La conversio morum, via della vera libertà
La Regola di san Benedetto, l’abbiamo più volte espresso nel corso degli Incontri, non vuole essere niente più che una via di conversione. Non tanto di perfezione, quanto di conversione. E questo è fondamentale.
Tutta la vita cristiana, fino all’ultimo giorno, è conversione.
Di questo è bene essere convinti; crederci. Riconoscere che abbiamo bisogno di convertirci al Signore, sempre, ogni giorno della nostra vita; che non siamo mai arrivati, mai, qualsiasi sia la nostra età, il nostro ruolo, il nostro cammino.
La meta è solo Lui, Gesù Cristo, e per arrivare a Gesù Cristo, sempre tanta è la strada da percorrere. Siamo sempre dei principianti, sempre dei novizi, nella via del Vangelo.
Questo è importantissimo riconoscerlo – cioè conoscerlo dentro, nel profondo del cuore, crederci davvero, sinceramente – se no rischiamo di rovinare la bellezza del nostro camminare, della nostra vita cristiana.
C’è un racconto, sullo stile dei fatti e detti dei padri del deserto, che narra di un monaco, un certo Pafnuzio, molto santo. Un vero asceta. Viveva solitario su di un monte, pregando, vegliando, digiunando senza sosta. Un bel mattino sale sul monte una vecchietta – era il diavolo sotto altre sembianze, naturalmente – con un bell’uovo fresco, e lo porge con comprensione a Pafunzio, dicendogli: “prendilo, caro, al mattino, così canterai meglio l’Ufficio…”. L’asceta da prima non cede, è troppo austero. Ma poi, tornando la vecchina a invogliarlo a sorseggiare l’uovo, e dài, e dài, un giorno Pafnuzio comincia a prenderlo, e uno, e due, e tre… in poco tempo l’uomo solitario si rilassa, cede le armi, si rammollisce, si arricchisce, si appesantisce… offusca la mente ed il cuore, e… e vita monastica, addio!
Una semplice storiella. Sì. Ma quanta verità c’è dentro, anche per noi.
Se nella vita cristiana manchiamo di vigilanza, scivoliamo con facilità incredibile, anche se siamo saggi e abbiamo già ricevuto tante luci. Non siamo mai confermati in grazia, mai. Il cristiano non è un confermato in grazia, un arrivato, ma un povero in cammino, sempre. Sempre in via di conversione, fino all’ultimo. E fino all’ultimo è possibile perdersi, se non si sta attenti, se non si è vigilanti.
Questo va tenuto presente, per un sano realismo della vita cristiana. Per questo non è bene idealizzare o idolatrare qualcuno, ma, conservando la prudenza di giudizio, accogliere ogni dono presente nei fratelli, ringraziare Dio, e insieme pregare, restando con i piedi per terra: sia riguardo a noi stessi, che al prossimo.
San Benedetto, il santo della discrezione, come abbiamo visto nell’ultimo incontro, è sempre molto realista, modesto, concretamente consapevole di questa ‘creaturalità’ che ci tiene bassi, piccoli, in cammino. Egli, fin dal Prologo della Regola, presenta la vocazione cristiana, e dunque monastica, come continua conversione, appunto, ‘conversatio’, come ritorno a Dio. Siamo sempre sulla via del ritorno a Dio, non già arrivati e sistemati.
“Ascolta, figlio, gli insegnamenti del maestro e apri l’orecchio del tuo cuore, accogli di buon grado le esortazioni di un padre che ti ama e mettile efficacemente in pratica, perché, attraverso la fatica dell’obbedienza, tu possa far ritorno a colui dal quale ti eri allontanato con la pigrizia della disobbedienza” (RB Prol. 1-2).
