La stabilità, segreto di santità benedettina
Non può mancare, in questa annata dedicata ai ‘temi chiave’ della nostra santa Regola, l’attenzione alla stabilità, che, per la via monastica benedettina, è un vero e proprio voto. Parlare di ‘stabilità’ oggi, in un tempo di continui mutamenti, fluttuazioni, rapidissime trasformazioni, in cui niente appare più stabile, è, di sicuro, una bella sfida.
Eppure, nei monasteri benedettini si fa ancora voto di stabilità: come ai tempi del fondatore, Benedetto, alla professione il monaco si impegna a rimanere stabilmente in monastero, per tutta la vita, fino alla morte: incarnandosi in un monastero specifico, in un luogo concreto, in una terra di appartenenza definitiva, che egli ‘sposa’ in profondità, con tutto se stesso, nel legame unificante con Cristo. Con il voto della stabilitas loci, il monaco si lega per sempre a Cristo, nella sostanziale stabilitas cordis.
Vediamo cosa significa questo, in concreto:
1.La stabilità monastica. Scorci sulla Regula Benedicti
San Benedetto non è il primo a chiedere la stabilità ai monaci. Da bravo figlio di una consolidata tradizione monastica e sapienziale, egli sa bene che i fondamenti di questo ‘voto’ sono molto antichi, e per questo lo ripropone, fresco ed attuale, ai suoi figli. I padri del deserto, la vita di Antonio il grande, ad esempio, sono segnali limpidi e invincibili della scelta vincente della stabilità.
Ricordiamo il motto ricorrente dei padri, di fronte alla prova e alla tentazione: “rimanere nella propria cella”. Restare, rimanere, stare in Dio, aggrappati a Lui, più ‘infuria la bufera’. Più le cose, dentro e fuori, si mettono male, e più è urgente fermarsi, restare, non fuggire, aspettando con pazienza e perseveranza che ogni vento contrario cessi. Restare in un luogo, sì, la cella, che però è il cuore stesso di Dio. Restare in Dio è l’abitazione, la vera dimora del monaco, nei tempi felici e in quelli turbolenti, e non ce n’è altre. Tutto il resto è illusione, fuga, appunto.
Questo è significativo, e ci illumina.
Anche san Cesario di Arles, monaco di Lerins (+ 542), ammoniva:
“Che nessuno ci inganni: non sfuggiamo al maligno fuggendo da un posto all’altro, ma solo passando dal peccato alla virtù, dalla passione al pentimento. Se pensi di sfuggire al demonio cambiando luogo, lui ti seguirà; correggiti, e il demonio fuggirà da te”.
Stabilità come condizione per la conversione (correggiti!). Condizione per la coerenza di vita, per la santità. Stabilità come fedeltà; ben le si addice l’espressione azzeccata del nostro Vescovo Franco Giulio: “la fedeltà è il volto maturo della libertà”. Questo garantisce la stabilità, una libertà profonda. Non ci si santifica fuggendo, rinunciando, girovagando altrove, cambiando continuamente luogo, senza mai impegnarsi, ma restando, rimanendo, perseverando.
Il ‘rimanere’ in un certo senso ti ‘obbliga’ – in senso buono! – a cambiare tu, dentro, ti ‘inchioda’ alla conversione, alla fedeltà, ti impegna a fare dei passi in avanti, verso il bene ed il meglio di te, senza scuse, senza alibi.
Di qui, capiamo bene perché san Benedetto nel capitolo 1 della Regola, ce l’abbia tanto con i monaci girovaghi, che chiama appunto “l’ultimo genere dei monaci…”. L’ultimo. Come a dire: se potessi, non ne parlerei nemmeno. Ma, già che ci siamo, lo dico chiaro, quel che sono: “essi passano la vita errando di regione in regione, facendosi ospitare per tre o quattro giorni nelle celle degli altri, sempre vagabondi, mai stabili, schiavi delle proprie voglie e dei vizi della gola, peggiori persino dei sarabaiti (‘molli come il piombo’)…” (RB 1, 10-11). Corruzione della volontà, che rimane proprietaria, in balia delle ‘proprie voglie’: nel monaco girovago, in-stabile, c’è un difetto radicale di consegna di sé, una mancanza sostanziale di obbedienza e di abbandono, e, in fin dei conti, la non volontà intrinseca di conversione.
