(RB IV, 74)
Eccoci giunti all’ultimo degli “strumenti delle buone opere” del quarto capitolo della Regola. Siamo ormai al punto culmine del lavorìo costante dell’ascesi, della vita come conformazione graduale e sempre più incardinata in Cristo.
L’ultimo strumento del lungo elenco del quarto capitolo da’ a tutto questo lavoro mai finito, mai ultimato – bisogna sempre tenersi in esercizio, in allenamento costante! – una sorta di respiro, di orizzonte positivo e aperto, sempre dinamico.
È come un sigillo e una conferma di tutto ciò che è la Regola benedettina: lavoro continuo e paziente su di sé, nella mitezza interiore, davanti al Signore, nella fiducia piena in Lui, nella certezza del Suo amore e del Suo aiuto.
È come un marchio, un bell’imprimatur, quest’ultimo strumento delle buone opere. L’officina – coma la chiama san Benedetto – “l’officina in cui assiduamente compiremo tutto questo lavoro è l’ambito del monastero”. L’officina è la nostra vita, il nostro cuore. Lì bisogna agire sempre per il bene, senza arrendersi mai. Non si chiude mai l’officina! Non si va in ferie. Non si può mai dire: ho lavorato abbastanza, ora posso stare tranquillo. Posso anche dormire. Non si può mai allentare questo ritmo assiduo di lavoro interiore, per edificare dentro di noi, prima di tutto, il Regno di Dio che viene nel mondo.
E della misericordia di Dio mai disperare”. Un grande motto programmatico. Da scrivere, da tenere davanti ogni giorno, da inquadrare bene davanti a sé, per affrontare “con il piede giusto” ogni situazione, anche le più incresciose.
Si noti com’è bella la forza trainante di quell’: E all’inizio del programma. E della misericordia di Dio mai disperare. Cosa ci suggerisce questo E ?
E… : ce n’è ancora. Non finisce qui il lavoro. Ma, tra tutte le cose che puoi e devi fare, tra tutto ciò che conta, lascia aperta la speranza, sempre: E.
Non chiudere mai il cuore.
Non pensare mai che una partita è vinta. Di fronte alle cose storte, a un esperienza che suona fallimentare, a tante ferite… E! C’è sempre uno spazio aperto; la possibilità di ricominciare, di credere ancora e sempre, di voltare pagina, di riprendere con più slancio il cammino interrotto.
Questo E è il segno della speranza. Tutta la Regola benedettina apre alla speranza, nell’impegno continuo di vita. E questo è di grande aiuto. Il cristiano, l’oblato benedettino, non può e non deve mai essere un pessimista, uno che si arrende, che cede ai lamenti e mugugni dei più, lasciandosi trascinare dalle onde negative della storia, dalle nubi oscure che emergono dalla massa.
Anche nei tempi storici peggiori, anche nelle situazioni più oscure e persino deleterie, il cristiano vero – leggi: l’oblato - non “getta la spugna” e non pensa che tutto sia finito, che non ne valga la pena. È un lottatore, il cristiano vero. Sempre lotta per il bene, perché ci crede. Ci spera. Lo pre-vede e prepara con la vita, nella lotta quotidiana che attinge alla speranza, anche quando tutti attorno a lui vedono nero..
E: ricomincio!
E: credo che Dio mi porta, mi conduce, mi tiene nelle Sue mani. Non per niente, un altro bel strumento delle buone opere suggerisce: “Riporre in Dio tutta la propria speranza”.
E : c’è sempre spazio e tempo per il bene. Ci deve essere. Se si chiude una porta, un’altra, magari un portone, si apre davanti a me, perché Dio mi conduce.
San Benedetto questo ce lo ha insegnato con tutta la Sua vita. Per questo la Regola è un concentrato di speranza e di misericordia insieme. Notiamo: la speranza e la misericordia vanno insieme, sempre. E questo è bellissimo. La speranza da’ le ali, la misericordia riceve dalla speranza un orizzonte ampio, dilatato, e vi mette un amore più grande. L’amore non proprio, personale, che sarebbe pur sempre ristretto e interessato. L’amore di Dio! Grandissimo. Che non calcola.
