“Nella gioia dello Spirito Santo!”
(RB 49, 6)
Dedichiamo questo incontro Oblati al tema dello Spirito Santo nella Regula Benedicti. Che Benedetto sia un uomo dello Spirito, che pensi, parli ed agisca costantemente mosso dallo Spirito Santo, permeato nell’intimo del cuore dalla grazia e dalla forza dello Spirito, in quanto vir Dei, come lo chiama il suo unico ‘biografo’ Gregorio Magno, è chiaro. Che la Regola sia ispirata, e questa ispirazione venga dall’alto, è cosa indiscussa. La Regola di san Benedetto è dono ecclesiale, dentro la Chiesa, quale tempio dello Spirito.
Ma quale posto occupa, dentro la Regola, appunto, lo Spirito Santo?
Come vi è presente, tra le righe, dentro il testo, a darvi corpo ed agilità?
Quanto il suo autore, Benedetto, vi fa leva, come forza intrinseca della vita cenobitica cui da’ forma e connessione, solidità e respiro?
Cercheremo in queste poche cartelle di riconoscerlo.
Con la premessa che poi, a ciascuno, è possibile completare la ricerca, e dunque andare oltre, sempre per la promozione della vita.
La presenza dello Spirito Santo in noi: quanto ci crediamo? Quanto la viviamo?
Benedetto, lo vediamo bene ne I Dialoghi, è stato un uomo che ha creduto nella potenza dello Spirito Santo nella sua vita e in quella del suo prossimo, e in forza dello Spirito ha sempre agito.
Da quando, giovinetto, si abbandona dalla decadenza dei costumi della Roma opulenta, mosso appunto nell’intimo dalla grazia dello Spirito che lo vuole solo con Dio, a quando, spinto dall’affetto, ricompone il vaglio rotto alla cara nutrice; a quando corregge o ammonisce i suoi monaci, in preda alla tentazione, o il temuto re Totila, infondendogli quella salutare compunzione – e che cos’è la compunzione, che muove a conversione, se non grazia dello Spirito all’opera?! – che gli fa cambiare cuore e vita. O quando, a Montecassino, guarda il monastero e il territorio circostante dal piano superiore, dall’alto, cioè dal piano dello Spirito, appunto. Mai terra terra.
L’uomo spirituale abbraccia la terra – non la disdegna, eh, non se ne discosta! La abbraccia – custodendola dall’alto, con uno sguardo più ampio, sapienziale, che è globale e particolare insieme, e, dunque, uno sguardo più bello, più puro e disinteressato su ogni cosa. Più aperto veramente al mondo, alla forza del mondo.
Questo fa lo Spirito in noi: valorizza la vita, la guarda con occhi buoni, alla luce della bontà e misericordia di Dio. Il credente, nello Spirito, ama, è aperto alla vita, non la sfugge e non la disprezza. Questo sia ben chiaro!
Benedetto vede il mondo “in un raggio di luce”. Come vive, così muore: avvolto in uno splendido raggio di luce, ci racconta Gregorio. E questo è molto interessante: segno che la morte ce la prepariamo ogni giorno, così come viviamo.
Benedetto vive ogni attimo, ogni suo respiro, potremmo dire, intimamente mosso dall’amore che è appunto lo Spirito, e la sua morte se la prepara attimo dopo attimo, vivendo così bene, amando, in un grande raggio di luce.
Come viviamo, così ci è donato di morire. Non è indifferente come viviamo: la nostra vita non è fatta di ‘attimi fuggenti’, e indifferenti, ma di giorni e di ore e di tempi che, nello Spirito, ci donano già la nostra eternità.
Ogni sì ben detto, ogni offerta ben fatta, ogni adesione sincera e tersa alla volontà di Dio, è un filo d’oro di questo grande raggio di luce che tesse la strada per il Cielo: il bene che faccio oggi, la gioia che dono, i pesi che nella fede sop-porto, porto con Cristo e con i fratelli, non si fermano mai raso terra, ma vanno già, in un unico raggio di luce e di grazia, in Cielo: il mio bene mi precede in Cielo, è il tesoro per me fin da oggi in Cielo, come un’unica e splendida scia di luce!