Stabilità monastica e conversione dei costumi formano un connubio indissociabile: l’una è condizione dell’altra. Ecco, allora, perché Benedetto vuole monaci cenobitici, “fortissima stirpe” di gente stabile, ben fondata, stabilita dentro, con radici profonde, che, radicandosi in una terra precisa, quella della propria comunità, così com’è, e non come la si desidererebbe in teoria, si lega per sempre e in concreto a Cristo, con-vertendosi, volgendosi progressivamente e sempre più decisamente verso di Lui. Questo fa la stabilità: un voto, un legame, una radice profonda, che per il benedettino è, però, prima di tutto un dono, che si riceve dall’alto. Tanti fratelli e sorelle che giungono in monastero, infatti, rimangono meravigliati a sentire di Sorelle che sono in monastero da 40, 50 anni, e si chiedono, oggi, come questo sia possibile e fattibile… ma la Regola lo spiega con semplicità, questo ‘mistero’ della stabilità. Non dimentichiamo, però, che, prima di tutto, è un dono che si riceve, una grazia ricevuta, e continuamente confermataci da Dio, e non qualcosa che ci si da’ o si conquista da sé, anche se, ogni bel dono che si riceve, richiede impegno, cammino, corrispondenza fattiva.
Ma torniamo alla Regola. Se, nel suo codice di vita, Benedetto non dedica un capitolo specifico al tema della stabilità, questa però percorre tutta la Regola, come disposizione di fondo, come condizione vitale, appunto, come radice stessa della Regola e della vita del monaco. Ci sono però dei passi precisi, che la definiscono in un vero e proprio insegnamento da parte del padre del monachesimo occidentale:
“…non discostandoci mai dal magistero di Dio, aderendo alla sua dottrina nel monastero con perseveranza sino alla morte, ci associamo con la sofferenza ai patimenti di Cristo, per meritare di essere anche partecipi del Suo regno” (Prol., 50)
“L’officina, poi, dove usare con diligenza tutti questi strumenti (ossia gli ‘strumenti delle buone opere’, i mezzi della vita ascetica), sono i recinti del monastero e la stabilità nella famiglia monastica” (4, 78)
“Il monastero, se è possibile, deve essere organizzato in modo che tutte le cose necessarie (…) si trovino dentro l’ambito del monastero, perché i monaci non abbiano alcuna necessità di andare vagando fuori: ciò che non giova assolutamente alle anime loro” (66, 6)
“(il novizio) sia accolto nella comunità, ma sappia bene che anche l’autorità della Regola stabilisce che non gli è ormai più lecito da quel giorno uscire dal monastero (…) Il novizio che deve essere accolto prometta nell’oratorio, alla presenza di tutti, stabilità, conversione di vita e obbedienza” (58, 14-15.17)
Stabilità e clausura, altro connubio indissolubile.
Madre Anna Maria Canopi commenta:
“Ecco perché il novizio che viene aggregato alla famiglia monastica promette la stabilità. Questa è una garanzia per l’integrità sua e della comunità stessa con la quale, nel senso spirituale, egli forma un’unità organica. Promette dunque ‘alla presenza di tutti’ – perché tutti ormai sono suo corpo – di rimanere fedele alla sua chiamata lì dove il Signore lo ha posto. La stabilità è il presupposto indispensabile per tutto il resto dei suoi impegni monastici. Il verbo stare è molto robusto. Si trova tante volte nel Vangelo e nella Regola. Se uno non sta unito al Cristo, perisce; se il monaco non sta unito alla sua comunità – che è il corpo di Cristo – la sua vita monastica non potrà reggersi, perché è senza fondamento” [1].