San Benedetto, sulla scia biblica, ci apre al ritorno a Dio nel cammino monastico: il ritorno di figli ancora lontani, ma desiderosi della casa paterna. Tutta la Sacra Scrittura è questa eterna alleanza tra Dio e il suo popolo, tra il Padre e i suoi figli, stretti in un legame perenne e mai esausto di amore, che il Signore non si stanca di tessere e ritessere, nonostante la lontananza dei suoi figli, lungo la trama dei secoli, con tutti e con ciascuno di noi: basti pensare ai Libri dell’Antico Testamento, nella trama dalla Genesi all’Esodo, alle figure emblematiche dei profeti, e, sempre più giù, fino ai Vangeli, e al manifestarsi della grande opera della Redenzione. Gesù Cristo è il Figlio che, con la Sua Pasqua, ci riporta a Casa (cfr Lc 15, la cosiddetta parabola del figliol prodigo), nel Cuore del Padre, alla fonte dell’amore e della vita.
Questa stessa storia di alleanza, di perdono, di misericordia e di conversione, san Benedetto scrive con la sua Regola nella vita e nel cuore dei suoi monaci. E, dunque, anche dei suoi oblati!
Cammino di misericordia e di perdono, forza della conversione.
Come ci direbbe Papa Francesco: “Dio non si stanca mai di perdonarci. Siamo noi che ci stanchiamo di chiederGli perdono!”.
E allora, come figli di san Benedetto, sia dentro il chiostro che nel mondo, dobbiamo vivere questa grazia: il desiderio di ripartire ogni giorno dall’amore di Dio, e non stancarci mai, mai di chiederGli perdono. Questa è la grazia della conversione: in atto, quotidiana, ogni giorno rinnovata, continua. Ed è forza d’amore!
Lo sentiamo questo desiderio?
Vogliamo vivere così, ogni giorno perdonati, ogni giorno graziati e rinnovati dall’amore, anzi, immersi nell’amore di Dio?
Non avrebbe senso fare un cammino verso l’oblazione benedettina, o essere già in cammino da tempo come oblati, sentendosi… a posto.
Non riconoscendo che abbiamo sempre bisogno di ripartire, ogni giorno, ogni mattino, da un più grande amore: quello di Dio, che ci precede e ci avvolge, ci sorprende e ci spiazza, ci raggiunge e ci converte, ci chiede di cambiare e ci trasforma, ci coinvolge e ci modella.
La via evangelica, la via benedettina, è via di conversione a Dio, via di ritorno a Dio. Nell’ascolto, nell’accoglienza della Sua Parola, nella meditazione, nella preghiera, nell’obbedienza, nell’umiltà di riconoscerci che un Altro ci guida e ci porta, che non siamo noi gli artefici e i padroni dei nostri giorni, noi camminiamo, noi possiamo guardare sempre avanti, con fiducia e speranza. Senza false sicurezze. Perché, le presunte sicurezze, che ci fanno troppo certi di noi stessi, non danno mai le ‘ali’ per andare speditamente a Dio.
La conversione è questo ritorno che ci fa veramente liberi, in una sequela gioiosa e sempre nuova, nell’amore del Signore. Via impegnativa, ma liberante. Via che ci fa felici, perché, appunto, ci riporta al nostro Dio.
Tutto questo san Benedetto lo esprime molto bene nel capitolo settimo della Regola, su L’umiltà, che spesso abbiamo considerato. Qui Benedetto traccia la strada dell’ascesi monastica in 12 gradini ben definiti, che sono itinerario di umiltà e di amore: perché la vetta del cammino di conversione è sempre e solo l’amore, e l’amore puro:
“Ascesi dunque tutti questi gradi di umiltà, il monaco perverrà a quell’amore di Dio che, essendo perfetto, scaccia il timore.
Grazie a questo amore, ciò che prima faceva sotto lo stimolo della paura, comincerà a compierlo senza alcuno sforzo, quasi spontaneamente, spinto dalla buona consuetudine”
RB 7, 67-68
Ossia, la conversione all’amore di Dio, passo dopo passo, diviene un habitus, interiore, fortissimo, che ci fa aderire a Cristo spontaneamente, armonicamente, “senza alcuno sforzo”. È bello questo!
