“Dio basta!”
“Dio basta!”. È questo un celebre motto di santa Teresa d’Avila: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Chi ha Dio, nulla gli manca. Dio solo basta”. Non è che, in questo incontro, vogliamo fare concorrenza al nostro san Benedetto, giocando in ‘casa carmelitana’. No, è che i santi si danno sempre la mano, e non c’è concorrenza tra loro; arrivano, magari attraverso sensibilità o percorsi differenti, alla medesima, identica meta: “Dio basta”. Ma questo, se è valso e vale per i santi, perché non deve valere per noi, oggi, adesso, nella vita di ogni giorno?!
“Dio basta”. È veramente così per me?
Vediamo di rifletterci a partire dalla Regola. Cominciamo a considerare il Prologo, quale punto di partenza e “balcone” privilegiato da cui osservare tutto il cammino del monaco (e dell’oblato). Qui Benedetto traccia un cammino di ritorno: dalla volontà propria, dalla “pigrizia della disobbedienza” (v.2), alla “fatica laboriosa dell’obbedienza”, che è servizio a Cristo Signore, il vero re (v.3). Comprendiamo subito come san Benedetto non parte dall’io, attraverso un percorso introspettivo e psicologico, ma, con un bel balzo in avanti, invertendo decisamente la prospettiva, immediatamente, fin dalle prime battute della sua Regola, ci fa capire che, finché nella vita partiamo da noi stessi, finché il punto di riferimento siamo noi, restiamo nella terra della pigrizia, della disobbedienza, dell’allontanamento… È ancora la terra dei nostri progenitori, quella del peccato.
Spronandoci subito ad un bel cammino di ascolto, di apertura al Signore, nella docilità del cuore, nell’accoglienza limpida e senza prevenzioni della Sua Parola di vita, il monaco – e l’oblato – può non solo camminare, ma addirittura correre con cuore dilatato (v. 49) dietro a Lui. Dietro a Lui. Il Signore prima e davanti, quindi, sempre. Lui prima, assolutamente. Partire da noi sarebbe una falsa partenza, e tempo perso, energie sprecate. “Dio basta”. Il primato è di Dio, il punto di partenza è Lui, non noi, non il nostro io. I Suoi occhi sono su di noi, vegliano sulla nostra vita, ci hanno a cuore, prima ancora che noi possiamo volgerci verso Dio:
“…i miei occhi saranno su di voi, le mie orecchie si faranno attente al vostro grido, e ancor prima che mi invochiate io vi dirò: Eccomi!” (vv. 18-19).
E guardate che questo è molto importante, per un cammino veramente libero, impegnato e colmo di slancio. Questo vale anche per noi monaci/monache. Lo diciamo a voi, oblati, perché prima di tutto dobbiamo dirlo a noi. A me peccatore, come direbbe il nostro caro Papa Francesco. Nessuno escluso. Se una monaca si guarda troppo, tiene in troppa considerazione il suo io, il suo benessere, la sua salute anche spirituale, è finita: avvizzisce, rinsecca, si ripiega e chiude come una larva nel suo bozzolo, e non produce nulla di buono, non dà frutto. Diventa una povera… zitella, come direbbe sempre il Papa. E questo vale per ogni battezzato/a che voglia vivere sul serio il proprio battesimo, come nel caso dell’oblato/a benedettino/a. L’oblato sente di essere chiamato a vivere una ‘appartenenza’, bella, piena con Dio, vero?! Sente che con il Signore non si bara. O Lui veramente è il tuo tesoro, in concreto, al Quale ridare tutto con amore e generosità, e allora si vede, si capisce, perché così la tua vita avanza spedita, corre, vola, ed è una bellezza, dono per la Chiesa e per tutti, oppure continuerai a girare a vuoto su di te, con avvitamenti sempre più tristi e rattristanti anche per chi ti è vicino, e resterai sempre “al palo”, immobile. Ma questo non vogliamo che avvenga, vero?!
Allora, mi chiedo:
Cosa dice san Benedetto, sempre nel Prologo?
