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Preghiera, conversione, santità
Preghiera, conversione, santità
Preghiera, conversione, santità
Incontro Oblati
24 giugno 2012
Siamo al termine di un anno di cammino come ‘gruppo Oblati Ghiffa’: un anno vissuto alla scoperta della preghiera, del ‘capitale’ che è la preghiera nella nostra vita, dentro il vissuto della Regola benedettina.
In questi mesi ci siamo un po’ introdotti alla bellezza del cammino di preghiera all’interno del monachesimo, con qualche ‘finestra’ aperta sui tesori sia dell’Oriente che dell’Occidente: grati a Dio e alla Chiesa di poter respirare… “a due polmoni”…
Abbiamo assaggiato un po’ il gusto della lectio divina quale ricchezza tipicamente monastica; poi abbiamo varcato la soglia della preghiera del cuore. Quindi, nello scorso incontro, ci siamo soffermati sulla preghiera quale esperienza di misericordia di Dio, che suscita e genera misericordia nel nostro cuore, nella nostra vita, verso i fratelli.
Ora, come tappa finale di questa densa annata, vogliamo fare un ultimo passo, che ‘chiude’ un po’ il cerchio, e completa quanto siamo venuti offrendoci nel Signore. Trattiamo oggi della preghiera come esperienza di conversione, e quindi di santità.
Tutta la Regola di san Benedetto, lungo tutto il suo percorso, è un cammino: graduale, progressivo, paziente ma deciso, tenace ed alacre, di sequela e di incorporazione a Gesù Cristo. Camminare secondo la Regola, spiega san Benedetto, è seguire con amore e totalmente il Cristo, “nulla anteponendo al Suo amore”. (cfr RB 4, 21). E il primato di Dio nella nostra vita non possiamo che esprimerlo ed alimentarlo pregando, tenendo sempre ben accesa la ‘fiaccola’ della preghiera: se questa si spegne nei nostri giorni, tutto in noi illanguidisce e si trascina, facendosi pesante dentro e fuori di noi. Perché la preghiera è luce, coraggio, forza sempre nuova, acqua viva che irrora la nostra terra.
Nel Prologo Benedetto invita dunque a servire Cristo Signore, il vero re (Prol., 3); a ‘partecipare’ alla Sua vita, per meritare la gloria del Suo regno (Prol., 30-31) non in un giorno lontano, ma fin d’ora, già adesso.
Tutta la Regola è penetrata da questo sguardo d’amore di Dio Padre che, attraverso il Cristo, il Cristo glorioso, vittorioso, Risorto, si china su di noi e ci chiama a conversione. Sempre nel Prologo, san Benedetto mette sulle labbra del Signore: “…i miei occhi saranno su di voi…” (v. 18). Lo sguardo del Signore ci attira e ci trasforma, ci cambia dal di dentro. Dio ci guarda, ci conduce passo passo: chi ‘respira’ e vive alla luce della Regola benedettina, fa questo cammino progressivo alla presenza. Alla presenza di Dio Padre che ci ama, costantemente sotto lo sguardo del Padre. Non è un Padre giudice, non è un Dio despota: è Padre!
E chi, nella sua infanzia, non ha ricevuto, per motivi diversi, il dono di una paternità del tutto serena, ecco che proprio attraverso il cammino della preghiera può, purificando il vissuto, recuperare tale paternità piena ed insuperabile: quella di Dio, appunto! E chi invece ce l’ha, anche umanamente, come retroterra, l’esperienza ed il gusto di una bella paternità di vita, ancora di più è chiamato ad immergersi senza remore nel cuore immenso di questa paternità divina.
Non importa poi così tanto con che ‘bagaglio’ e retroterra io vado al mio Dio: quel che importa è che sono ora, e con fiducia, con amore, con tutto me stesso, dentro questa relazione personale e unica, fondante, con Dio mio Padre.
Quel chevale non è che io perda anni ed anni a ‘piangere’ quel che non ho ricevuto, o a lamentarmi delle mie ‘ferite’: quel che conta è che Dio mi sta amando ora! Che Lui è qui adesso, dentro la mia vita. E la preghiera me ne da’ la prova. Se mi attardo troppo in lamenti o rimpianti, io non vivo adesso l’avventura stupenda dell’amore di Dio per me, e dunque non cammino, non cresco, non ricevo vita. Nell’amore di Dio sperimentato, coltivato nella preghiera, io recupero anche tanti perché del mio vissuto, e guardo avanti. Recupero il fondamento.
