Continuiamo il nostro percorso alla scoperta del quarto capitolo della Regula Benedicti, che ci aiuta ad accogliere il dono di Dio con gli strumenti delle buone opere.
Accogliere il dono di Dio: è questo il fine della vita cristiana. Accogliere la Vita di Dio, che già riceviamo e ci si comunica pienamente nel Battesimo, immersi nella morte e vita nuova di Gesù Cristo; e che poi, lungo tutto il corso della nostra vita, siamo chiamati a riaccogliere ogni giorno, approfondendo e valorizzando sempre più il dono di questa vita nuova, vita redenta, così gratuitamente ricevuto.
Allora, la strada da percorrere è questa:
1. Occorre prima di tutto riconoscere il dono di Dio, per accoglierlo con apertura di cuore e gratitudine.
Riconoscere che non c’è niente di più bello che essere di Cristo – nulla anteporre all’amore di Cristo (RB 4, 21) – e desiderare sempre più questo dono. Sentire la gioia di essere cristiani, di approfondire il tesoro della fede con tutte le possibilità che ci sono date, in un cammino pienamente inserito nel grembo fecondo della Madre Chiesa, con la partecipazione alla vita sacramentale, comunitaria, ecc.
Per gli Oblati, il cammino con la comunità monastica è chiamato a nutrire e a corroborare il vissuto personale, familiare, parrocchiale, e non a sostituirsi ad esso. È importante questa certezza.
Il vostro essere qui, profondamente legati e inseriti nella storia antica e sempre nuova, in movimento, di questa comunità monastica - benedettina ed eucaristica - non significa fare un percorso alternativo, intraprendere una strada parallela rispetto alla vostra vita ecclesiale. Non si tratta, nell’oblazione, di imboccare una corsia d’emergenza, quasi fosse una strada preferenziale che si contrappone al quotidiano ecclesiale. Si tratta di vivere interiormente ed esteriormente, con la coerenza di una testimonianza evangelica, un’appartenenza al Signore, secondo uno stile inconfondibile, che è quello benedettino. Ma che mi pone nella Chiesa e per la Chiesa. Benedetto è cenobita! Allora, la mia oblazione diventa segno ed aiuto, lì dove vivo, lì dove tesso ogni giorno le relazioni vitali: diventa testimonianza, senza che lo voglia o lo pretenda. Anche quando è difficile e può far un po’ soffrire.
Il primo passo è avere sete di Dio, volersi nutrire ogni giorno della Sua Parola, partecipare della Sua Vita Eucaristica, restare alla Sua scuola, e sentirne tutta l’urgenza per la nostra vita.
Desiderare un rapporto sempre più personale ed intimo con Lui, perché è questa e solo questa la vera assicurazione, la ‘polizza’ infallibile della vita!
Sentirci come la Samaritana al pozzo… desiderosi di attingere dal Cuore di Cristo l’Acqua Viva, perché solo in Lui siamo vivi.
Una volta che abbiamo in noi questa chiara certezza del primato di Dio nella Chiesa – prima di tutto, amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze (RB 4,1) – allora, camminiamo. Il camminare, il non rimanere fermi e inerti nella vita spirituale viene di per sé, ed è tutto il nostro desiderio, se abbiamo chiara la meta: il dono di Dio, il Volto di Dio, la Sua vita.
Allora capiamo che la nostra vita cristiana non può essere un quieto vivere, un tran-tran che stancamente si trascina, e non sa quel che vuole. Più ci uniamo al Signore, più diventiamo consapevoli che la nostra sequela comporta una lotta continua, perché la vera pace non è mai a buon mercato. Ma questo non ci deve spaventare. Anzi. Basta leggere e meditare un po’ il Prologo della Santa Regola per accorgerci che il monaco benedettino – e quindi l’oblato/ l’oblata – è una creatura gioiosamente impegnata nel mettere in pratica il Vangelo. San Benedetto parla di “fatica laboriosa dell’obbedienza” (RB Prol., 2). Ma la fatica non spaventa! Perché? Perché attraverso la fatica laboriosa dell’obbedienza “si procede nelle Sue vie, sotto la guida del Vangelo, per meritare di vedere Colui che ci ha chiamati al Suo Regno” (Prol. 13).