E della misericordia di Dio: è la Sua misericordia la misura senza misura, amplissima, che ci viene data, elargita gratuitamente, se ci facciamo umili. Se lavoriamo da piccoli in questa ‘officina’ di santità che è il monastero. Dove impariamo a lasciarci riempire dal cuore di Dio, sgombrando il campo a tante nostre misure piccole, piccine, che tolgono respiro e slancio.
Qui potrebbe già partire una prima tappa di riflessione e verifica per gli oblati.
L’oblato, figlio grato di san Benedetto nel bel mezzo del mondo e della vita, è chiamato ad essere un piccolo ma luminoso segno di speranza e di misericordia per i fratelli.
Lasciando agire Dio, il suo amore, perché da solo, l’oblato non ce la fa. Una presenza luminosa di Lui, aperta a Lui.
Una piccola E nel mondo:
- Mi metto in gioco così?
- Sono disposto/a, anche quando tutti dicono e vedono il male, a purificare l’ambiente in cui vivo, lavoro, ecc., con la speranza e la misericordia, non mia, ma di Dio?
San Benedetto ti vuole così.
Egli è maestro di speranza e di misericordia.
Se passiamo in rassegna la sua vita, certi passaggi nodali e per questo scomodi dei suoi giorni, vediamo quanta speranza e quanta misericordia vi sono iscritte.
Il santo, l’uomo di Dio, viene insidiato proprio per la sua ricerca e adesione a Dio. Nella vita di Benedetto, come ci insegna san Gregorio Magno, c’è un personaggio oscuro e meschino, Fiorenzo, che lo insidia non poco. Si tratta di un prete dei dintorni di Subiaco, che “istigato dallo spirito maligno, cominciò a bruciare d’invidia per i progressi virtuosi dell’uomo di Dio…” (Dialoghi, II, 8). La santità non lascia gli altri indifferenti, mai: o suscita il bene e l’ammirazione, o l’avversione. L’invidia che ‘brucia’, dice san Gregorio. E san Benedetto diventa il bersaglio innocente del male. Che ne abbia fatto esperienza lo si capisce bene anche leggendo la sua Regola: si veda ad esempio il capitolo 65, Il priore del monastero: “Accade spesso che l’elezione del priore sia causa di gravi scandali in monastero. Vi è infatti chi, gonfio dello spirito maligno di superbia, quasi considerandosi un secondo abate ed esercitando una vera e propria tirannide, fomenta scandali e provoca divisioni in seno alla comunità” (1-2).
I monaci, i cercatori di Dio, non sono esenti dall’insidia del maligno; anzi, se ne devono guardare più che mai, proprio perché cercano Dio. L’avversario attacca. San Benedetto questo lo sa bene, e l’ha imparato a sue spese. Per questo mette in guardia con realismo i suoi figli. Gregorio Magno nel passo citato ci presenta un Benedetto bersagliato da Fiorenzo, povero strumento del male, sotto tutti i piani: attaccato nel corpo e nell’anima… Ma quel che ci fa bene, e in un certo senso ci sconvolge un po’, e il modo in cui Benedetto reagisce e “risolve il problema”:
“…temette seriamente che i discepoli, ancora teneri nello spirito, avessero a cadere. Capì benissimo che tutto questo era diretto a perseguitare lui solo. E allora credette più opportuno cedere alla gelosia altrui: sistemò ben bene l’ordinamento dei monasteri che aveva costruito, costituendo i superiori e aggiungendo altri fratelli; poi, portando con sé solo alcuni monaci, partì, per andare ad abitare altrove”.
Diciamocelo apertamente. Questo tipo di risoluzione ci è faticoso. Facciamo fatica qui a seguire Benedetto. Il fatto che non reagisca frontalmente al male, non affronti il nemico direttamente, ma ritiene più opportuno cedere alla gelosia altrui, ci fa fare un salto faticoso alla natura; ci risulta un po’ paradossale. E il bello è che il santo, l’uomo di Dio, non pensa a sé, al male che viene contro di lui, ma pensa ai suoi figli, ancora “teneri nello spirito”, inesperti nella sequela. E, per loro, “cede alla gelosia altrui”. Paga, muore lui. Sempre per amore.
