Il Bene dell’Obbedienza
Per una fisionomia benedettina
Si dice che un monaco benedettino è… la sua obbedienza!
Dimmi se obbedisci, e come obbedisci, e ti dirò se sei benedettino, e come lo sei!
Ossia, per il figlio di san Benedetto l’obbedienza ha valore per se stessa, e non come mezzo di perfezione. È la strada, è la via che porta a Dio.
Dunque, se l’obbedienza è così vitale per il monaco, deve c’entrare anche per l’oblato/a, no?!
Soffermarsi su questo tema, lungo l’annata dei nostri incontri, non è, allora, secondario.
Di solito la parola ‘obbedienza’, di per sé, non suscita particolare entusiasmi o afflati. Parlare di obbedienza sa di impegno, di dovere, di qualcosa che si deve fare… dunque, ha il sapore mica tanto dolce di un ‘lavoro’ (con tutta la sua pregnanza di fatica, ‘labor’, di sottomissione, come stare-sotto, appunto…), e pare così contrapporsi alla nostra libertà, allo slancio personale, all’entusiasmo, appunto…
Ma è proprio così che la intende san Benedetto?
Andiamo a leggere insieme il capitolo 5, su L’obbedienza. Uno dei capitoli centrali, capisaldi della Regola, assieme al capitolo 6 e 7. Siamo al cuore della vita benedettina, qui. Cosa dice san Benedetto?
“Il principale contrassegno dell’umiltà è l’obbedienza immediata.
Essa è propria di coloro che ritengono di non avere assolutamente nulla più caro di Cristo.
Questi dunque – sia pure consapevoli dell’impegno assunto con la professione monastica, sia perché presi dal timore dell’inferno e accesi dal desiderio della vita eterna – appena un superiore ordina loro qualcosa, come se fosse veramente comandato da Dio, non possono sopportare alcun indugio nel compierla. Proprio di costoro il Signore dice: All’udirmi, subito mi obbedivano” (RB 5, 1-6).
Ecco il distintivo, la ‘fisionomia’ del monaco in quanto obbediente, ob-audiens, capace di ascolto e di messa in pratica. San Benedetto ci indica, in questo capitolo così importante, che la ‘stoffa’ robusta e integra del monaco – non per nulla egli parla subito, fin dal primo capitolo della sua Regola, dei monaci come del fortissimum genus (1, 13): una razza ‘fortissima’, robusta, invincibile, perché aggrappata al Cristo, appunto – si tesse e ritesse proprio nell’obbedienza.
Un’obbedienza che non può che nascere dall’umiltà, da un cuore umile: se non sei umile dentro, nel cuore, come fai ad obbedire davvero?
Lo dice bene il beato Columba Marmion, grande e santo abate, che ogni figlio di san Benedetto è chiamato a frequentare con assiduità, attingendo alla sua sapienza: “Il nostro santo Padre Benedetto dimostra come l’espressione pratica dell’umiltà sia l’obbedienza” [1]. L’umiltà e l’obbedienza, scrive il Marmion, sono compagne inseparabili. Non si può barare. Se non obbedisci con il cuore, nel profondo del cuore, dentro, con tutto te stesso, non lasciando ‘fuori’ nulla – questa è umiltà! – tu ‘scoppierai’ dentro l’obbedienza, non la reggerai, perché, fino ad un certo punto farai, eseguirai, sì, produrrai… Ma poi, se la tua motivazione non è forte e sincera, se non è pura dentro, prima o poi butti fuori il tuo no, la tua dissociazione, la tua ribellione.
Si obbedisce nel cuore, e quindi con la vita, ci dice Benedetto.
Non con i bei pensieri, le ‘luci’, le emozioni ed i sentimenti sublimi, no.
Gran cosa e gran lavoro su se stessi, sul proprio cuore davanti a Dio, è l’obbedienza, in concreto. Non si può barare con se stessi, davanti a Dio, appunto. E lo si vede bene, nella vita monastica, fin dai primi passi in noviziato. Non puoi passare da un’obbedienza all’altra, da un’osservanza all’altra, ogni giorno, senza essere veramente obbediente dentro, e quindi in pace, nella tua mente, nel tuo cuore, con te stesso, con Dio, con gli altri.
Perché, presto o tardi, si arriva al dunque:
- Perché lo faccio?
- Perché obbedisco?
- Per Dio? Per me? Per la ‘bella figura’? Per la considerazione e la stima altrui?
- Perché?
Bisogna mettere dei perché forti nella propria vita, per camminare con gioia, con fede, con slancio interiore. E questo non vale solo per i monaci. Sempre nella vita, sempre, sei chiamato all’obbedienza. In quanto chiamati alla vita, suscitati da Dio alla vita – Suscipe me, Domine! – noi siamo dei chiamati all’obbedienza. Non si scappa da qui.
Qualunque sia il tuo stato di vita, la tua professione, qualsiasi siano le tue scelte, tu sei chiamato all’obbedienza. Paradossalmente, persino se non scegli niente – e quanto, sempre più oggi, si fa fatica a scegliere sul serio, a decidersi per! – tu sei chiamato ad obbedire, in quanto vivente, e in quanto cristiano.