La stabilità pone un fondamento, fissa le radici profonde del nostro cuore, in Dio, ancorandoci a una terra, a una storia, a uno spazio, a una ‘passione’ . Contro la frammentarietà della vita, Benedetto propone la stabilità come risposta chiara e forte, per l’uomo e la donna di ogni tempo, del suo sì dentro la storia concreta, vissuta, spesa fino in fondo, in una donazione totale e continua, nell’amore a Cristo, alla Chiesa, all’umanità. La stabilità, è, in radice, una risposta d’amore. Propositiva, protesa in avanti, perché fortemente ancorata al passato che ci ha generati. Ogni monaco, ogni monaca benedettina, promette stabilità in monastero a Cristo, alla sua Comunità così com’è, con la sua storia, la sua tradizione, il suo passato, il suo presente, il suo futuro, nella fede e nell’abbandono pieno. Stabilità è incarnazione, nella fede. Risposta in Dio, contro tutto ciò che evita di ancorarsi, di radicarsi, di lasciarsi immettere vitalmente dentro un solco già tracciato, che continua a crescere.
2.Quale stabilità per l’Oblato/a
Fissiamo dei punti.
Oggi si parla tanto, e a molti livelli, di crisi di identità. Nessuno può vivere svincolato, senza legami, senza appartenenze. Non è solo questione di sicurezza, ma di significato profondo per la vita. Il problema, oggi, è che ci si lega male, se come ci si lega, così ci si slega… Non c’è più stabilità, perché manca l’identità, il perché profondo, il centro. Lo si vede, a volte, anche nei giovani in ricerca vocazionale. C’è tanta paura oggi, molto più che non molti anni fa, ad esporsi, per impegnarsi in un cammino di vita consacrata, abbracciandone fino in fondo le esigenze. Con il rischio di vagare per anni, di qui e di là, senza mai dire un sì forte e vero, perché proprio il restare, questa richiesta di identità e di appartenenza, di stabilità, spaventa. E così per il matrimonio, per ogni scelta vera di vita. Si teme di perdere, di perdersi, di venire come “inglobati”, spersonalizzati, di ‘giocarsi’ tutti, fino in fondo. E, così, ci si perde davvero. Non si arriva al cuore.
C’è un rimedio, a questa inconsistenza? Sì, è l’amore di Dio. Che attira, e brucia la paura, sciogliendo ogni nodo. Non c’è da affliggersi, nemmeno come Chiesa, o come comunità, dicendosi: che mondo! No, c’è da restare, noi per primi, di più, con il Signore, e indicare Lui, ed offrire Lui alle giovani generazioni. Allora, le risposte cominciano ad affiorare. Più si cresce nell’amore del Signore, e dunque nella fede in Lui, più si diventa stabili, veri, consistenti.
“Appartenere significa fare affettivamente ed effettivamente parte di una realtà umana, di un ambito di vita, di un tessuto di relazioni…” [2]. Non è questione di sentimenti. Appartenere affettivamente ed effettivamente alla Chiesa, a una comunità monastica, ecc., significa, prima di tutto, essere stati scelti, essere stati ‘riconosciuti’ qui, proprio qui. E questo è molto bello, fa scoprire con gioia il dono di questa nostra identità ed appartenenza.