Ma, per arrivare a questo punto massimo della carità praticata e vissuta dentro, stabilmente, nel cuore, occorre una conversio morum continua, che ci coinvolge per tutta la vita. Sentendone però la bellezza, l’attrazione. Questo vuole Benedetto per i suoi figli, monaci ed oblati. La vita cristiana, la vita monastica, non può essere un peso, uno sforzo, appunto. Certo, l’impegno c’è, la fatica anche, come no?! Non siamo puri spiriti. Abbiamo un corpo, e anche lui deve ‘salire’ la scala… Benedetto dice, all’inizio di questo settimo capitolo della Regola, che “i lati di questa scala sono il nostro corpo e la nostra anima” (v. 9). Nessuno spiritualismo. Abbiamo un corpo che ‘pesa’, e si sente. Ma che corre, anche! Non vediamone solo le fatiche. Noi andiamo a Dio con tutti noi stessi, corpo e anima; preghiamo con tutti noi stessi, corpo e anima; lavoriamo con tutti noi stessi, corpo e anima; ci santifichiamo con tutti noi stessi, corpo e anima: e questo è bello! Nessuna negazione, nessuna esclusione. Tutto è integrato in un’armonia, nel cammino di santità. Ma, perché questo avvenga, occorre una conversione. Dobbiamo volerla, la conversione, desiderarla, sentirne l’attrazione, appunto, la spinta, la molla interiore. Se no, che vale camminare?!
Per questo san Benedetto parla di conversio morum: la santità, il cammino cristiano verso Cristo, implica un ‘cambiamento’, di mente, di mentalità, di modo di pensare e di vedere le cose, le situazioni, la vita; e una vera e propria conversione del cuore. Conversione a Cristo, senza scampo. E questo implica un cammino, dei ‘salti di qualità’, dei bei superamenti.
Siamo disposti a convertirci?
Siamo disposti a perdere?
A perderci in Cristo e per Cristo?
Conversio morum. Oggi più di ieri, è faticoso questo. Si tratta di una conversio a Cristo, con tutti noi stessi, con i nostri mores: le nostre consuetudini, usanze, abitudini, costumi, mentalità. Oggi poi, nel tempo e nella società in cui siamo inseriti, i mores del mondo non sono propriamente quelli evangelici: e allora? Noi, a che punto siamo? Come ci poniamo, noi cristiani, noi oblati, noi monaci, di fronte ai mores della vita sociale, civile, politica, ecc.?! Capite come tutto questo discorso, sulla conversio morum, sia importante, perché profondamente incarnato, inserito nel tempo, nella storia, nello spazio di vita. L’abbiamo più volte sottolineato: la spiritualità benedettina è dalla terra, rifugge tutto ciò che esula dal concreto, dal quotidiano, dall’oggi, dal qui ed ora. Basta scorrere l’indice della Regola benedettina, e si comprende subito la mentalità ‘romana’, quadrata, con i piedi per terra di Benedetto, perché è lì che nasce e cresce la santità. Dentro il tempo e lo spazio di vita, non fuori od oltre. Il santo non vive fuori dal tempo. Ora et labora: qui, adesso,tra cielo e terra, ti santifichi. Con l’impegno del lavoro, che corrobora la tua preghiera. I monaci benedettini non sono mai stati svincolati dalla situazione concreta della terra e della gente del loro tempo, della loro zona di vita: per questo hanno bonificato paludi, coltivato terreni, educato il prossimo in attività scolastiche e di apostolato, esercitato con amore l’accoglienza nei monasteri, per condividere con la propria gente, quella vicina, e i pellegrini, gli ospiti che bussano alla porta del monastero, il tesoro di Cristo, da adorare in loro (RB 53 7). E questa attenzione alla terra, allo spazio, al tempo, alla storia, rende la conversione del benedettino sempre attuale e attualizzata: dentro situazioni specifiche, ordinarie, vitali. Non sulle nuvole… È importante capire questo. Per comprendere cos’è la conversio morum, collegata ai mores della propria storia, del proprio tempo, della propria terra.