Usare bene “gli strumenti delle buone opere”, come mezzi, senza mai confonderli con il fine. Le buone opere, le opere ascetiche – preghiera, veglie, digiuno, elemosina, ecc. – sono mezzi per raggiungere il Cristo, e far nascere in noi l’umanità nuova, quella pasquale. Il fine è sempre e solo la carità di Cristo. Per cui, userò delle buone opere, strumenti del bene, ma non mi attaccherò ad esse. Un po’ come quando si scala una montagna… Gli strumenti sono i chiodi, le corde, i ramponi… Mezzi, strumenti, e non il fine. Servono, mi fanno salire, ascendere, ma non sono ancora il tutto. È importante questo. Il cristiano, il discepolo, vive nella fatica laboriosa dell’obbedienza, e dunque nell’ascesi, la libertà della sequela, così come il Signore gliela dona momento per momento, e non come lui a tutti i costi ha programmato e si è prefisso. Con una bella elasticità del cuore e dello spirito.
È interessante leggere, nella vita del grande abate dom Colomba Marmion, come egli fosse contento, durante il lungo e intenso cammino di quaresima, di poter vivere pienamente tutte le occasioni di rinuncia e di penitenza che si era austeramente prefissato. Senonché, gli capita di prendere una potente influenza proprio durante la Settimana Santa, e così il venerdì santo… eccogli somministrata un’abbondante bistecca!
Viene l’ora, e non tarda mai, un cui il Signore ti fa comprendere che tutto è strumentale in rapporto alla Sua volontà, e che solo l’aderirvi con amore, così come Lui dispone le cose momento per momento, e non come vorremmo noi, è fedeltà e libertà insieme. Mai attaccarsi neanche ai più bei programmi spirituali. Nella Tua volontà, Signore, è la mia gioia!
Così, gli strumenti più strettamente ‘ascetici’ che san Benedetto elenca in questo quarto capitolo:
- Tenere sotto disciplina il proprio corpo (4, 11)
- Non cercare con avidità i piaceri (12)
- Amare il digiuno (13)
sono e restano mezzi: per la sobrietà, la vigilanza, il dominio di sé, il distacco dalla mondanità… Ma non dimentichiamo mai che sono mezzi, e non il fine. Sono percorsi auspicati e possibili, ma non ancora la meta: portano, se offerti con amore, alla meta: l’amore di Cristo. Così gli strumenti che in questo quarto capitolo san Benedetto cita subito dopo, che sono poi le cosiddette opere di misericordia corporale e spirituale:
- Ristorare i poveri (14);
- Vestire chi è nudo (15);
- Visitare chi è malato (16);
- Seppellire i morti (17);
- Soccorrere chi è nella prova (18);
- Consolare chi soffre (19)
sono vie preferenziali di carità cristiana, dunque di santità, ma sono comunque vie, mezzi, strumenti delle buone opere. Non sono il fine. Il fine è sempre e solo l’uomo nuovo, la donna nuova, pienamente riuscito – anche come uomo e come donna! – in Cristo, trasfigurato in Lui.
Questa consapevolezza è molto importante, per non prendere la vita cristiana come una corsa o una scalata fine a se stessa, che farisaicamente assolutizza i mezzi, prendendoli di petto come degli assoluti, un po’ da fondamentalisti.
Ricordiamo che il benedettino attinge sempre al Cuore di Cristo come ineffabile fonte di equilibrio. L’equilibrio, nella totalità dell’offerta, ci deve connotare sia dentro che fuori. Un’ ascesi senza equilibrio – magari dura, aspra, che mi rende intrattabile, difficile, pronto sempre a giudicare, a polemizzare, e quindi che mi restringe, anziché dilatare il cuore, non serve.