Perché è dentro questo fondamento che si gioca poi tutta la mia vita: le scelte, gli slanci, le relazioni, il perché dei miei giorni, il senso di tutto ciò che vivo.
Diventare allora discepoli di Benedetto, anche come Oblati, è fare nella preghiera ed in tutto un cammino da figli: camminare dentro la figliolanza forte di Dio. In un rapporto profondo e personale, e sempre sorprendente. Scoprirsi, proprio nella preghiera, amati, ‘terra’ della fiducia di Dio, in Cristo. Sentire come è bello questo slancio del Padre su di noi momento per momento, che, lungi dall’incuterci timore, ci da’ fiducia e ci rafforza passo dopo passo. Questo è il ‘cuore’ benedettino. Bello, no?! Consapevolezza della paternità di Dio su di noi. Questo è il fondamento: “…l’uomo deve essere ben consapevole che Dio continuamente lo guarda dall’alto dei cieli, che tutte le sue azioni sono in ogni tempo allo scoperto sotto i Suoi occhi e che gli angeli gliele riferiscono in ogni momento…” (RB VII, 13).
Nessun timore, nessuna paura in questo sguardo dell’amore paterno di Dio, che non ci perde di vista un solo istante! Come può il figlio avere paura di suo Padre?! E se qualche paura o timore ancora in me ci fosse, ecco che la preghiera è la forza ch emi riconduce a questa ‘fiducia di base’ in Dio Padre.
Più avanzo nel cammino di preghiera, più scopro quanto è grande e buono il Cuore di Dio, più cresco come figlio, nel rispetto, sì, ma insieme nella gioia e nella trasparenza, nella confidenza di sapermi amato! E allora la preghiera diventa cammino di conversione, cioè di ritorno a Dio. La preghiera riconduce il mio cuore al Cuore di Dio, sotto il fascino del Suo sguardo d’amore su di me:
“È come dire che l’orazione, se è vera, sarà il luogo privilegiato nel quale potrai lasciarti guardare dal Cristo così come sei. Ancora meglio, egli ti scorgerà nel più profondo di te. Per comprenderlo, è necessario che tu ti rifaccia senza posa a che cos’è l’orazione: una ricerca instancabile dello sguardo di Cristo o del Padre, che sia una vera esperienza personale di questo sguardo” [1]
“Se l’orazione è vera”: la preghiera, se è vera, apre:
- all’incontro con Dio, scoperto, riconosciuto, amato e desiderato come Padre;
- alla conoscenza di sé: nella preghiera anch’io mi ‘ri-conosco’: porto e rivedo in Dio, sotto il Suo sguardo di misericordia, tutto il mio passato, nelle sue luci ed ombre, e lo riconsegno al cuore di Dio (vedi il Sacramento della Riconciliazione); questa consegna mi ‘converte’ a Dio, ma mi pacifica anche con me stesso; mi fa accettare me stesso, di purificazione in purificazione… (la preghiera è accettazione di sé);
- all’incontro bello e costruttivo con il prossimo, scoperto come ‘volto di Dio’; senza restrizioni o possessi, senza rifiuti, chiusure o giudizi, ma sempre a ‘cuore aperto’, o dilatato, come vuole san Benedetto, nel rispetto libero e cosciente del dono che il fratello è, in un cammino che apre alla gratuità, allo stupore, e dunque alla luce della fede, nel sostegno reciproco e concreto.
Da tutto questo capiamo com’è vitale per noi la preghiera: senza la preghiera autentica, che appunto ci apre, noi non possiamo vivere, noi non cresciamo, non ci muoviamo, restiamo come fermi e paralizzati. La preghiera è cammino, il solo grande cammino dell’uomo, che muove tutti gli altri cammini della storia, grande e piccola, comunitaria e personale.
Se quando prego io solamente dico delle parole, se recito delle formule, se mi fermo a una sorta di pietà che non mi mette mai in discussione, non mi aprirò a nulla. La preghiera è ben di più. È ‘vedere il Cristo’, e lasciarsi guardare da Lui senza difese o paraventi. Ecco perché la preghiera vera converte, e alla fin fine ci chiama a santità: perché lo sguardo di Dio Padre, di Cristo su di te non ti può lasciare uguale a quel che sei; ti provoca e ti cambia, ti ricrea nella grazia dello Spirito. E dunque ti fa testimone dell’amore ricevuto nell’orazione, per cui:
“Solo gli uomini d’orazione sono veramente felici, perché hanno trovato nello sguardo del Cristo tutto quello che cercavano. Vedere il Cristo o avvertire nel suo cuore la dolcezza dello Spirito è sempre orazione…” [2]
Capiamo di qui che la preghiera autentica ci fa felici. È fonte di grazie e di felicità la preghiera. Chi se ne priva, chi non prega, non si apre alla gioia di Dio, che Dio ha in serbo per lui da sempre, da tutta l’eternità.