Ma è qui che la misericordia di Dio si apre alla speranza, alla novità della vita, sempre pronta a ripartire, proprio quando tutto sembra a noi contrario. Ci aiuta, a comprendere meglio questo svincolo del bene dal male, il bel commento di fratel MichaelDavide in “Liberi di amare”:
“…davanti al prete Fiorenzo e alle sue macchinazioni, Benedetto capisce che le cose stanno mettendosi proprio male: l’invidia rischia di fare il suo percorso verso l’assoluta distruzione. Prende quindi la decisione di lasciare il campo […] Davanti alla disperazione di Fiorenzo, ancora una volta, Benedetto comprende che c’è un appello non a cercare di porre rimedio alla situazione con qualche rattoppo, ma che si necessita un ulteriore passo, un nuovo cammino. Noi ci aspetteremmo una predica a Fiorenzo o il ricorso a qualche autorità…Niente di tutto ciò! Benedetto intuisce che c’è qualcosa di più grande e di più grave e segue questa sua intuizione: Fiorenzo gli sta creando dei grossi problemi ma, proprio in questo frangente, si rende conto che gli si stanno aprendo delle opportunità che lui non aveva ancora visto. Così il nemico si trasforma – suo malgrado – in pedagogo non a motivo dei suoi meriti ma per l’eccellenza del discepolo… Benedetto sente che qualcosa di nuovo deve nascere; e naturalmente a noi piace molto l’idea che qualcosa di nuovo debba nascere; ciò che non ci piace è che se qualcosa di nuovo deve nascere, qualcosa deve morire” [1].
In un frangente di vita così ostile, Benedetto non ha “disperato della misericordia di Dio”; al contrario, si è abbandonato totalmente alla speranza del Suo amore. Si è lasciato andare, ha saputo ‘morire’, per ricevere dall’amore sempre nuovo di Dio nuove possibilità ed opportunità di vita.
Certo, in una situazione come questa, di palese ingiustizia, avversione e prevaricazione, è difficile lasciare il campo libero. È duro, tanto duro. Ma il problema è uno solo: mi fido totalmente e assolutamente di Dio? Perché se mi fido, cedo. Lascio ogni arma. Capisco che non vale la pena di fronteggiare il male con il male. Vince chi perde, perché sceglie l’amore di Dio.
Qui parte per noi una seconda tappa di verifica.
Lasciamoci accompagnare ancora un poco dal commento di fr. MichaelDavide, per aprirci ulteriormente l’orizzonte:
“Benedetto ha imparato la lezione del deserto fino in fondo: non c’è niente di male fuori di me che mi possa danneggiare, nulla! Quando nella solitudine si capisce che il male che ci può realmente affliggere è solo quello che portiamo già dentro o facciamo penetrare nella nostra interiorità – ecco perché bisogna saper digiunare dal male – allora si impara che l’unico nemico da temere come nemico siamo noi stessi […] Benedetto non si contamina con il male, il male non entra nel circolo del suo cuore, e quindi cede il campo. Va via, sicuro di che cosa? Che il Signore è con lui” [2].
Il Signore è con lui! “E della misericordia di Dio mai disperare”.
Posso vivere così, se ho fatto e faccio ogni giorno esperienza del Suo amore. Se mi sento amato. Allora non dispero mai. Silvano del monte Athos ardisce un’espressione paradossale: “Rimani agli inferi, e non disperare”. Se mi sento amato/a, tutto cambia. La misericordia di Dio abita davvero il mio cuore, e anche la vita, le relazioni, le situazioni cambiano.
Afferma padre Rupnik:
“Si ha spesso paura di sottolineare troppo la bontà e la misericordia di Dio. Ci si affretta subito a richiamare la Sua giustizia, la Sua severità, come se avessimo paura che, se si metterà troppo l’accento sull’amore di Dio, l’uomo non sentirà la premura di una vita diversa, nuova, più retta, più decisamente morale. Il Vangelo insegna invece che l’uomo cambia la sua vita, la sua mentalità, si converte al bene non perché viene sgridato, rimproverato, punito, ma perché si scopre amato nonostante sia un peccatore. È un momento di intenso amore quando la persona vede ad un tratto tutto il suo peccato, percepisce se stesso come peccatore, ma all’interno dell’entusiasmante abbraccio di qualcuno che lo ama…” [3].