Un’ascesi senza dolcezza e carità fa male a me e agli altri. Non edifica, non diffonde il bene. Bisogna allora, nel cammino spirituale, avere molto chiari mezzi e meta. Se un mezzo non tiene, ne abbraccerò un altro, sempre puntando al fine, e mai fermandomi al mezzo. “Se non ho la carità…”.
Lo dice bene anche il Catechismo della Chiesa Cattolica:
“La Legge nuova è chiamata una legge d’amore, perché fa agire in virtù dell’amore che lo Spirito Santo infonde, più che sotto la spinta del timore; una legge di grazia, perché, per mezzo della fede e dei sacramenti, conferisce la forza della grazia per agire; una legge di libertà, perché ci libera dalle osservanze rituali e giuridiche della Legge antica, e ci porta ad agire spontaneamente sotto l’impulso della carità…” (n. 1972)
dove l’impulso della carità non è sregolato, ma regolato, equilibrato, appunto, dalla grazia divina che ci conduce.
E qui, chiariti questi tre punti fondamentali – 1. Riconoscere il dono di Dio; 2. desiderare di camminare; 3. avere ben chiari i mezzi e i fini del cammino nello spirito – entriamo nel vivo del tema della lotta spirituale..
La lotta spirituale: opera della grazia, per la gioia del cuore
Abbiamo parlato di mezzi ascetici – gli strumenti delle buone opere – e del fine, la vita stessa del Cristo, in cui siamo chiamati a rimanere e dimorare. Dice san Benedetto:
“A quella dimora giungeranno coloro che, pervasi dal timore di Dio, non si inorgogliscono per la loro perfetta osservanza, ma, consapevoli che quanto c’è in loro di buono è unicamente frutto della grazia divina, magnificano il Signore che opera in loro, e dicono con il profeta: Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo nome da’ gloria…” (RB Prol., 29-31).
Questo splendido passo del Prologo ci rende edotti di due cose:
Il monaco/l’oblato benedettino è chiamato nella sua vita, nel suo discepolato, a vedere la grazia di Dio all’opera, e a lasciarla agire; a non porvi ostacolo. La santità è questo: non resistere alla grazia, ai suggerimenti interiori dello Spirito, e lasciare agire Lui, assecondando la Sua mano (vd. l’adorare e aderire sempre di madre Mectilde);
2. Magnificare il Signore: il benedettino magnifica il Signore, come Maria. Nell’umiltà delle cose di ogni giorno, di quel che capita di sorprendente, nelle persone e nelle situazioni vede Dio e Gli rende grazie. Vede la Sua mano. Vede la Sua regia nella storia!
Ecco allora a cosa ci porta l’ascesi, la lotta spirituale. A magnificare il Signore. Non si tratta di una lotta fine a se stessa, di uno sforzo esasperato che ci disumanizza, ma di un orientamento costante verso Dio, che ci armonizza, in tutte le nostre facoltà: spirito, anima, corpo…
Nella vera lotta spirituale, portata avanti ogni giorno con fede nell’amore e con la forza di Dio, tutto in noi viene potenziato e valorizzato.
Lo dice bene san Benedetto al cap. 1 della Regola, quando tratta degli eremiti. Dice che costoro, “ben esercitati dalla vita comune con i fratelli… sono ormai forti e pronti a combattere unicamente con l’aiuto di Dio…”.
La lotta c’è, ma con Dio. In Lui. E questo è fonte di pace, anche nella sofferenza.
Allora, il volto vero del discepolo di Cristo, non è un volto privo di pace, ma, al contrario, proprio dalla prova estrae la grazia che gli viene dall’alto, e quindi finisce per comunicare bontà, o addirittura – pensiamo ai santi, ai martiri – la gioia, persino nelle situazioni paradossali.
