Incontro Oblati
22 settembre 2013
“Sotto lo sguardo di Dio”. Occhi, cuore, mente… benedettini!
La vita di fede è questione di sguardo. Di sguardo di Dio su di noi, sulla nostra vita, e di sguardo nostro su Dio, sulla vita, sul prossimo, sulle situazioni, sul passato, sul presente e sul futuro. Se ci pensiamo, tutto dipende da come ci sentiamo guardati – da Dio, dagli altri… - e da come noi guardiamo il mondo. Tutto dipende dallo sguardo che abbiamo, e che coltiviamo; tutto, ma proprio tutto; tutto cambia, a seconda di come ‘ci sentiamo guardati’ ogni giorno dal Signore, e dal prossimo, e da come noi ‘guardiamo’: la vita è questione di sguardo!
Di sguardo interiore, che si riflette e manifesta all’esterno. Di sguardo profondo. Quel che siamo e viviamo fuori, dice quel che siamo e viviamo dentro. È molto importante. La nostra vita cambia e si trasforma in relazione allo sguardo che nutriamo e che curiamo dentro di noi (la vita interiore); se, cioè, affrontiamo tutto a partire da Dio, dal Suo sguardo sulle cose, dal Suo Cuore, dalle Sue intenzioni, anche dal Suo silenzio, che a poco a poco ci parla, oppure da noi, dai nostri interessi, dalle intenzioni ancora nostre, dalle nostre parole, dalle nostre proiezioni, dal nostro modo di vedere, di ragionare, di giudicare.
Un tempo, alcune generazioni fa, una riflessione di questo tipo sarebbe stata scontata, o pressoché inutile: quando la vita sociale era agreste e rurale, c’era tempo. Tempo per vivere! C’era tempo per pregare, per riflettere, per vivere maggiormente sotto lo sguardo di Dio. E, naturalmente, si rapportava tutto a Lui: la vita, gli affetti, le situazioni e gli imprevisti, le gioie e le malattie, le speranze, tutto. Si era così, spontaneamente, più sapienti: si imparava con semplicità, dal di dentro della vita e delle cose, il senso profondo dei giorni, e si gustava – pensiamo alle famiglie patriarcali – il bene di comunicarsi, tra generazioni, la sapienza nascosta e profonda del vivere. Si era semplicemente profondi, naturalmente, dal di dentro della vita, che insegnava al cuore la bontà delle cose.
Oggi risentiamo di una perdita, di una grossa perdita di senso, di ascolto, di sapienza, di calma, di riflessione e di profondità. Risentiamo di un vuoto, che, in alcuni casi, è una vera e propria voragine. C’è sempre bisogno di riempire questi vuoti, di colmare queste voragini e cavità, con un surplus di compensazioni, di parole, di illusioni. Di idoli. Sembra forte, dire questo, ma è così. E si teme il silenzio, la preghiera nel silenzio. Perché ci pone, senza schermi, di fronte a tante verità. Ma, se non si ha il coraggio di lasciarsi guardare da Dio, a partire dalla preghiera e dal silenzio, se non si ha la forza di lasciare progressivamente purificare la nostra vita dal Suo sguardo di amore su di noi, non si cammina. Non si fanno dei passi. Perché Dio amandoci, ci purifica: ed è solo così, a partire da questo sguardo dell’amore di Dio che ci purifica, che noi impariamo a ‘vederci’, ad accoglierci e ad accogliere, ad amare.
In monastero siamo testimoni di tanti percorsi e scoperte, da parte di fratelli e sorelle, che, con coraggio, vengono a porsi in ascolto di Dio. I monasteri diventano, così, centri di ascolto, di ‘recupero’ di comunicazione vera, profonda, che va dritta al cuore della vita. In un monastero benedettino, dove, alla scuola di san Benedetto, vogliamo ogni giorno vivere sotto lo sguardo di Dio, qui, insieme, noi monache e voi laici, uniti nel cammino di fede, possiamo recuperare questo sguardo profondo ed autentico, che non ha paura dei vuoti e delle ferite, perché è proprio qui che Dio entra, e vuole entrare. Ci occupiamo di questo sguardo interiore e purificatore, in questo incontro. Del recupero dello sguardo interiore, che fa la verità dentro e fuori di noi.