Io monaca, tu, voi, Oblati/a, non abbiamo scelto di diventare monaca od oblati. No. Ci siamo sentiti riconosciuti, ad un certo momento, indimenticabile, della nostra vita, dentro un’alleanza più grande e profonda, di Dio. Nessuno di noi/voi ha detto un giorno, a tavolino: voglio diventare monaca… voglio fare l’oblato… No, niente di questo. Con stupore, con tremore, magari, ti senti scelto/a, chiamato/a. La scelta è di Dio, e tu non puoi non aderire. L’identità e l’appartenenza non ce le diamo. Le abbiamo scoperte, con sorpresa, appunto. Ci siamo riconosciuti, qui dentro, dentro la scelta di Dio. E abbiamo detto sì con gioia. Poi, dentro questa alleanza, questo sì riconosciuto, io sono chiamato/a a crescere, a camminare, a guardare sempre avanti, coltivando con cura il dono. Ecco allora la stabilità, come ‘voto’, come impegno forte, coerente, come garanzia di santificazione del quotidiano, di santità.
Mi identifico… mi riconosco: perché Oblato/a benedettino/a, e non Terziario francescano, ad esempio?
Non lo so… Il perché lo sa Dio, e lo lascio a Lui. Ma io qui mi riconosco, qui mi identifico, qui appartengo. E, coltivando questa appartenenza, radicandomi in questa chiara legge di incarnazione, io mi compio, mi dono, e proprio qui, nel luogo e nel posto che mi è dato, io trovo la gioia, la pienezza, lo sbocco felice della mia vita.
La stabilità risponde alla legge dell’Incarnazione. Per un’unificazione, un compimento, una pienezza. Per rispondere pienamente a Dio con la nostra vita, a partire dall’adesione sincera e coerente al quotidiano. Ciascun battezzato è chiamato a questo, non solo il benedettino, anche se il benedettino sviluppa con una fisionomia precisa questo compito: ma il compito è di tutti i battezzati. L’importante è prenderne consapevolezza, lungo il cammino della vita, abbracciare un sì, e non tornare indietro.
Ora, possiamo riflettere su questi punti:
Io, Oblato/a, amico, simpatizzante di questa Comunità, ecc. come posso vivere ed essere fedele a questo ‘voto di stabilità’:
- Cosa significa per me STABILITÀ?
- Quale IDENTITÀ?
- Quale APPARTENENZA? Nella mia vita… per me, per gli altri. Per il Signore!
È importante riconoscersi… comprendersi… RESTARE, per andare sempre più verso Cristo!
2.FONDAMENTI, GIOIA, TRASFIGURAZIONE
La stabilità è per la gioia, sviluppa e matura la gioia della vita. Ogni vocazione produce gioia, non senza fatica, travaglio e sofferenza. Gioia che nasce, sempre, dalla Pasqua.
Un apoftegma dei Padri del deserto racconta di un monaco che diceva: “Resterò qui in questa cella ancora per l’inverno. E poi, con la primavera, me ne vado”. Quando poi arrivava la primavera, diceva: “Beh, starò ancora questa primavera, ma poi, quando viene l’estate, basta, me ne vado…”. E così per quarant’anni!
Interessante. Certamente, è ammirevole una stabilità che passa attraverso la sofferenza, e le fragilità. Quanti esempi eroici, anche nelle famiglie, quanti modelli di fedeltà stabile, costi quel che costi, da martirio… Ma perché ci si è creduto. Ciò che importa, cioè, sono sempre i fondamenti della vita, la roccia su cui costruiamo la nostra casa.
Un monaco, ma anche un oblato che si rispetti, deve lavorare su questi fondamenti, nella sua vita. Sul perché. Cosa ci sta sotto. Anche Papa Giovanni XXIII soleva dire: “solo per oggi faccio il Papa!”, ma lo diceva a mo’ di esercizio interiore: e intanto, quanto lavorava sui fondamenti!
Un oblato/a, ci direbbe il nostro caro san Benedetto, non può restare inconsistente, frantumato, fluttuante. Costi quel che costi… ma, dietro e al di là del costo, c’è sempre la grazia, c’è sempre la gioia. Gioia che nasce dal sacrificio, dall’offerta di sé, con Cristo.
Rimanere e permanere produce gioia.