“Gli occhi nostri spalancati alla luce divina, gli orecchi attoniti per lo stupore, ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a noi gridando: Oggi, se ascoltate la sua voce, non indurite il vostro cuore…” (vv. 9-10)
Oggi! Oggi, ogni giorno il Signore ci chiama. L’iniziativa è Sua, sempre. Sta a noi, però, tenere gli occhi aperti, spalancati, sulla luce del Signore, che ogni mattina ci si offre. La luce c’è e ti illumina: ma se tu chiudi la finestra, e ti tappi in casa, anche se questa luce si irradia, anche se il Signore grida, tu resti nella notte, nella sordità.
Non è sufficiente udire la Sua voce, e neppure ascoltare. Bisogna desiderare di seguirLo, e volere cambiare vita. Bisogna volere la nostra conversione. “Dio basta” significa che il Signore della mia vita, il mio Dominus, è davvero lui: e allora voglio ascoltarLo, seguirLo, lasciarmi correggere e cambiare. Se Dio basta, allora io non sono più al centro, e quindi divento disponibile al cambiamento, alla conversione. Tutto dipende da chi guardo, su chi mi centro. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”.
Io voglio Dio?
Vedo Dio nella mia vita, lo cerco davvero?
Mi lascio purificare e cambiare?
“Dio basta”. Veramente non possiamo barare. Se voglio Dio, se Lo cerco, se voglio Lui come riferimento, allora, il lavoro e la lotta spirituale non mi spaventeranno. E non mi perderò. Dipende però da che cosa voglio davvero nella vita.
Andiamo alla scuola dei santi, se vogliamo diventare forti e avanzare con limpidezza nella fede. Di grande aiuto è la vita, scritta da sant’Atanasio, di sant’Antonio abate, padre dei monaci [1]. Come tutti i santi (e ricordiamoci che santi, per il Battesimo, lo siamo tutti; santi per grazia, santi per vocazione!), anche Antonio arriva al grande “punto di non ritorno” della sua vita, in cui capisce che, da quel momento, non può più prendersi gioco della storia: deve scegliere Dio, costi quel che costi. Vendere i suoi beni, darli ai poveri, e seguire sul serio il Signore. Dio basta! Come farà Francesco, come Benedetto… Bello questo “punto di non ritorno” – punto di conversione, punto di svolta, punto del rinnovamento di vita – nell’esperienza dei santi, dei grandi. E nella mia vita?
C’è stato un punto di non ritorno?!
Un momento in cui ho avvertito il primato, l’assoluto di Dio, e ho capito che dovevo cambiare?
E adesso? Sono fedele a questa svolta? Sono risoluto/a nel mio cammino di conversione?
Torniamo al nostro Antonio. Se leggiamo la sua vita, vediamo quanto è stato risoluto, deciso nel cammino di fede e di santità. Tutti i santi lo sono stati e lo sono. La grazia di Dio ha operato per prima nella loro storia, ma loro, i santi, sono stati convinti, costanti, decisi e risoluti. La volontà ha aderito, ha concorso, avendo chiaro il bene e ben fissa la meta. Per questo, se noi non lo siamo, così decisi, dobbiamo scuoterci un po’ di dosso la pigrizia, l’incostanza, e dirci con forza, come sant’Agostino, “se questo e quello, perché non io?!”. Antonio ha lottato, eccome. La santità ha sempre un prezzo, anche elevato. Ma se Dio basta, se noi vogliamo Dio veramente, non ci importa, in fondo, il prezzo. Se ci lamentiamo e recriminiamo, è perché ancora non ci basta Dio, e ci preme di più il nostro stare bene, la sicurezza ancora nostra.
Anche san Benedetto lo dice chiaro, al cap. 58 della Regola, parlando dell’accoglienza e del cammino del novizio: “Gli si prospetti chiaramente attraverso quali durezze e fatiche si va a Dio”. Chiaro, limpido, senza mollezze. Non gli dice: lo incoraggi… lo consoli… No. “…Se egli cerca veramente Dio” (RB 58, 7). Dio basta! Se Dio è il tuo centro, la tua roccia, il tuo vero amore.