Torniamo a Benedetto. A san Benedetto giovanissimo, che, lasciati gli studi e il fascino effimero di una Roma già tanto corrotta, decide – decide! Quanto è importante la determinazione, al cuore della vita! Quanto dipende da una decisione ferma, sicura interiormente, che non torna indietro! – decide di lasciare la mondanità, per imparare a vivere sotto lo sguardo di Dio, appunto. Solo con Dio. Ci confida san Gregorio Magno, nel II Libro de I dialoghi:
È dunque esatto dire che il venerabile Benedetto in quella solitudine abitò con se stesso, perché tenne in custodia se stesso entro il limiti della propria coscienza.
Nell’eremo dello speco di Subiaco, Benedetto ha fatto il suo ‘noviziato’. Ha imparato, cioè, l’ “arte delle arti”, che è la lotta spirituale. Ha imparato a lottare e a vincere il male dentro si sé; riconoscendo e imparando a ‘leggere’ le sue passioni, i suoi istinti, le debolezze, per consegnarle e offrirle a Gesù Cristo; per “spezzarle contro la roccia che è Cristo”, come dirà poi, dal frutto della vita, nella Regola.
Gregorio Magno parla di una custodia di se stesso da parte di Benedetto: che non è solo disciplina e acquisizione di autodominio. Certo, il buon monaco impara tutto questo, ad affilare queste ‘armi’, a far buon uso di questi strumenti, dell’ascesi, potremmo dire. Ma la vita monastica non è puro e semplice autodominio e custodia, anche se questi mezzi sono importanti. La vita nello spirito è un cammino di liberazione che sbocca, e sboccia, nella pienezza umana, e non si riduce alla “custodia di se stesso entro i limiti della propria coscienza”. Questo è già tanto. Ma non è tutto.
Questione di sguardo, e di sguardo purificato. Il punto è questo: a questa purità di vita, espressione di una vita piena e nella gioia, manifestazione di libertà interiore, si arriva perché ci si lascia veramente portare da Dio, e si crede alla Sua grazia, alla Sua mano che ci libera e, sanandoci interiormente, ci porta sempre oltre.
Benedetto, prima che un asceta, è stato portato dalla grazia del Signore dentro un cammino di crescita progressiva, in cui ha saputo riconoscersi, ritrovarsi senza paure, tra luci ed ombre, e costantemente consegnarsi: consegnarsi a Dio, al monaco Romano che nello speco lo visitava (la Chiesa, madre e maestra! Non posso crescere nella fede senza le mediazioni della Chiesa, senza le conferme della Chiesa!) e dunque lottare su se stesso (non sugli altri!), sulle proprie ‘caverne’, bonificate via via dalla grazia assecondata, e dall’amore corrisposto.
Così che la vita spirituale, Benedetto ce lo insegna splendidamente, non avanza per repressioni, ma per trasfigurazioni. Benedetto nello speco, a tu per tu con Dio, nella solitudine, in un cammino di riconoscimento delle sue povertà (è il noviziato!) si lascia trasfigurare dall’amore di Dio, riconosciuto, assunto e corrisposto. Così, la povertà accolta diventa missione.
Ed è solo questione di sguardo, dicevamo. Di sguardo di Dio su Benedetto. Di sguardo di Dio su di me. Di un Dio che entra, e che io lascio entrare, a porte aperte, consapevole che ho bisogno di Lui, e che solo Lui mi salva. Dove la mistica precede l’ascesi, sempre. E dove non può mai esserci ascesi senza mistica. Da come io mi sento e mi so guardato/a da Dio, io cambio, io mi lascio trasformare e trasfigurare.
Così, posso interrogarmi su questo sguardo di Dio su di me:
Dio, come mi guardi? Che sguardo hai su di me?
Come mi sento guardato/ a da Te?
Ci possono venire in aiuto, qui, tanti brani evangelici. Pensiamo solo all’incontro di Gesù con il ‘giovane ricco’, o allo sguardo di Gesù su Pietro, dopo il triplice rinnegamento del discepolo…
Lo sguardo di Gesù sulla mia vita!
Quanto vivo di questo sguardo?