Non è un caso… che la gioia più pura la troviamo qui proprio tra le monache più anziane, che nel sacrificio nascosto e quotidiano, goccia dopo goccia, hanno dato tutto di sé, senza risparmio. Ma hanno sempre avuto chiaro per Chi e perché l’hanno fatto. Per amore di Chi.
La stabilità poggia sulla chiarezza dei fondamenti.
Questo è un bel monito per gli Oblati. Non si può, da Oblati benedettini, vivacchiare, in balia del caso… Bisogna essere ben fondati. In Cristo, Nella Chiesa. Nella storia. Dall’incarnazione alla gioia, nel dono che si fida, e che cammina. Perché la stabilità, sempre, è camminare. Non rimanere per restare fermi, ma sempre per camminare, per andare avanti.
Il monaco e l’oblato RIMANGONO per andare avanti, e non fermarsi mai. Riconoscendosi in un corpo (la Chiesa, la Comunità, la famiglia…) ci si dona, si entra continuamente in gioco, con Dio, con gli altri, con se stessi, e si cammina sempre. Chi si ferma, è perduto, davvero. E questo è il frutto bello della stabilità: crescere, camminare, avanzare, restare aperti a Dio, alla forza soave dello Spirito, alla voce della Chiesa, della Comunità, dei Superiori, dei fratelli e delle sorelle, che ci smuove, ci scomoda, ci fa sempre uscire dal nostro piccolo io.
RESTARE, per CAMMINARE. Questo produce gioia, come frutto maturo della stabilità.
STABILITÀ: niente di statico, di fisso. Mettere radici profonde, per andare sempre avanti, sempre oltre, con fiducia e gioia.
Quale tesoro racchiude questo ‘voto’ della nostra Regola!
Stabilità è riconoscersi. Sapere da dove vengo, amare il luogo della mia incarnazione, per riconoscere dove sono diretto, e per lasciarsi sempre più trasformare e trasfigurare. Stabilità è non restare in superficie, ma abbracciare la vita, nei suoi fondamenti, nelle sue esigenze, nelle sue speranze più profonde. Di qui la fiducia e la gioia, come aspetti visibili e fecondi della stabilità.
Chiediamoci se questo sta avvenendo in noi, se accade dentro di noi, nella nostra vita.
San Benedetto ce lo chiede. Lui, uomo stabile e trasfigurato, ce lo insegna, ce lo mostra.
La stabilità è per la vita piena. Per la santità. Per cercare e trovare Dio, non oltre, ma DENTRO la storia, quella di ogni giorno, di ogni ora, quella più feriale. Vegliando stabilmente sul cuore dei nostri giorni donati. Vorrei concludere con un esempio splendido di quanto siamo venuti dicendo: la testimonianza dei sette monaci martiri dell’abbazia di Tibhirine, in Algeria, che nel 1996 hanno consumato e trasfigurato nel sangue, nella pienezza dell’amore, il loro ‘voto’ di stabilità.
Così scriveva, qualche anno prima del martirio, uno di loro, fratel Christophe:
“Perseverando nella Tua dottrina, il Vangelo di oggi, nel monastero, fino alla morte, che si è fatta vicina e rimane minacciosa, partecipando alle tue sofferenze, o Cristo nostra Pasqua,mediante la pazienza al fine di meritare di essere consorti, eucaristizzati, cristificati. Nel monastero fino alla morte, sì, se e come Tu vuoi, ma non fuori da una fedeltà viva al tuo insegnamento: ciò che ha detto a noi lo Spirito in questo tempo della Chiesa” [3].
Sono parole che non hanno bisogno di commento.
E noi?!
[1] A. M. Canopi, Mansuetudine: volto del monaco, Edizioni La Scala, Noci 1995, p. 453.
[2] C. Piccardo, la stabilità monastica in un mondo in perenne mutamento, Borla, Roma 2010
[3] B. Olivera, I sette uomini di Dio. Un testimone racconta la vicenda dei martiri di Tibhirine, Àncora, Milano 2012, p. 64.
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