Antonio, fin dai primi passi, è deciso. Ad un certo punto,
“Sempre più risoluto nel suo proposito, si diresse verso la montagna. Al di là del fiume trovò un fortino abbandonato, pieno di serpenti perché non era abitato da tempo; qui si trasferì e stabilì la sua dimora. I serpenti, come se qualcuno li inseguisse, se ne fuggirono subito. Antonio sbarrò l’ingresso e depositò i pani sufficienti per sei mesi. All’interno aveva l’acqua e rimase là dentro l’eremo solo, come se fosse disceso in un santuario, senza uscire e senza vedere nessuno di quelli che venivano da lui. Per molto tempo perseverò nella sua ascesi… (12)”
E più avanti sant’Atanasio precisa: “Passò così circa vent’anni, da solo, nella vita ascetica”. Vent’anni dentro il fortino. Ma cos’è questo fortino?
È la vita interiore, il vivere alla presenza di Dio, sotto lo sguardo costante e trasparente di Dio, come abbiamo approfondito nell’incontro di settembre. Nella misura in cui noi viviamo così, fortificati in Dio, avanziamo. I serpenti, gli ostacoli, le difficoltà scappano, se ne vanno, si sciolgono come neve al sole. Tutto davanti a Dio si fa chiaro, limpido. Vivendo al cospetto del Signore, troviamo tutto, dentro di noi (all’interno aveva l’acqua) nel nostro cuore, senza fughe.
La discesa nel nostro cuore, dove abita Dio, ci fa scoprire la bellezza di questa vita interiore, la ricchezza del nostro vero essere, la dignità e grandezza di essere tempio di Dio (come se fosse disceso in un santuario), e la profondità di questo sguardo ci libera dalla superficialità, dalla leggerezza, da ogni distrazione (senza uscire e senza vedere nessuno di quelli che venivano da lui).
La vita interiore ci ricentra in Dio, e ci ridà levità e forza, capacità di penetrare nella verità la realtà, senza divagazioni. Il fortino di Antonio è come lo speco di Subiaco di Benedetto. È il noviziato all’interiorità. Ciascuno di noi deve avere un fortino: non un’isola felice in cui si fugge, non una roccaforte, ma un punto di forza che ti riporta costantemente a Dio, e ti fa trovare Lui; ti fa esercitare nella lotta spirituale, per arrivare veramente a vivere il Dio basta! Dove trovi le sicurezze vere, le certezze più profonde, andando oltre la superficie degli accadimenti e delle situazioni.
Il “fortino”, alla fin fine, non è che il nostro cuore; il nostro cuore esercitato in Dio; la vita spirituale desiderata e coltivata con desiderio profondo e cuore puro. Come vostro “fortino”, per voi oblati e amici, sì, ci può essere anche il monastero di Ghiffa: non una roccaforte, non un’isola felice, che vi compensa dalle amarezze della vita, no, ma un “trampolino di lancio” per tornare ad affrontare ogni cosa nella giusta luce, quella del Signore, ripartendo sempre da Lui. A questo “serve” il monastero: qui si entra per pregare, e si esce per amare! Dopo aver sperimentato che Dio basta.
Perché nel fortino sant’Antonio è rimasto con costanza per vent’anni: nella fedeltà dell’ascesi. Ma poi, anche lui, è uscito dal fortino. Nessuna fuga mundi. Nel fortino ha “lottato con Dio”, ha imparato il linguaggio di Dio, si è “fatto le ossa”, ha compreso le cose nascoste, è diventato veramente un uomo spirituale – Dio basta – per poi tornare fuori, ad amare, a dare la vita ai fratelli. Tutti siamo chiamati a questo. Non ad un’ascesi per l’ascesi, non ad una chiusura, mai, neanche i monaci.
Tutto, anche la lotta spirituale più strenua, è sempre e solo in vista dell’amore, che, solo, ci rende familiari con Dio, somiglianti con Cristo, anzi, somigliantissimi.
Sant’Atanasio continua, infatti, nella narrazione della vita di Antonio, dicendo che quando questi uscì dal fortino
“non provò turbamento nel vedere la folla; non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dal Verbo, nella sua condizione naturale (...) Il Signore concedeva ad Antonio il dono della parola e così consolava molti che erano afflitti, riconciliava altri che erano in lite e a tutti ripeteva che nulla di quanto è nel mondo deve essere preferito all’amore per Cristo (14-15)”.
Torniamo al “nulla anteporre all’amore di Cristo” tanto caro a san Benedetto.