Davvero, che ‘capitale’ è mai la preghiera!
Esperienza di unione con il Signore, di immersione nella Sua misericordia e di conversione personale, quindi discernimento, di vera carità, di solidarietà con i fratelli, con la loro storia, nella con-divisione delle loro sofferenze. Strada sicura di santità! Ce n’è per una vita intera.
“La preghiera che scorre senza sosta nel nostro cuore ci aiuta a riconoscere la volontà del Padre negli eventi e negli uomini […] Se la preghiera ci fa vedere meglio la volontà del Padre, ci aiuta pure a penetrare più profondamente la realtà. Per un cuore che si muove nella preghiera tutto diventa trasparente” [3].
Chi prega vede, “vede” Dio in azione nella vita e nella storia; vede e impara a discernere, a riconoscere, a distinguere e quindi a scegliere il bene ed il male, in sé e negli altri. Non c’è preghiera vera che non coinvolga la vita, la trasformazione della vita.
“Ascolta, o figlio”: sono queste le prime parole della Regola che san Benedetto offre a tutti noi, suoi figli, monaci e monache, oblati e oblate, amici che respirano il clima del monastero. Ci dice, Benedetto, che la preghiera parte sempre e solo dall’ascolto. Pregare è porsi alla presenza di Dio, ascoltarLo, lasciare che Lui ci parli, ci tocchi il cuore, ci cambi. È movimento la preghiera!
“Ascolta, o figlio”:
“È questo appello, l’eterno appello dell’amore del Padre al figlio prodigo, che costituisce il nocciolo della vocazione monastica. Il monaco (leggi: l’oblato) è l’uomo che si sa, in fondo al cuore, peccatore, ribelle al Padre e proprio per questo apre il cuore al Suo richiamo, e intraprende la via del ritorno. E questo amore forma una cosa sola con l’amore di Gesù Cristo… È proprio Lui che ci chiama, che ci viene incontro e ci conduce, come fa il buon Pastore con la pecora smarrita” [4].
Questo appello di Dio che continuamente ci chiama e ci richiama a sé, e non ci da’ tregua, e ci da’ la misura del Suo amore senza misura per noi, è proprio l’esperienza della preghiera che ce lo fa sentire. Nella preghiera la voce del Signore ci chiama a conversione; ci scuote dal torpore, dal ‘sonno’ del nostro restarcene sicuri e ben al riparo; in ultima analisi, questa voce continua dell’amore di Dio sui nostri passi – “ascolta, figlio…” – ci chiama alla santità. E questo è bellissimo: Dio, il tre volte Santo, mi chiama alla santità, cioè a partecipare sempre più di Lui!
Ma io ci penso a quanto è grande questo appello di Dio? E lo desidero?
Voglio che quel breve soffio che è la mia vita sulla terra batta all’unisono con il cuore di Dio, cioè voglio la santità?
Quanti santi benedettini ci dimostrano questo anelito concreto di santità che ha invaso, proprio attraverso la preghiera, la loro vita, trasformandola in un riflesso luminoso del Cuore amante di Dio.
E io, e noi, perché dovremmo ‘giocare al ribasso’, accontentandoci di una vita dimezzata, e non volere prima di tutto e soprattutto la santità?!
Ma, se non prego, non capisco questo linguaggio; non sento questo ‘profumo’; non dispiego le ali, non posso desiderarlo questo sommo bene. E continuerò a camminare raso terra. Invece i monaci – e, perché no?! Gli oblati! – sì, devono ardere. Siamo chiamati a mete grandi, alte. Quanti esempi sul nostro cammino, anche recente. Basta pensare ai monaci di Tibhirine, ai sette trappisti dell’Atlas che nel 1996 hanno dato la vita con amore, fino al martirio, per Cristo e per i fratelli di Algeria, amati più di se stessi [5].
Basti pensare alla ‘piccola’ Gabriella dell’Unità, la Sagheddu, che nell’ardore della sua breve vita ha dato tutta se stessa per la causa dell’unità dei cristiani, in circostanze che ai tempi sapevano di profetico e persino di ‘rivoluzionario’. Siamo nel 1937. Il gesuita p. Couturier, da Lione lancia la proposta di diffusione della settimana di preghiera dell’unità dei cristiani, in seno al movimento di preghiera per l’unità dei cristiani alla fede cattolica, nato negli Stati Uniti all’inizio del ‘900. E l’Abbadessa di Grottaferrata, madre Maria Pia Gullini, sapiente e illuminata – e proprio per questo sarà avversata – “con discrezione imposta dalla prudenza, propose questa intenzione di preghiera, come altre, alla Comunità riunita in capitolo. Nell’avviso si accennava anche – cosa normale nella spiritualità del tempo – ad ‘oblazioni volontarie fatte sotto la salvaguardia dell’umiltà, debitamente autorizzate’.