Il Paradiso non si improvvisa, ma si tesse, filo per filo d’amore, ogni giorno.
Benedetto questo lo sa, e lo scrive con la sua Regola. La vita, la comunità, il cenobio, sono per lui e per i suoi figli “una scuola di servizio divino” (schola Dominici serviti). La vita è servizio, è servire Dio. E questo non rende tristi, ma dona la vera gioia. Scuola di gioia e di libertà, attraverso l’ascesi, è il cammino monastico. Sul modello unico del Maestro, che ha amato servendo, e non servito.
Fare tutto per Dio, servire Lui, come in una grande scuola e palestra di carità, ci dona a Lui. Ci dona Lui. Chi serve Dio, diventa di Dio.
Se all’inizio del cammino della Regola c’è l’amore – ci vuole tanto amore per cominciare bene – e c’è la consapevolezza che questo cammino non si può intraprendere con le nostre forze ed i nostri doni, ma è necessario fidarsi dello Spirito Santo, appunto:
“Prima di tutto, però, ogni volta che ti accingi a fare qualcosa di bene, chiedi al Signore, con ferventissima preghiera, di portarlo Egli stesso a compimento…” (Prol. 4)
“Con la grazia che Egli stesso ci dona…” (Prol. 6);
la consapevolezza di questa grazia, che è lo Spirito Santo, che ci porta e ci conduce lungo tutto il percorso di fede e di sequela, si affina e si rafforza con l’avanzare del cammino in Dio, nella certezza sempre più limpida che l’iniziativa è dello Spirito Santo, che l’opera è innanzitutto Sua. Contro ogni volontarismo rassicurante. Contro ogni presunzione nostra. Lo Spirito ci apre. Lo Spirito ci illumina, ci guida e ci conduce. Questo è il punto fermo, e di forza di tutta l’ascesi. Tutto è grazia, in fin dei conti, e niente è nostra prerogativa o presunzione. Questo ci rende liberi, e ci dona la vera gioia.
Lo vediamo bene nel capitolo 49 della RB, su L’osservanza della Quaresima, che è unvero gioiello di armonia cercata e recuperata:
“Ciascuno spontaneamente, nella gioia dello Spirito Santo, offra a Dio qualcosa di più della misura che gli è imposta, vale a dire sottragga al suo corpo un po’ di cibo, di bevanda, di sonno, di loquacità, di svago, e così attenda la santa Pasqua nella gioia del più intenso desiderio spirituale” (49, 6-7).
“Spontaneamente!” → Lo Spirito Santo produce libertà!
Niente di forzato nel cuore. In una naturalezza di grazia, in un sereno assecondamento dell’opera del Signore in noi, che cresce con il crescere della fede, e dell’abbandono filiale in Dio. Solo lo Spirito fa crescere e dona gioia, dona anche vera libertà. Dove non c’è gioia interiore e serenità, e dunque libertà, non c’è l’opera dello Spirito Santo. Un cammino cristiano che non sia, con un bel termine caro al nostro Vescovo Franco Giulio, anche sciolto, cioè compiuto per intero, con tutta l’anima, il cuore e le forze, con tutti i doni e le possibilità della persona, che a poco a poco si sente sempre più liberata e libera nel cuore di Dio, non è cammino di pienezza. Dove lo Spirito muove e conduce, c’è scioltezza. Un’ascesi che procede per forzature e resistenze, non è davvero secondo lo Spirito. Certo, questo non significa che non ci saranno fatiche nel cammino, o punti di ‘snodo’ anche dolorosi, per la nostra conversione, appunto, ma dove c’è lo Spirito del Signore all’opera, c’è già la chiarezza di una libertà in divenire, anche sul punto di snodo. Questo dev’essere molto chiaro. E lo dice senza fraintendimenti san Benedetto, al termine della scala dell’umiltà:
“Ascesi dunque tutti questi gradi di umiltà, il monaco perverrà a quell’amore di Dio che, essendo perfetto, scaccia il timore. Grazie a questo amore, ciò che prima faceva sotto lo stimolo della paura, comincerà a compierlo senza alcuno sforzo, quasi spontaneamente, spinto dalla buona consuetudine. Allora non agirà più per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo e per l’abitudine al bene e la dolcezza che deriva dalla pratica delle virtù.