Allora, l’uomo spirituale vive in Dio naturaliter, con naturalezza, senza sforzi, “nella sua condizione naturale”, appunto. Vive naturalmente “in perfetto equilibrio”, perché Dio gli basta, perché governato dal Verbo. Questa è la pienezza cui ogni battezzato/a aspira, nelle lotte e traversie della vita. Non è l’esenzione dalle lotte ad assicurarci la pace e la felicità; al contrario, più attraversiamo anche le prove forti nel Signore, più veramente nulla ci turba, nulla ci sgomenta: fissando il cuore in Dio,diventando forti di Lui, sperimentando che Lui ci basta, ritroviamo l’equilibrio e la pace. E questo diventa benefico non solo per noi, per chi ci vive accanto, ma, nell’economia della grazia, per una moltitudine di fratelli e di sorelle. Se cresciamo e ci stabilizziamo nella vita in Cristo, diventiamo benedizione per tutti, per tutti. Se lavoriamo alla nostra santificazione, facciamo il vero bene dei fratelli, anche di quelli che no conosciamo. E questo, che sembra un paradosso, è il vero miracolo della vita cristiana. Afferma sant’Efrem (V sec.):
Si dice che un monaco che resta in preghiera nella sua cella, e allora, un cristiano che entra nella “terra” del suo cuore, per fermarsi in unione costante con Dio, ha tra le mani una leva con cui solleva il mondo! E questo ‘miracolo’ vale di più che risuscitare i morti.
Ci crediamo? Dio basta. Lui ti basta per affrontare la vita, i problemi, per discernere, per vivere…
E quando non capiamo? Quando le difficoltà sono tante? Quando le prove sembrano troppo dure da affrontare, impossibili da vivere?
Dio basta. Finché tutto va bene e fila liscio, puoi anche credere che la tua fede sia forte, e che Dio ti basti. Ma è la prova che rivela quel che sei, chi sei dentro, su chi veramente poggi la tua vita, a chi ti affidi, in chi confidi. Nel momento dell’incomprensione, della sofferenza, della contraddizione provare dolore, reagire in prima istanza, dolersi della prova è normale, è legittimo, è umano. Ma poi, riconoscendo che tutto è nelle mani di Dio, se non mi metto davanti a Lui, se non me la vedo con Lui, se non affronto Lui, in un rapporto veramente personale, a tu per te, anche e soprattutto nella prova, io perdo un’occasione d’oro, perdo tempo, non cresco… tanto la prova c’è comunque; ma se io lascio fuori campo Dio, io non Gli permetto di prendermi per mano, e non arrivo, non arriverò all’abbandono, che è la grazia più grande della vita. L’abbandono è il momento in cui la mia vita non la tengo più strettamente in mano io, non ne sono più possessore, ma lascio allo Spirito Santo la libertà di agire, e di agire nel modo che più a lui piace. L’abbandono è il lasciarsi veramente toccare e portare da Dio, nella Sua libertà. Così la prova, quando è attraversata dalla grazia dell’abbandono in Dio, diventa qualcosa di unico, di grande, troppo grande da dirsi…
Dice un monaco certosino:
“La nostra infelicità è legata ad un filo, e questo filo siamo noi che lo teniamo: non vogliamo lasciarlo. Cedere totalmente, radicalmente a Dio ciò che ci chiede, pronunciare un amen senza riserva, questo sarebbe la liberazione (…) Se l’anima è rivolta abitualmente verso Dio, se lo guarda abitualmente in volto, essa impara il felice oblio di tutto ciò che non è il suo amore. È certamente questo il mezzo sovrano che, prendendo le cose al principio, al vertice, crea la vera armonia e l’equilibrio di tutto l’essere umano” [2].
Certo, è un dono, è la grazia di Dio che può farci dire, nella prova, Dio basta!
Ma questa grazia, quando attraversiamo un momento difficile, noi dobbiamo, dobbiamo chiederla. Fermarci a metà non ci gioverebbe. “Il mezzo sovrano” è giungere alla radice delle cose, anche se nel dolore. Bisogna prendere le cose al principio, al vertice. Dirsi: Dio dov’è? Dio, dove sei, in questa sofferenza? Che ruolo giochi? Gridare, interpellarlo… per scoprire che è lì, con noi, accanto a noi. Che proprio lì Dio basta. Dio è il senso, la fiducia, la forza. E che c’è una sola risposta per noi: l’abbandono nelle Sue mani. Se quel “filo di infelicità” – il non capire, la non accettazione della prova – io continuo a tenerlo ostinatamente in mano, e non lo lascio andare, lo trattengo, non permetto a Dio di agire da Dio, di fare la Sua parte.