Chiediti sempre, allora:
- Perché?
- Per CHI?
Come sempre, anche in questo quinto capitolo san Benedetto ha il dono della chiarezza: l’obbedienza è “non avere assolutamente nulla più caro di Cristo”.
Il ‘perché’ e ‘per Chi’ è il Signore Gesù: il Signore che entra, che visita, che abita la mia vita. Perché l’Obbediente è Lui, con la radicalità del suo sì, “…fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2, 8).
Guardando a Lui, tu diventi obbediente.
Avendo Lui davanti, questo cammino ti diventa chiaro, per fede.
L’impossibile diventa possibile, l’aspro persino allettante allo spirito, perché “l’indiscutibile primato dell’amore nella vita cristiana… ha acquistato un volto e un nome in Cristo Gesù ed è diventato Obbedienza” [2].
Il problema nostro, del nostro tempo – la debolezza del nostro tempo! – e purtroppo tocca anche la vita sacerdotale e consacrata, è che, nell’eccessiva considerazione di sé, si teme che, obbedendo, si perda qualcosa, ci si ‘smeni’, si tocchi qualcosa di ‘intoccabile’ di noi, e… addio!
Si considera l’obbedire non umiltà, ma umiliazione, mortificazione insopportabile. Questo a tutti i livelli, su tutti i fronti, nessun campo escluso, neppure i più sacri.
San Benedetto non ha paura, proprio in quanto manifesta una paternità buona, ad essere anche esigente, senza sconti. Così enuncia al capitolo 71 della Regola:
“L’obbedienza è un bene così grande che i fratelli devono sentire il bisogno non solo di offrirla all’abate, ma anche di scambiarsela tra di loro, convinti che unicamente per questa via dell’obbedienza andranno a Dio” (31, 1-2).
L’obbedienza, un bene. Un bisogno. Il bene che ci si scambia. Senza nessuna logica di potere, senza più trattenere qualcosa di sé, o tenersi in mano. Per andare insieme a Dio, da cenobiti. Cedute tutte le rivendicazioni ed i diritti personali, ci si offre e scambia questo ‘bene’, dell’obbedienza, per cercare insieme Dio. Nel concreto del cenobio. Vale per i monaci, ma anche per gli Oblati.
Partecipando alla vita del monastero cui sentite una profonda appartenenza, come figli e figlie di san Benedetto nel mondo, voi siete chiamati a crescere con noi in questo ‘bene’: scambiandovelo, nel dono reciproco di voi stessi in Cristo, accompagnandovi a vicenda nel cammino di fede e di santità, di preghiera e di condivisione. Questo ‘bene’ dell’obbedienza diventa chiaro alla luce della fede: dove tutti e tutto sono importanti, perché tutto mi porta al Signore.
Notiamo che san Benedetto chiarisce: “appena un superiore ordina loro qualcosa…”.
Un superiore! Uno qualsiasi… I miei fratelli, le mie sorelle in oblazione, il mio prossimo, i miei vicini, tutti… Senza più e meno, senza convenienze umane.
Come posso arrivare a pensare così, di obbedire davvero, di obbedire a tutti?!
È questione di cuore, del nostro cuore, delle nostre disposizioni interiori, più che della persona che mi sta davanti. Non mi fermo qui, vado a Dio.
Questione di fede, sempre. Santa Faustina Kowalska lo attesta:
“Comprendo, Gesù, lo spirito dell’obbedienza ed in che cosa consiste. Esso non riguarda solo l’esecuzione esteriore, ma interessa anche la mente, la volontà ed il giudizio. Dando ascolto ai superiori, obbediamo a Dio. Poco importa se sia un angelo od un uomo a comandarti in nome di Dio: io debbo essere sempre obbediente” [3].
Sentiamo ancora le considerazioni ispirate del Marmion, a riguardo:
“È carattere cospicuo dell’ascesi benedettina il non richiedere una lotta continua e minuta contro i difetti presi ad uno ad uno; né grandi macerazioni corporali, o mortificazioni rigorose e continue per farci santi; il B. Padre è anzi moderato e discreto su questo punto: ‘Nihil asperum, nihil grave’; e san Gregorio osserva che la Regola è ammirabilmente discreta; ma il santo Legislatore tende a spogliare l’uomo di tutto ciò che si oppone alla grazia e all’azione divina; e ciò non consente mezzi termini; vuole anzi il distacco completo, totale con la povertà e l’umiltà, che si traduce nell’obbedienza perfetta […] L’obbedienza perfetta è per il monaco il mezzo più riconosciuto per purificarsi nell’intimo di sé; e se egli obbedisce perfettamente, nello spirito richiesto dalla Regola, presto si libererà completamente da tutti gli impacci che lo trattengono, mentre crescerà e si fortificherà nella virtù, rendendosi sempre più agile all’azione dello Spirito Santo. Non è questo lo scopo per cui siamo entrati in monastero?” [4].