Detto, fatto. Quando i cuori sono preparati, imbevuti di preghiera, possono diventare ‘calici’ aperti al sacrificio. ‘Sotto la salvaguardia dell’umiltà’. Nel rispetto del voto di obbedienza. Ma in una grande docilità al dono dello Spirito, che soffia in modo incredibile, e, lasciato agire, può fare cose nuove. Così,
“Dopo il capitolo, si presentò all’abbadessa madre dell’Immacolata: la vecchia suora di 78 anni, piccola, rattrappita, appoggiata al suo bastone. Alzava verso la Madre due occhi stranamente luminosi. ‘Questo è per me. Se permette, offro il poco di vita che mi resta’” [6].
“Questo è per me. Se permette, offro…”.
Umiltà dentro un dono chiaro e ardito dello Spirito. “Ascolta, figlia…”. Il Signore parla dentro la preghiera, e parla chiaro. E li da’ i Suoi doni. Sta a te restare in ascolto, e, pregando, nell’umiltà discernere: sottoponendo a chi ti rappresenta il Signore. Senza presumere. Senza ostentare il dono e le tue forze. “Se permette, offro…”. Se davvero, quello che credo sia un dono ricevuto, il Signore lo vuole: se è Lui che lo desidera, che me lo sta chiedendo. Ci vuole la preghiera e l’umiltà. E allora lo Spirito va, libero, senza più freni. E il dono cresce, si moltiplica:
“Nel gennaio del 1938 la Trappa fu raggiunta di nuovo dal foglietto che chiedeva preghiere e sacrifici per l’unità della Chiesa. Fu questa volta la giovane professa ventiquattrenne, suor Maria Gabriella, ad avvicinare la Madre. Non aveva avuto il coraggio di farlo subito, e si era consigliata prima con la maestra, madre Tecla. Ora si inginocchiava e chiedeva, dolce e sottomessa come sempre, ma insistente questa volta: ‘Mi lasci offrire la mia vita, tanto, che cosa vale?... Mi apre proprio che il Signore lo voglia, mi sento spinta a questo senza volerci pensare…’” [7].
“Mi sento spinta…”. Sì, umanamente è inaudito. Ma siamo dentro un dono. Una chiamata nella chiamata. Una ‘spinta’ forte e chiara dello Spirito. Che non si ferma alle nostre logiche, anche se plausibilissime.
E cosa risponde l’Abbadessa? Con prudente sapienza, le suggerisce: “Ebbene, non dico né sì, né no. Si offra alla volontà di Dio. Lo chieda anche al Padre Cappellano. Farà poi il Signore quello che vuole”.
E questo bastò, al “fiat!”, al “Via!” verso il cielo.
Sono misteri, sì, dentro doni che non possiamo spiegare come ‘due + due fa quattro’. Eppure, in tutto questo cammino di santità c’entra e lavora la preghiera.
A suor Gabriella Sagheddu, oggi beata, il dono dato è stato grande, gigante.
Per noi saranno doni più piccoli… più ‘ragionevoli’, evidentemente.
Ma, se non preghiamo…
Il “gioco” della nostra vita lo compie la preghiera: lo porta avanti e a termine la preghiera. Più prego, più collaboro con Dio; più scopro e mi rendo disponibile ai Suoi doni. Più la vita diventa una grande avventura dentro il Suo amore, mai stanco di arrivare al nostro cuore, e di rivolgerci appelli e chiamate sempre nuove.
Pregare è stare al gioco di Dio.
Mettersi a disposizione.
Ma io ci sto, a questo’gioco’?
[1] J. Lafrance, Dimmi una parola. Sentenze sulla preghiera, Ed. Àncora, Milano 1990, p. 171.
[2]Ibidem, p. 179.
[3]Ibidem, pp. 126-127.
[4] M. Della Volpe, La strada della gratitudine. Suor Maria Gabriella, Jaka Book 1983, p. 49.
[5]Più forti dell’odio. Gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria. A cura della Comunità di Bose, PIEMME 1997.
[6]Ibidem, p. 73.
[7]Ibidem, p. 79.