Certamente l’amore vero, l’amore che muore a sé, alla propria mentalità, per dare possibilità di vita all’altro, è sempre il più grande rischio. La misericordia è rischio. Ma è spazio aperto alla speranza, e quindi alla libertà. Noi siamo il rischio di Dio, perché figli del Suo amore, della Sua misericordia. O entriamo nella logica di Dio, che è sempre logica dell’amore che da’ la vita, e quindi perde se stesso, o moriamo davvero, nel senso che chiudiamo gli orizzonti, le possibilità di vita, di speranza vera. Sta a noi scegliere.
Certo che, come oblati, questo ‘rischio’ dell’amore non può non chiamarci in causa. Non si può restare indifferenti.
Infine, vogliamo lasciare la parola a un santo, purissimo cantore della misericordia di Dio, Isacco di Ninive [4]. Ascoltiamolo, e poi verifichiamoci su quanto ha da dirci…
“Il giorno in cui tu soffri per un uomo, che egli faccia parte dei buoni o degli empi, e lo sia nel corpo o nell’intelligenza, in quel giorno ritieni che la tua anima è martire e, a motivo della sofferenza, simile a chi è confessore per Cristo. Ricorda che Cristo è morto per gli empi, secondo la parola della Scrittura, non per i buoni. Guarda come è grande questo: soffrire per i malvagi e far del bene ai peccatori è addirittura più grande del farlo ai giusti.
Copri il peccatore senza arrecargli danno, ma piuttosto incoraggiandolo a vivere; e le misericordie della Maestà porteranno te.
Per mezzo della parola, rendi saldi i deboli e coloro che sono afflitti nello spirito, fin dove puoi arrivare con le tue mani; affinché la Destra che porta tutte le cose ti renda saldo.
Con coloro che patiscono nel cuore entra in comunione tramite la passione della preghiera e la sofferenza del cuore; così davanti alla tua preghiera si aprirà la sorgente della misericordia.
Ama i peccatori e rigetta le loro opere. Non disprezzarli per le loro inclinazioni, per non essere tentato anche tu quando ti trovi in tale situazione… A colui che ha bisogno di una preghiera affettuosa e di parole dolci, tu non porgere invece un’ammonizione, per non causare la sua perdita; perché della sua anima sarebbe chiesto conto alle tue mani. Imita i medici che contro le febbri fanno uso di cose rinfrescanti.
Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone. Attraverso ciò l’immagine del Padre che è nei cieli si rivelerà in te continuamente.
Vuoi avere comunione con Dio nella tua mente, facendo così esperienza di quella dolcezza che non è schiava dei sensi? Persegui la misericordia! Infatti, quando sono in te tutti gli atti di misericordia, grazie ad essi è dipinta, in tutti i suoi tratti, quella santa bellezza della comunione con Dio.
Questo ti raccomando, fratello mio, che nell’intera tua condotta abbia il sopravvento il peso della misericordia, perché in essa tu sperimenti la misericordia che Dio prova per i mondi. Questa nostra situazione sarà per noi lo specchio attraverso il quale vediamo il vero Prototipo… Un cuore impietoso non sarà mai puro. L’uomo misericordioso è medico della propria anima, e come in un vento impetuoso scaccia da dentro di sé la nebbia della tenebra. Questa è la buona ricompensa di Dio, secondo la parola dell’evangelo della vita: “Beati i misericordiosi, perché su di loro sarà la misericordia”. Quale misericordia infatti è più grande di questa, che quando un uomo è mosso dalla misericordia verso un suo fratello e diventa compagno della sua sofferenza, nostro Signore preserva la sua anima dall’oscurità della tenebra, e lo avvicina alla luce della vita, perché se ne delizi?
Cos’è la purezza? È un cuore misericordioso per ogni natura creata.
E che cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo e alla loro vista gli occhi di un tale individuo versano lacrime, per la violenza della misericordia che stringe il suo cuore a motivo della grande compassione. Il cuore si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E per questo egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri che non sono datati di ragione, e per i nemici della verità e per coloro che la avversano, perché siano custoditi e rinsaldati: e persino per i rettili, a motivo della sua grande misericordia, che nel suo cuore sgorga senza misura, a immagine di Dio [5].