Perché
“…lo sguardo di Dio è lo sguardo di Gesù, così come ci è dato di conoscerlo attraverso i Vangeli. Se talvolta è pieno di collera nei riguardi dell’ipocrisia dei farisei, è prima di tutto lo sguardo d’amore rivolto al giovane ricco o lo sguardo che fa scendere Zaccheo dal suo albero o ancora quello che solleva la peccatrice mentre piange sotto lo sguardo dei suoi accusatori. Lo sguardo di Gesù nei Vangeli è uno sguardo che solleva, che mette in piedi, che guarisce, che da’ pace. E se talvolta si fa incisivo ed esigente, è per salvare dall’accecamento chi tocca. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo di liberazione che ci salva dalla chiusura” [1]
Se vivo, sotto lo sguardo di Dio in positivo, se il Suo guardarmi mi libera (dalle paure, dai condizionamenti e sensi di colpa, da tutto ciò che mi impedisce di sentirmi veramente un figlio amato), e mi salva, a mia volta diffonderò questo sguardo di bene e di vita sugli altri e sulle cose.
San Benedetto, fin dall’inizio del suo cammino, a Subiaco, e prima ancora, ha sempre desiderato porsi e camminare unicamente sotto lo sguardo di Dio. Questo gli è importato assolutamente. E per questo, liberato dallo sguardo di Dio, ha saputo a sua volta liberare i fratelli alla bellezza dell’amore vero, della vita redenta.
Lasciandosi guardare da Dio, fin dallo speco di Subiaco (e la preghiera è proprio questa esperienza viva del lasciarsi guardare da Dio), Benedetto ha saputo guardarsi e guardare i fratelli ed il mondo sotto questo sguardo benedicente. Benedetto da Dio, è diventato un benedetto per gli altri.
E questo vale anche per noi. Benedetti, benediciamo.
E io?
Tengo allo sguardo di Dio?
O mi importa di più lo sguardo degli altri?
Il mio cammino di fede mi fa crescere nella libertà interiore e nella pace?
Nella Regola, al capitolo magistrale sull’umiltà, il settimo, al primo grado di umiltà, san Benedetto ci traccia il profilo di questo sguardo:
Il primo grado di umiltà consiste dunque nel porsi sempre davanti agli occhi il timor di Dio, per evitare nel modo più assoluto di vivere da smemorati (…) …coloro che lo temono hanno sempre davanti agli occhi la vita eterna per loro preparata (RB 7, 10-11).
Tutto dipende da questo vivere alla presenza di Dio. Sotto gli occhi di Dio, che sono occhi paterni, colmi di amore, di bene per me: occhi che mi proiettano qui, adesso, oggi verso la vita eterna, e la preparano, a cominciare dall’amore di Dio nel mio oggi, per me e per gli altri.
Ci avete mai pensato a questo preparare la vita eterna nel dono che vivo oggi, nel bene che faccio oggi? San Benedetto è molto sensibile a questo tema, del preparare il nostro Cielo sulla terra, tema che troppo spesso noi rimuoviamo con leggerezza.
Se io mi sento guardato/a da un Dio che è mio Padre, dove il ‘timor di Dio’ è l’amore sacro che sento per Colui che mi ha dato e mi da’ ogni istante la vita, un Dio che sento così tanto, che sta davanti e accanto a me, che mi da’ gioia, un Dio così, che mi guarda così, che ha cura di me così, cambia il mio sguardo su tutto.
Capiamo, quanto dipende dal nostro rapporto vivo, personale, intimo con il Signore?!
Questo vale per voi laici, ma anche per le monache. Solo a partire dall’amore di Dio creduto (è di fede, prima di tutto!) e sperimentato nel profondo, vitalmente, solo a partire da un amore così, io posso veramente sentirmi figlio e partecipe, gioiosamente partecipe, dei tanti doni che Lui ogni mattina mi prepara. Partecipe, insieme a Dio, del dono e del bene della vita. Cooperatore, in Lui e con Lui, del bene del mondo. Credendo nella grandezza di una vita soprannaturale, che avvolge il mondo.