L’obbedienza è via di santità, e via di libertà, di profonda libertà. Per questo si è felici in monastero. Una volta, tanto tempo fa, lo citiamo spesso, un santo direttore spirituale chiese ad una giovane: “Vuoi andare in monastero?”. E la giovane: “Sì, ma cosa si fa in monastero?”. Il padre: “Si obbedisce!”. Allora, la ragazza rispose subito: “oh, per così poco, vado subito…”.
Oggi ci vorrebbero sessioni pluriannuali di esercizi spirituali vocazionali, corsi, incontri, colloqui, ecc… e forse poi… ma, però, chissà!
Allora, non era così. “Appena udito, subito mi obbedivano”. Bella anche la risposta del padre: “Si obbedisce!”. Punto. Senza tanto stare lì a pensarci. Si obbedisce. E ci si fa santi. E si diventa liberi. Che esame di coscienza abbiamo tutti da fare su questo episodio vero di vita santa e nostrana dell’inizio del secolo scorso!
L’obbedienza è libertà. Questo il benedettino lo crede, deve crederlo.
Senza l’obbedienza non c’è grazia, fuori dall’obbedienza non c’è virtù, e si sta male, come fuori di casa, lontano dal posto giusto…
Obbedienti con Cristo e dietro il Cristo, ci assicura il nostro santo padre Benedetto, non solo si va, si cammina bene, ma, addirittura, si corre, si vola, e il cuore si dilata. Provare per credere.
Ma qual obbedienza per l’oblato/a?
Siamo ancora qui.
Obbedienza al Signore, obbedienza alla Chiesa, obbedienza dentro la mia Comunità, la mia famiglia, il mio lavoro, i miei fratelli e sorelle di oblazione, i miei vicini: quante relazioni sane e belle sono chiamata, con il mio amore fedele, a rispettare, a valorizzare, a fare crescere!
Obbedienza ‘alla vita buona del Vangelo’ lì dove sono, dov’è il mio posto nella società. Con la mia testimonianza cristiana, alimentata dal legame vitale con la Comunità monastica, che mi offre spunti ed indicazioni per crescere nella mano di Dio, che mi ossigena e mi da’ forza…
Obbedienza come cuore aperto, disposto a conversione, a evitare il male e a fare il bene, ad amare sempre, a perdonare per primo… Tenendo conto dell’insegnamento della Chiesa, dei suggerimenti santi che, nello Spirito, mi raggiungono ogni giorno attraverso persone ed eventi..
Obbedienza come fiducia nell’Altro, Dio, e negli altri: il contrario dell’auto-referenzialità, del pensare di bastare a sé, di farcela da soli, di crescere da soli, senza referenti, senza interlocutori in Cristo…
Tutto questo è il bel campo dell’obbedienza per un oblato/a o un amico/a del monastero.
Bonum oboedientiae: l’obbedienza è il bene che non mi lascia fermo, sempre uguale, incapace di progressi, di salutari ‘salti di qualità’.
La via dell’obbedienza è chiara: la via ecclesiale, e in essa, la Parola, i Sacramenti, la dottrina, il Magistero… non posso dire: non so. Non sono solo. Bisogna solo che mi fidi, che abbia fede. E poi, se non sempre l’obbedienza è facile, è però conveniente, opportuna per la santità.
Come mi santifico, senza gli altri?
Se non ho Superiori, se non ho nessuno che mi aiuta e mi corregge, anche, come posso pensare di progredire?
Ci vuole umiltà, ci vuole fede. Ma il dono, nell’obbedienza, è appunto la libertà. L’andare dritti a Dio, guardare e vedere Lui, per questa via sicura.
Così un oblato/a, troverà, nella Comunità monastica di appartenenza, il ‘bonum oboedientiae’ per la sua vita, se ci crede, se si fida; se crede che di qui andrà a Dio, on quegli aiuti, mediazioni, indicazioni e sorelle, fratelli, ecc., che gli donano Dio.
Questione di fede, tesoro di libertà.
Per una vita sana, bella, santa.
Provare per credere!
Ma se credi, e sperimenti, e gusti Dio nell’obbedienza, trovi il tuo tesoro. E non tornerai più indietro!
Allora, preghiamo insieme, gli uni per gli altri, per scoprire nell’obbedienza il ‘tesoro benedettino’. Tesoro nella storia e per l’eternità.
Preghiamo che questo cammino ci illumini sui doni più grandi che san Benedetto non cessa di preparare per noi, per ciascuno di noi. In quel ‘santo viaggio’ che porta al cielo, e che fa già della terra il nostro cielo.
[1] Don Columba Marmion, Cristo Ideale del monaco, Badia di Praglia 1936, cap. Bonum oboedientiae, p. 297.
[2] Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 16-17.
[3] Santa Maria Faustina Kowalska, Diario, la misericordia divina nella mia anima, Libreria
[4] Don Columba Marmion, Cristo Ideale del monaco, cit., pp. 312-313.
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