Isacco individua anche la causa, la radice del cuore non misericordioso:
L’assenza di misericordia e la brutalità vengono dalla grande abbondanza di passioni. Infatti il cuore è indurito nelle passioni, e queste non lasciano che si muova a compassione, ed esso non sa avere pietà per nessuno, né dolersi per l’afflizione, né soffrire,pur vedendola, per la rovina del prossimo, né rattristarsi per coloro che cadono nei peccati…
Se desideri acquisire la misericordia, esercita la tua anima nell’acquisire il distacco dalle cose, perché il loro valore non trascini il pensiero ad allontanarsi dal proposito della meta…La limpidezza della misericordia si riconosce dalla capacità di sopportare l’ingiustizia.. Se sei davvero misericordioso, quando ingiustamente sei privato di ciò che è tuo, non adirarti né dentro né fuori di te. Non mostrare ad altri ciò che stai sopportando, ma fa’ che le ingiurie dell’ingiustizia siano divorate dalla misericordia, come la durezza del vino è stemperata con molta acqua. Sii un perseguitato e non uno che perseguita. Sii un crocifisso e non uno che crocifigge. Sii pacifico. Persegui il bene […] Stendi il tuo mantello su colui che cade e coprilo.
Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui.
Quando fai il bene, non darti pensiero dello scopo della ricompensa immediata e sarai ricompensato doppiamente da Dio. E se è possibile, non agire neppure per la ricompensa futura. Ma sii virtuoso al di sopra di tutto, per amore di Dio…
Alla scuola di questo umile padre monastico, non si finirebbe più di attingere!
Concludendo: dove porta la misericordia?
Alla libertà del cuore. Alla pace interiore. Ai beni più grandi, che niente e nessuno ti può togliere. Per questo entriamo, a questo livello, nella ‘terra santa’ della speranza.
Il santo padre Benedetto, e con lui tutta la grande schiera di monaci che ci segnano il passo, ci lanciano la più grande sfida della vita:
“E della misericordia di Dio mai disperare” vuol dire, concretamente, fare di Dio il tutto, l’Assoluto della mi avita, comunque vadano le cose… e, in Lui, cantare sempre l’Alleluja!
Sia così, poco alla volta, per ogni fratello e sorella oblata. Per ciascuno dei figli di san Benedetto!
U.I.O.G.D.
[1] MichaelDavide Semeraro, Liberi di amare. Le implicazioni mistiche dell’obbedienza nella vita e nella regola di Benedetto. Federazione Italiana dei Monasteri delle Monache Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento, 2007, pp. 74-75.
[2] Ibidem, pp. 75-76. 77.
[3] M. I. Rupnik, “Gli si gettò al collo”. Lectio divina sulla parabola del padre misericordioso. Lipa, Roma 2005, pp. 51-52.
[4] Isacco di Ninive (sec. VII), chiamato anche Isacco il Siro, nato sulle rive del Golfo Persico (attuale Qatar), viene ordinato vescovo di Ninive probabilmente tra il 661 e il 681; dopo soltanto cinque mesi di episcopato si ritira a vita anacoretica a Beit Huzaye, per poi dimorare nel monastero di Rabban Shabur, dove, consumando la vista nella lettura delle Sacre Scritture, pare sia morto in età avanzata. E’ stato un apprezzato padre spirituale sia in Oriente che in Occidente, anche se qualche suo scritto è stato considerato non pienamente ortodosso. Cfr R. LAVENANT, Isacco di Ninive, in DPAC, pp. 1829 – 1830. S. CHIALÀ riporta le espressioni di stima che Giuseppe l’Esicasta (1895 – 1959), uno degli iniziatori della rinascita del monachesimo sul monte Athos, ebbe riguardo a Isacco: “Se tutti gli scritti dei padri del deserto che ci istruiscono circa la vita monastica e la preghiera andassero perduti, e fossero conservati solo gli scritti di abba Isacco il Siro, essi basterebbero a insegnare, dall’inizio alla fine, la via dell’esichia e la preghiera. Essi sono l’alfa e l’omega della vita monastica e della preghiera interiore”.Cfr S. CHIALÀ, Introduzione a ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza, Antologia scelta e traduzione dal siriaco di S. Chialà, monaco di Bose, Padri della Chiesa: voci e volti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 1999, p. 7.
[5] S. CHIALÀ, Introduzione a ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 1999, pp. 200-205. 194-195.
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