lasciamo sballottare dai ‘flutti violenti, il rumore delle parole, i vortici delle vanità’, non ascolteremo mai il mormorio della Parola che scorre in noi. Il silenzio non è una punizione per cattivi scolari, ma è il frutto di un’attrazione, di un desiderio di un’altra Parola, una Parola che abbia e ci doni consistenza” [2].
Amore, cioè cura, attenzione, propensione, attrazione interiore, desiderio di vivere alla presenza di Dio, di rimanere in Lui; e, quindi, anche rinuncia ad espandersi, ad andare di qua e di là con la mente e con il cuore, rinuncia alla parola vana e dispersiva (si pensi al capitolo 7, gradi 10, 11 e 12 de l’umiltà). Quindi, anche ascesi.
Un cristianesimo per attrazione, come ci ricorda sempre Papa Francesco, che rende appetibili le cose belle e anche ardue, come il silenzio, appunto. Perché ci porta a Dio.
Il nostro fondatore nella Regola parte sempre da Dio, dalla luce di Dio che ci attira, dal Suo amore che ci chiama. Più volte negli incontri lo abbiamo ricordato, questo. Non è niente di psicologico la Regola benedettina, niente di introspettivo. Parte da Dio, che attira l’io: si veda il Prologo, che è come una “danza”, una corsa decisa e gioiosa del monaco dietro al Signore. È questa radice teologica, e orientamento cristologico (il monaco è tutto orientato a Cristo, come al suo Sole!), che fa subito chiarezza, ordine, pulizia, limpidezza, e da’ la marcia giusta alla vita.
Citiamo qui soltanto alcuni passi significativi:
- “gli occhi nostri spalancati alla luce divina, gli orecchi attoniti per lo stupore, ascoltiamo la voce di Dio…” (Prol. vv. 9-10).
È Dio che chiama, che muove e che attira; è Lui che agisce per primo, che prende l’iniziativa. È il suo amore la giusta partenza. Il resto, e tutto ciò che ci riguarda, viene di conseguenza… è un ‘rimanere’ in Lui, appunto.
- “ Prima di tutto, però, ogni volta che ti accingi a fare qualcosa di bene, chiedi al Signore, con ferventissima preghiera, di portarlo egli stesso a compimento…” (Prol. 4-5);
Tutto parte dal Signore e si compie nel Signore; tutto trova senso a partire da Lui, e in Lui come suo termine e fine. Anche la preghiera non è in fondo opera nostra, sforzo nostro, ma opus Dei, opera di Dio in noi.
- “… i miei occhi saranno su di voi” (Prol. v. 18);
Dio è mio Padre, è Lui che mi custodisce. Il Suo sguardo sulla mia vita è uno sguardo d’amore, uno sguardo di bene, di fiducia su di me. Molta gente oggi soffre e butta via la vita perché non è consapevole o non accetta questo “sguardo di partenza”, di Dio, dentro la sua storia. E così vive senza radice, senza bussola, senza meta… Mentre è tanto chiara è bella questa radice, è tanto limpido questo orientamento, che indirizza a Colui che ci da’ la vita. Custodire nel bene la nostra vita non è, allora, che una conseguenza del sapersi custoditi da Dio, dal nascere al morire. E allora vivere è “rimanere” in Dio, perché è corrispondere, aderire alla Sua custodia d’amore, riconoscendola come tesoro.
- “Prepariamo dunque i nostri corpi e i nostri cuori a prestare servizio sotto la santa obbedienza” (Prol. 40).
Tutto l’uomo, tutta la persona, intera, corpo e cuore, spirito e fisicità, tutto “presta servizio”, resta a disposizione del Signore, non c’è niente che vada in vacanza … ma questa vigilanza non è gravosa, perché è sempre mossa dall’amore, Benedetto direbbe: “premuta dall’amore”, ogni giorno, sotto lo sguardo paterno di Dio, buon Pastore.
- “E così, non scostandoci mai dal magistero di Dio, anzi, perseverando nel suo insegnamento…” (Prol. 50).
Portati ogni giorno dal Signore, si desidera rimanere alla Sua presenza, conoscere la Sua Parola, la Sua vita, meditarla (pensiamo all’importanza della ‘lectio divina’), dimorare in Lui nell’adorazione…
E così, “avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza d’amore” (Prol. 27-28). Il frutto della custodia di sé non è l’ascesi, appunto, ma la gioia.