Il frutto di una lotta spirituale riuscita è la speranza, anche tra le difficoltà e le prove; è chiarissimo san Benedetto al termine del lungo elenco degli strumenti delle buone opere: “E della misericordia di Dio mai disperare” (RB 4, 74).
Certo che quando lottiamo, fatichiamo. Ma se il nostro cuore rimane in Dio, se chiediamo a Lui la forza anche solo di resistere, l’aiuto non ci mancherà. E i risultati finiscono per vedersi.
Si dice che “un santo triste è un triste santo”. Basterebbe anche solo il proverbio: “cuor contento, il Ciel l’aiuta!”. Ed è così. Come anche Nietzsche, non senza torto diceva che avrebbe creduto di più in Cristo, solo che avesse visto di più la gioia splendere sul volto dei cristiani.
Viviamo in una società carica di negatività, di aggressività, che si camuffa di gioia esteriore, che si stordisce di evasioni effimere, ma in fondo vive tante, profonde, alienanti tristezze. Se siamo cristiani, non possiamo vivere così. Nel profondo, noi sappiamo di essere amati e salvati. Sappiamo di Chi siamo. Allora occorre, con amore, andare bene – con amore, con dolcezza! - controcorrente.
Benedetto dice: “…nella casa di Dio nessuno si turbi o si rattristi” (RB 31, 19).
Questa gioia è frutto di un amore grande, che dilata il cuore.
Se dovessimo passare in rassegna il profilo di tanti santi e sante monaci e monache – per restare solo in campo monastico – per vedere come in loro l’ascesi ha liberato la gioia profonda di vivere e donare la vita, non ci fermeremmo più. Sarebbe bello scoprire anche solo la vita semplice e luminosa di tante nostre sante madri e sorelle, che nel nascondimento hanno vissuto questa gioia nella lotta quotidiana, con un grande anelito missionario.
Non illudiamoci: se non c’è la gioia, se non emerge una vita contenta, se non traspare anche all’esterno una letizia che si irradia nelle situazioni e sui fratelli, che sa pazientare e abbandonarsi, come segno di un cristiano non preoccupato di sé, la lotta spirituale non funziona… C’è qualcosa che non va, che non gira bene…
I santi padri del monachesimo ce lo dimostrano. Pensiamo alla vita trasfigurata, irradiante profonda pace, di sant’Antonio il grande, o di san Serafino di Sarov. Non si tratta di modelli impossibili!
Fermiamoci sull’insegnamento, semplice ed eloquente, di san Serafino. Conferma quanto siamo venuti dicendo.
“La preghiera, il digiuno, le veglie e le altre pratiche cristiane, per quanto buone possano sembrare di per se stesse, non costituiscono il fine della vita cristiana, anche se aiutano a pervenirvi. Il vero fine della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta in nome di Cristo, sono solo mezzi per acquistare lo Spirito Santo.
Tieni presente che unicamente una buona azione fatta in nome di Cristo ci procura i frutti dello Spirito Santo.
Lo Spirito Santo ci fa ricordare le parole di Cristo e lavora in accordo con Lui, guidando i nostri passi con solennità e gioia sulla strada della pace. Invece le trame dello spirito diabolico opposto al Cristo ci invitano alla rivolta e ci rendono schiavi della lussuria, della vanità e dell’orgoglio…
Come faccio allora a riconoscere in me la presenza della grazia dello Spirito Santo? È molto semplice. “Tutto è semplice per colui che ottiene la sapienza (PR 14, 6). La nostra sventura è che non cerchiamo questa sapienza divina, la quale, non essendo di questo mondo, non è presuntuosa. Ricolma di amore per Dio e per il prossimo, essa modella l’uomo per la sua salvezza” [1].
Il frutto più bello e sicuro della lotta spirituale è la presenza dello Spirito in noi, la pace della sua presenza in noi, la gioia della sua azione attraverso di noi. Lo Spirito riempie di dolcezza il cuore, anche nelle avversità; e questa grazia non resta chiusa nel cuore, si comunica. Se ci sono questi effetti di pace, di bontà, di benedizione, significa che la lotta spirituale si compie come Dio vuole, e porta i suoi frutti.