La grazia più grande è la non resistenza; il non resistere a Dio, qualunque cosa scriva o non scriva nella nostra vita. Ostinarsi a voler capire, a tenerci in mano, non fa che prolungare la sofferenza. Lasciarsi andare in Lui è la risposta vincente e liberante, “il mezzo sovrano” di un’inedita, misteriosa felicità.
Del resto, cosa consiglia san Benedetto al monaco che si trova suo malgrado di fronte a un’obbedienza impossibile, che non si può modificare, che non ha sconti?
Dice: “…creda che per lui va bene così, e, per amore, contando unicamente sull’aiuto di Dio, obbedisca” (RB 68, 4). Contando unicamente sull’aiuto di Dio. Dio basta. Ci sono momenti in cui sperimentare la mancanza di aiuti, di appoggi umani, di consolazioni, ci fa veramente imparare a contare unicamente su Dio, a fidarsi sul serio di Lui, ad accogliere la Sua pedagogia, che può anche essere misteriosa e dolorosa, ma sempre, se la accogliamo, ci porta avanti, ci matura, ci fa crescere. E molto spesso è proprio la prova, quello che non capiamo, che non vogliamo, il mezzo sovrano che ci fa crescere, sia nella fede che in umanità. Dipende solo da che parte tu stai, nella prova, dove si posa il tuo sguardo nel momento del dolore. La prova è prova sempre, si capisce. Ma se tu stai con Dio, se ti affidi a Lui, se lasci che sia Lui a portare avanti gli avvenimenti, allora, questa logica del Dio basta! diventa luce, forza, consolazione, speranza.
A conferma di ciò, prendiamo la nostra storia di Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento in Italia. I primi decenni della nostra storia italiana tra Seregno e Ghiffa sono una testimonianza eloquente di questo motto: Dio basta!
Il nostro Istituto in Italia nasce e avanza povero, piccolo, provato, ostacolato da difficoltà esterne ed interne che tentano di destabilizzare ogni equilibrio. Ma, tra le burrasche che insidiano alla radice il giovane albero benedettino-eucaristico, c’è di sentinella un santo: l’olivetano padre Celestino Maria Colombo, il padre buono, come l’hanno chiamato le prime generazioni di Madri e Sorelle, che, per lunghi anni (dal 1899 al 1935) ha guidato alla santità. Senza rispetti umani, senza mai temporeggiare, il padre, vero angelo dell’Istituto, ha sempre testimoniato e indicato Dio, dentro ed oltre ogni limite e sofferenza; dimostrandoci che, a colui il quale davvero Dio basta, nulla, ma proprio nulla manca.
Ecco cosa scriveva alle monache, benedicendo il loro difficile e contrastato esodo per Ghiffa, dopo tante desolanti traversie, ingiustizie e calunnie:
“Oggi, ve lo dico chiaro e netto, sono convinto che tutti, ad eccezione del Cardinale Protettore (il Card. Ferrata) a voi regalato dalla Madonna, v’hanno abbandonato. Mi convinco sempre più che avete Gesù Sacramentato che vi vuole tanto e tanto bene. A cose compiute io vi chiamo mie figlie e darò anche il sangue per salvarvi, perché sono convinto che Gesù troppo vi vuole bene. Cercate il meglio che desiderate per la gloria di Dio e il buon spirito della Casa del Suo Sacramento. Qualcuno vi direbbe: prima di concludere, guardate bene alla convenienza materiale. Io vi dico: Badate bene a prendere quelle misure che conoscete più semplici, più pure, più di Dio, meglio consone al vostro Istituto. Non il sangue, non le noie, non i sacrifici vi siano legge, ma unicamente Gesù Cristo” [3].
Unicamente Gesù Cristo!
[1] Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, Edizioni Paoline, Torino 2010.
[2] Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pp. 172-173.
[3] Riportato in M. Paola Montrezza, Biografia manoscritta di madre Caterina Lavizzari, quaderno 6, p. 539, p. Archivio monastero Ronco di Ghiffa.
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