E, di più, questo esercizio di custodia e di vigilanza è per la carità. La carità è sempre la vetta ed il fine. L’amore, non la regola, non la legge. La regola è strumento, la carità il fine, sempre, nelle cose grandi e in quelle più piccole.
Ma sarebbe inganno credere di poter giungere alla vera carità sia nei confronti di Dio, sia del prossimo e di sé, senza esercizio personale e sincero di rinuncia, senza custodia e vigilanza, senza disciplina e vera ascesi.
Come chiarisce, sempre al Prologo, lo stesso san Benedetto:
“Eccoci dunque a istituire una scuola di servizio del Signore, con la speranza di non stabilire nulla in essa, che risulti troppo austero o pesante; tuttavia, se nell’intento di tenere un giusto equilibrio, si riterrà necessario introdurvi qualcosa di più esigente che giovi a correggere i vizi e a conservare la carità, tu, sopraffatto dal timore, non fuggire subito…” (Prol. 45-48).
Il padre dei monaci d’Occidente non chiede un’austerità fine a se stessa. Non vuole infliggere pesi. Ma non ci si può illudere di camminare, di avanzare davvero, e spediti, senza una bella regolarità, senza un programma di vita, che indirizzi e raddrizzi il passo. Bisogna fare ordine, non c’è santo che tenga… anzi, i santi tengono a questo!
La ‘custodia’, dunque l’ascesi è condizione vera e necessaria per aprirsi al dono, per liberare la vera gioia di amare senza deturpare, senza sciupare, senza possedere, senza calcolare o manomettere; per mantenersi in un amore che serve, e quindi cura, si prende cura con equilibrio, che non possiede, che non diventa mai proprietario, e quindi schiavo. Per restare aperti al dono di Dio, senza rovinare quanto ci è donato.
Che bella l’espressione di Benedetto: “…per mantenere un giusto equilibrio…” Vediamo come il santo ha sempre chiaro il percorso: i mezzi e i fini, a sguardo limpido, per l’equilibrio, e quindi la pace, interiore e di vita. Senza illudersi di poter giungere alla piena carità, alla pienezza della vita senza la necessaria rinuncia e fatica. Senza rinuncia, senza equilibrio, senza un ordine e un impegno di vita, non si sarà mai liberi. Ci vuole sempre una giusta custodia: del cuore, dei pensieri, della mente, dei sentimenti, della vita. Ci vuole una ‘clausura’ che insegni la missione.
Anche Gesù ce l’ha detto e dimostrato, con lo spessore eloquente della sua vita nascosta, silenziosa, orante, molto più lunga della vita pubblica.
Se non vivi con il cuore in Dio, dove riposi?
Se Lui non è il tuo centro, come puoi avere luce e chiarezza?
E se prima non ti custodisci, come puoi dare Dio al prossimo?
Se sei sempre esposto, sempre all’esterno, dove trovi luce e grazia?
Lo vediamo nella vita di Benedetto, nei suoi anni di lotta allo speco di Subiaco; lo vediamo in quella di Francesco di Assisi… santi non si nasce, cristiani maturi non si nasce. Bisogna volerlo, desiderarlo, anche attraverso una giusta e bella ascesi, una misura di vita, una sana distanza e un bel distacco – che è sempre equilibrio d’amore - che ci permette di ‘liberare’ il dono che è in noi nel modo più bello, più puro, più grande ed autentico. Senza illusioni.
Per questo Benedetto vede il monastero come un “cantiere” sempre aperto, un’officina attivissima, in cui si affilano, ma con gioia e ogni giorno (senza mai andare in ferie!), le armi di una lotta spirituale costante (cfr cap. 4: Gli strumenti delle buone opere. “L’officina in cui assiduamente compiremo tutto questo lavoro è l’ambito del monastero, con la necessaria stabilità nella famiglia monastica”). Bisogna salire, andare verso l’alto; e questo richiede il lavoro intenso, deciso, assiduo e solerte di ogni giorno, sul proprio cuore. Senza battaglie non c’è la vittoria. Battaglie su di sé, costantemente, in Dio.
Tutto questo vale per i monaci e per gli oblati, come ricchezza.