Ecco quanto il Signore si degnerà di mostrare – con l’azione dello Spirito Santo – nel servo ormai purificato dai suoi vizi e dai suoi peccati”
L’azione dello Spirito Santo purifica, ma non mostra, nel suo procedere, un servo indurito o scostante, bensì un discepolo che attraverso la purificazione “spontaneamente, spinto dalla buona consuetudine… non agirà più per timore… ma per amore…”.
Sottolineiamo questi termini:
- Spontaneamente;
- buona consuetudine;
- amore di Cristo;
- abitudine al bene;
- dolcezza
- pratica delle virtù
Sono tutti termini ed elementi positivi, pro-positivi, operativi, protési in avanti. Così agisce lo Spirito. Non per colpi duri…
San Benedetto nella sua Regola è provvido, in quanto è Padre, di modelli e profili molto belli e significativi, che ci offrono l’esempio di questa gioia dello Spirito Santo in atto nel discepolo, che costituisce la sua forza intima.
Ne cogliamo solo alcuni, anche se sarebbe molto bello approfondire il discorso, vagliando la Regola capitolo per capitolo.
Capitolo 1, I diversi generi di monaci.
Benedetto la definisce una fortissima stirpe (I, 13), che l’obbedienza a una Regola e a un Abate (I, 2) ha ben temprato, lungo i giorni, nell’ascolto. Lo Spirito parla – ascolta, figlio (Prol., I),e parla in concreto, attraverso le giuste mediazioni, che infondono la sua grazia e offrono la sua luce. Così, la gioia nello Spirito del monaco, ma anche dell’oblato, sta in fondo nel consegnarsi, fidarsi, credere… e procedere. E anche questo cammino è dono dello Spirito, grazia Sua.
Capitolo 2, Come deve essere l’Abate.
L’Abate è il primo che in monastero è sotto la guida dello Spirito, sotto ‘il tiro’ continuo dello Spirito, in quanto è chiamato a “sempre ricordarsi di come lo si chiama…”. Lo si chiama padre! Dunque, l’Abate per primo ho bisogno ogni momento dell0 Spirito Santo, di aderire alla sua azione come docile strumento, con quei tratti visti precedentemente, della scioltezza, spontaneità, dolcezza, ecc.
Attento all’azione dello Spirito in Lui, nei suoi monaci e nella Comunità, ai suoi tocchi di grazia continui, l’Abate è il primo filtro responsabile di tale grazia: sta a lui farla passare e scorrere, promuovendo carità, unità, santità, oppure frenare, se non addirittura bloccare, ma non sia mai, tale opera di salvezza… Grande e terribile il compito dell’Abate. Lo dice chiaro Benedetto:
“E sia ben consapevole di aver assunto una missione tanto difficile e delicata: quella di guidare le anime mettendosi al servizio dei diversi temperamenti…” (2, 31).
Deve saper leggere, l’Abate, quello che lo Spirito scrive nei cuori. Deve servire la grazia di Dio. Quello che Lui si attende e prepara. Per questo deve essere un orante, l’Abate, deve pregare molto, e si deve pregare molto per lui. Perché sia un vero flauto dello Spirito! Compito dell’Abate, infatti, dice Benedetto, è specificatamente quello di “far penetrare nel cuore dei suoi discepoli il buon fermento della giustizia divina…” (2, 5). Anche qui, poniamo attenzione ai termini:
- far penetrare
- il buon fermento
Termini positivi, ancora una volta. Far penetrare: infondere, aiutare ad interiorizzare, a fare proprio il ‘tesoro’. Dolcezza d’amore, sapienza spirituale, e quanta, è richiesta all’Abate, perché il ‘buon fermento’, cioè la carità, penetri veramente nei cuori dei discepoli! Penetri, cioè vada giù giù, in profondità… Non basta dire, ammonire, correggere, ma bisogna farlo bene: con cuore buono, sensibile e attento ai doni e alle differenze, vulnerabile alla grazia, e ciò è possibile solo con la forza dello Spirito Santo, appunto.