Dentro le gioie e le sofferenze, dentro le contraddizioni della nostra storia, che non fuggiamo – come comunemente si pensa – ma anche noi viviamo e ‘portiamo’, con tutto il loro spessore, nella nostra vita fraterna e personale, assumendole in Cristo: perché Lui, il Suo amore trionfi dentro di noi e in mezzo a noi. Questo è il frutto della vera conversione: sempre la comunione.
Capiamo, così, quant’è vitale questo discorso.
Come io, monaca benedettina, non sono entrata in monastero per fuggire le prove della vita, ed evitare dolori e contraddizioni, ma per cercare nel chiostro il volto di Gesù Cristo, imparando ad amarLo, e così a portare il peso della vita, ma anche le sue gioie, a nome dei miei fratelli e sorelle, così tu, fratello oblato, sorella oblata, aspirante, simpatizzante… tu non vieni a Ghiffa per fuggire il mondo, no!
Tu non dici, e non devi dire: oh, com’è brutto il mondo… quante ingiustizie, quante sofferenze, andiamo un po’ a Ghiffa, va’, così mi ristoro e mi riprendo…
Non è evangelico pensare così.
Le gioie e i dolori del mondo, sono miei, sono nostri. Il mondo sono io. Non posso fuggirlo. Ma il monastero è via, canale, per imparare Cristo, per seguire Lui, per amare e imitare Lui. Ecco allora, che così, la conversione è bella, e non è solo un impegno. Conversio morum: sia che sono in monastero, sia che cammino come oblato/a, la scoperta che faccio ogni giorno è che ho molti mores da convertire a Cristo, molti… Ce n’è sempre! Eppure, questa conversio continua non mi spaventa, anzi, mi entusiasma; perché è via di libertà, di recupero della mia vera identità, di ritrovamento dell’interiorità, contro tante e troppe dispersioni della vita odierna.
Come afferma madre M. Geltrude Arioli: “L’itinerario della conversione conduce alla libertà vera, che non è astratta apertura a tutte le possibilità, ma capacità di autodeterminarsi aderendo intimamente a Cristo, identificando la propria vita con la sua obbedienza redentrice e il suo filiale abbandono alla volontà del Padre” [1].
Ci piace questo programma?
Nessuno è esente da conversione, mai. Benedetto lo dice chiaro, a tutti, anche all’abate. Molto bello, è, a riguardo, il capitolo 3 della Regola, su La convocazione dei fratelli a consiglio, in cui il padre dei monaci d’Occidente chiede ad ogni membro del cenobio, e all’Abate per primo, grande capacità di ascolto dei fratelli: ascolto che implica confronto, relazione, umile messa in discussione di se stessi, per comprendere l’altro, per uscire dalle proprie vedute, per fare un passo più in là, con uno sguardo più ampio, senza prevenzione alcuna, verso nessuno:
“Abbiamo detto di chiamare a consiglio tutti i fratelli perché spesso proprio al più giovane il Signore manifesta ciò che è meglio fare…”.
Questa conversio cordis, conversio morum, implica davvero tanta umiltà. Un amore umile ci chiede Benedetto; una amore capace di guardarsi sempre dentro, di correggere se stessi, di rievangelizzare se stessi, guardando Cristo.
I cieli nuovi e la terra nuova iniziano qui. Sono lavoro concreto e quotidiano, nella grazia del Signore.
Benedetto crede, e lo spiega lungo tutta la Regola, alla forza della conversione:
e noi?
[1] M. Geltrude Arioli, Il mondo in un raggio di luce. Dalla Regola di san Benedetto uno sguardo sapienziale sull’uomo e sulla storia, Edizioni La Scala – Noci 2011, tomo I, p. 117.
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