Certamente la regola è per amare, ma ci vuole la regola, ci vuole sempre, tutti i giorni della nostra vita, e fino alla fine della vita. Siamo chiamati ad amare, sempre, senza durezze: e non c’è situazione o persona o problema che non mi/ci interpelli ad amare di più Dio, gli altri, noi stessi, la vita, uscendo dall’egoismo. Ma nell’ordine, ordinando la vita, perché sia dono, un vero bene, per noi e per il prossimo.
I monaci e le monache, gli oblati e le oblate sono sempre chiamati a “mettersi in gioco” sulla via dell’amore, della vera carità, il che comporta anche rinunce, superamenti, sacrifici… ma dentro un bel SÌ a Dio; soltanto perché sempre vinca l’amore di Dio in noi. Quando tutto questo diventa chiaro, nulla più ci ostacola davvero, e il cammino si spiana e diventa luminoso e fecondo.
Tutto è mezzo, via e dono per crescere nell’amore. Si desidera custodire, si vive da vigilanti, da svegli, da prudenti anche, ma per essere trovati pronti, coscienti ogni giorno di più, in questa schola amoris che è la vita cristiana: vita di Cristo! Gioia di appartenerGli, di essere Suoi, di saperci e sentirci sempre con Lui.
In fondo, dovrei vivere così: quando vedo e comprendo che una situazione, qualcosa o qualcuno mi distoglie da Dio, come dal mio vero centro, allora non va bene. Bisogna saper guardarsi dentro, riconoscere il bene ed il male, per purificare il cuore, e per la vera libertà.
Perché non solo, come dice san Giovanni della Croce, alla fine della vita saremo giudicati sull’amore, ma sempre, ogni giorno lo siamo. E il giudizio è prima di tutto dentro di noi: è il nostro cuore che ‘tasta il polso’ della situazione della nostra vita. È allora importante custodire, e desiderarlo, questo, comprenderne non solo il valore, ma anche la bellezza.
Io oblato/a, nella mia vita, nella mia famiglia, nel mio lavoro, nelle relazioni, sono e sarò portatore di Cristo, se prima sto con Lui, dimoro in Lui, rimango in Lui. Solo a partire dalla custodia del dono, “la Chiesa in uscita” che siamo noi, tanto desiderata dal Papa, è una Chiesa forte e libera, generatrice di vita. Una Chiesa che si sona, perché custodisce il dono, perché vive e si nutre della presenza di Dio, e dunque lo porta, diventa missionaria. C’è un movimento in uscita, al di fuori, perché prima il dono è cresciuto dentro, come un bimbo nel grembo materno. Non c’è missionarietà senza vita interiore, che è custodia, che è una vigilanza bella, che è cura amorosa del tesoro più grande.
Non vale solo per chi vive in clausura, recuperare la gioia della testimonianza a partire dalla cura della vita interiore. Vale per tutti, e in modo certamente significativo per gli oblati. Uscire dall’agitazione dei pensieri, dalla confusione di tanti pensieri superflui, per custodire prima di tutto in Dio il proprio cuore, e vigilare sulla vita del cuore, è il regalo più bello che possiamo farci in questa Quaresima. Non per fossilizzarci in un mondo sterile, ma per essere fecondamente “testimoni”. Chiesa in uscita sulle strade della missione quotidiana, portando non noi e i nostri problemi, ma Dio, la Sua luce, il Suo amore, e lo splendore della Sua verità.
[1] “Meditare sempre su cosa ci dice questa Parola oggi, guardando a quello che succede nella vita. È quello che ha fatto Maria durante la fuga in Egitto e alle nozze di Cana, quando si interrogava sul significato di questi avvenimenti. Ecco l’impegno per i cristiani: accogliere la Parola di Dio e pensare a cosa significa oggi”. papa Francesco, Tra stupore e memoria, Omelia S. Messa, Domus Sanctae Marthae, sabato 8 giugno 2013.
[2] Dom Guillaume, Un cammino di libertà. Commento alla Regola di san Benedetto, Lindau, Torino 2013, p. 125.
Historia - Comunidad - Oblación - Iniciativas - Textos - Deus Absconditus - Spazi di luce |
Benedettineghiffa.org - online dal 2009
Cookie Policy - Questo sito utilizza unicamente cookies tecnici necessari alla navigazione. Non installa cookies di profilazione.