San Benedetto va d’accordissimo con san Serafino.
Guardiamo alla parte finale della “lista” degli strumenti delle buone opere:
- Non odiare nessuno (65);
- Non tenere in cuore sentimenti di gelosia (66);
- Non agire per invidia (67);
- Non avere spirito di contestazione (68);
- Fuggire la superbia (69);
- Venerare gli anziani (70);
- Amare i giovani (71);
- Nell’amore di Cristo pregare per i nemici (73).
Sono strumenti di carità, di bontà, di mansuetudine, di mitezza, di umiltà, di attenzione all’altro.
Chi te lo fa fare ? Gesù Cristo. Solo Lui è la forza in questa lotta. Solo Lui, alla fine, è il premio della purificazione del cuore, dei pensieri, delle intenzioni, degli atteggiamenti, dello stile di vita.
Cosa ne esce? Il cristiano. L’uomo/ la donna nuovo/a in Cristo. Con il cuore dilatato nello Spirito. E questa è la più grande ricchezza della vita.
Così, al capitolo 49 su L’osservanza della Quaresima, san Benedetto afferma che quel “qualcosa di più” che possiamo offrire, per purificarci, in questo santo tempo che ci porta alla Pasqua, va donato al Signore e ai fratelli “spontaneamente, nella gioia dello Spirito Santo” (v. 6); “nella gioia del più intenso desiderio spirituale” (v. 7).
Dilatato corde!
Il cuore dilatato è frutto della grazia del Signore che opera in noi anche tra le traversie della vita. È il segno del vero amore. Un oblato/a benedettino/a deve lottare così, vivere così. Così ci vuole san Benedetto. Altrimenti non vale!
Concludiamo con una riflessione di padre M. I. Rupnik:
“…qualsiasi cosa l’uomo faccia fuori dall’amore non giova a nulla, anzi, lo vanifica, lo disperde. Si possono fare anche sacrifici eroici, inauditi, avere fede tanto da trasportare le montagne, ma fuori dall’amore non servono a nulla. Ciò significa che la vocazione dell’uomo è proprio la vita nell’amore, in quell’amore in cui egli è stato creato e di cui è stato di nuovo reso capace con la redenzione. Perciò la vocazione è la piena realizzazione dell’uomo nell’amore, dunque all’interno del principio dialogico in cui è stato creato, con Dio primo interlocutore. […] La vocazione non è quindi un fatto automatico, ma un processo di maturazione delle relazioni, a partire da quella fondante con Dio. È pertanto un progressivo vedere se stessi e la storia con gli occhi di Dio, un vedere come Dio si realizza in me e negli altri e come io posso dispormi a quest’opera in maniera da diventare parte dell’umanità che Cristo assume, e attraverso la quale assume anche il creato, per consegnare tutto al Padre” [2].
Il cammino di conversione è un cammino di ritorno a Dio Padre, nel Cuore di Cristo, con la grazia dello Spirito. Nella misura in cui io, con la purificazione e la lotta spirituale, mi riavvicino a Dio, mi riavvicino anche ai fratelli… Trascino gli altri, la storia, ciò che vivo e mi sta attorno – persino il creato! – in questa via di ritorno a Casa.
Allora, affiniamo bene gli strumenti delle buone opere. Certi sempre che nessun atto d’amore andrà perduto. Certi di vincere solo e sempre nell’Amore!
PER LA VERIFICA
U.I.O.G.D.
[1] I. GORAINOFF, Serafino di Sarov, Vita, colloquio con Motovilov, scritti spirituali, Gribaudi, Torino 1995, pp. 176ss.
[2] M. I. Rupnik, Il discernimento. Prima parte: verso il gusto di Dio, Lipa 2000, p. 22.
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