Bisogna che questo Parola tradotta dall’Abate per i discepoli, in loro diventi cuore, anima, vita. E se non c’è tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la vita dell’Abate, appunto, nella grazia e dolcezza dello Spirito, che come balsamo si infonde nei cuori, come può penetrare questo tesoro?! Per questo san Benedetto insiste così tanto sull’azione dell’Abate, “esigente maestro e tenerissimo padre” chiamato più a giovare alle anime che a in pugno:
“L’abate… consideri sempre quale carico si è assunto… Sia ben consapevole che è suo compito servire e aiutare i fratelli, più che dominare su di loro. È necessario quindi che egli sia profondo conoscitore della legge divina, per saper trarre da essa insegnamenti nuovi e antichi” (64, 7-8).
E chi potrà garantirlo, questo povero Abate, se non lo Spirito Santo?
Lui per primo dovrà credere che lo Spirito è al lavoro nella sua comunità e in ciascuno dei suoi monaci: lui per primo dovrà munirsi e donare la gioia dello Spirito, perché tutto il monastero ne sia ricolmo, e trabocchi di questa gioia, riversandola sui bisogni e sulle urgenze del mondo che attende.
Già, ma si dirà, e a noi oblati e amici del monastero, che importa tutto questo, noi, grazie a Dio, non siamo abati…
Già. Ma essere oblati, radicati nello spirito ad una Comunità monastica, significa essere chiamati ad una responsabilità
reciproca, nel Signore.
Anche a noi Dio da’ un dono e una responsabilità, anche a te. Hai una missione per i tuoi fratelli. Sei responsabile. La tua parte, non la può fare nessun’altro. Non puoi delegare altri del bene che non fai.
Perché, ci assicura Benedetto nella Regola, il frutto maturo di questo progressivo lavorìo dello Spirito Santo in noi, è lo zelo buono (RB 72), cioè la vera, sincera carità.
Capitolo 72, Il buon zelo che i monaci devono avere.
Si tratta di ‘zelo’ buono, “che avvicina a Dio”: avvicina il proprio cuore, ed il cuore altrui. E cosa fa questo zelo buono, che è come l’elisir dello Spirito Santo che dal nostro cuore si distilla negli altri?
Produce provenienza vicendevole, stima, sollecitudine benevola e benefica, sop-portazione, pazienza per le debolezze altrui e proprie, disposizione interiore sincera all’ascolto e all’obbedienza… In breve: pace e amore. Questo fa lo Spirito! E ci pare poco?!
“…c’è anche uno zelo buono, che allontana dai vizi a avvicina a Dio e all’eterna vita.
Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore.
Essi dunque si prevengano nello stimarsi a vicenda; sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene al loro Abate, dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed Egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna” (72, 2-12).
Questo fa lo Spirito Santo. Produce frutti di vita eterna. Prepara sulla terra il nostro Cielo.
Dipende da noi aderire o meno alla guida dello Spirito: lasciarsi muovere dai suoi ‘tocchi’ di grazia, non lasciarli cadere, dicendo: “sì, ma tanto… cosa cambia?!”.
Lo Spirito ci rende beneficamente reattivi. Ci toglie dall’immobilismo spirituale, dall’inoperosità, dall’apatia. Lo Spirito ci fa vivi, operativi, pro-creativi… Attenti alla vita in noi, in profondità, e attorno a noi, nel cuore dei fratelli e del mondo.
Tutta la Regola benedettina è dinamismo dello Spirito Santo. Sotto lo Spirito, e con lo Spirito. Non c’è capitolo, e davvero sarebbe bello approfondirlo, che non riguardi l’azione dello Spirito Santo: nella comunità, nell’oratorio, nei fratelli preposti ai vari uffici, nelle relazioni interne ed esterne, nella vita.
Questo ci da’ una strada maestra, anche per il cammino di voi Oblati ed amici.
Proviamo, con questi spunti, ad approfondire, rileggendo la Regula Benedicti sotto il filtro portante dello Spirito Santo, e verifichiamoci, per la nostra vita nuova in Cristo, nello Spirito.
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