Non basta sapere Dio. Lui mi chiede la corrispondenza della mia vita al Suo amore: non è morale, questa. Non è una bella dottrina. Il suo amore puro mi purifica, perché io Gli somigli, perché io diventi sempre più figlio/a, somigliante a mio Padre, che mi ama follemente: capiamo quanto è grande, e quanto ci rallegra questo! Altro che cambiare dentro e fuori, con questa certezza!
Il suo sguardo su di me è amore che mi trasforma, giorno dopo giorno, e, trasformandomi, mi trasfigura. Allora, io, come cristiano/a, e tanto più come oblato/a benedettino/a, o amico/a del monastero, in cammino con queste Sorelle, io non posso rimanere pessimista, deluso, scettico, incerto, smorto, dicendo: si però… ci sarà pure gente di fede… ma come va male adesso il mondo…
San Benedetto ci educa a uno sguardo positivo, sempre positivo sul reale, anche quando si trova di fronte al male, al mistero del male. Mysterium iniquitatis. E non ha, come si dice, i paraocchi. Non è un illuso, un idealista. La sua sapienza romana, concreta, non gli permette chimere. Come fa, allora, al cap. 72 della Regola, su Il buon zelo che i monaci devono avere, come fa Benedetto a esortare: “…si prevengano nello stimarsi a vicenda, … facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda…” (72, 4.6)? Chi glielo fa dire?
Dio. Lo sguardo di Dio. Il “nulla anteporre all’amore di Cristo” (RB 4, 21).
Non uno sguardo umano, non una logica o ragionamenti umani. Se noi guardassimo anche un monastero, anche una comunità monastica con sguardo puramente umano, nessuno si salverebbe… Il positivo, “lo stimarsi a vicenda”, la luce che i miei occhi e le mie parole riflettono, dipendono solo dalla luce che il Signore riflette su di me (soprannaturale!): cioè, da quanto io desidero essenzialmente la Sua luce, e lascio che entri, che penetri, che trasformi la mia vita, che cambi i miei occhi nei Suoi, che mi dia occhi nuovi, cuore nuovo.
Occhi e cuori benedettini. Non idealizzati. Reali, ma postivi, perché di Dio, proprietà di Dio. Limpidi, puliti: purificati in Dio, nel Cuore di Cristo! Lì è il nostro specchio, non altrove.
A seconda di come noi viviamo, di come parliamo, di come ci poniamo nei confronti degli altri, di come valutiamo le cose, noi possiamo capire chi e che cosa ci muove: perché Dio illumina e salva; l’amore salva e vince, sempre.
La vita di Benedetto è specchio di questa umanità e santità positiva, che trasforma e salva non solo il cuore di chi vive così, ma anche il cuore altrui. E, quindi, salva il mondo attorno a noi.
San Benedetto, e lo dimostra bene la sua vita e la sua Regola, vivendo alla presenza di Dio, di questo continuo sguardo positivo, paterno di Dio sui suoi passi, ci testimonia non solo la santità di vita, ma anche l’unificazione della vita. Il santo (monos, il monaco) è l’uomo unificato. Che si lascia unificare da Dio. Che ci fa capire, con la sua vita e le sue opere, che solo Dio ci riporta all’unità di noi stessi, e dunque alla gioia e alla pace vera del nostro esistere, e che “avvicinandoci a Lui, noi ci avviciniamo a noi stessi e riscopriamo questa unità spezzata” [2].
Lo sguardo di Dio ci unifica, ci riporta all’unità. Alla semplicità, e quindi alla scoperta di una gioia radicale e profonda, dentro la continua novità della nostra esistenza. Che bello desiderare di vivere così, come figli/e di san Benedetto: uomini e donne che si lasciano sempre più guardare dallo sguardo d’amore di Dio, senza paura di consegnarci a Lui, per lasciarci ricomporre, e ritrovarci UNO in Lui.
Chiediamo, gli uni per gli altri, di desiderarlo e di compierlo, questo cammino.
A partire dallo sguardo, dal recupero dell’interiorità, di una vita filiale, che riscopre la bellezza di appartenere al Signore, per la vera libertà.
[1] dom Guillaume, Un cammino di libertà. Commento alla Regola di san Benedetto, Lindau, Torino 2013, pp. 252-253.
[2] Ibidem, p. 253.
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