Il cammino delle buone opere (RB IV)
In questo incontro ci soffermiamo su altri due strumenti delle buone opere indicati nel IV capitolo della Regola di san Benedetto:
- Non fare agli altri ciò che non si vuole venga fatto a sé.
- Rinunciare totalmente a se stessi per seguire Cristo.
I due punti sono collegati, come già allo ‘strumento’ precedente: Onorare tutti gli uomini.
La prima considerazione, che viene spontanea, è questa: la Regola di san Benedetto è fondata su di un grande rispetto. Rispetto per Dio, per la persona, per gli altri. Rispetto per la presenza e il primato di Cristo. Tutto nella Regola parla di equilibrato ed armonioso rispetto. Il rispetto è come un clima benefico, salutare, pacificante e ri-equilibratore, che avvolge il tempo e gli spazi, i silenzi e le parole del monastero. Il monastero è la Casa di Dio: il luogo della ricerca di Dio e della pace interiore. Dove lo stare in pace non è essere senza problemi, ma camminare con cuore fiducioso e dilatato lungo le vie rasserenanti della volontà del Signore. Si impara, alla scuola di san Benedetto, a crescere ogni giorno di più nella fiducia.
Se diamo anche solo un occhio velocissimo, a volo d’uccello, alla Regola, scopriamo:
Il che è difficile. Ma l’altro è così prezioso, che io non lo posso omologare. Non posso volerlo su misura della mia testa e del mio cuore: il margine della differenza è sacro!
L’altro è altro. Richiede accoglienza, rispetto, attenzione, ascolto, cura. C’è dentro la vita, il dono e il mistero della vita.
Ancora uno sguardo al cap. 3° di RB. Qui – sulla convocazione dei fratelli a consiglio – san Benedetto ha tocchi paterni e democratici davvero significativi:
- Nessuno in monastero segua le inclinazioni del proprio cuore; nessuno sfrontatamente abbia la presunzione di contestare con il suo abate (RB 3, 8-9);
- Abbiamo detto di chiamare a consiglio tutti i fratelli, perché spesso proprio al più giovane il Signore manifesta ciò che è meglio fare (3, 3).
Tutti sono importanti nella Comunità benedettina: pur nella differenza dei ruoli e delle mansioni, tutti sono membra vive della famiglia monastica, quindi tutti hanno la grazia dello Spirito Santo per esprimere con bontà e carità – senza arroganza - pareri o consigli sui vari problemi o situazioni che l’abate sottopone alla visione comune. Tutto, sempre nella fiducia e garanzia dell’autorevolezza paterna dell’abate, che, appunto in quanto padre, esprime poi l’ultima parola, come… ‘supervisore’. Sempre in un clima di ordinata e rispettosa armonia. Questo è il clima benedettino.
I due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo vanno insieme. Più nella mia vita do’ spazio e campo libero a Dio, più gli altri diventano importanti, importantissimi. Non c’è cammino di fede che esuli dalla cura, dall’attenzione, dalla sollecitudine colma di bene per i fratelli.
Ora diamo un occhio alla Sacra Scrittura, per fondare quanto abbiamo detto attingendo alla Regola e alla vita benedettina.
Gen 4, 1-16. Caino e Abele.
“…Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto […] Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”
Creati da Dio, usciti dalle mani del Padre, per essere figli e fratelli, quanto invece è difficile esserlo davvero. Il bene di Abele, il suo cuore puro indispone il fratello. L’amore suscita odio nel cuore del fratello.
Gen 37, 5: “Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più.
8: “Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole”.
Il puro, l’innocente è odiato.
Ben si afferma in Gv 15, 25: “Mi hanno odiato senza ragione”. L’amore suscita odio. Come è possibile questo?
Ci è duro capirlo, e anche accettarlo. Se faccio il bene, desidero suscitare il bene. Che attorno a me, come per una diretta risonanza e conseguenza, si respiri il bene.
Invece… L’amore può suscitare odio. Devo metterlo in conto. Per Gesù è stato così. Riconoscerlo, tenerne conto senza drammi è doveroso realismo. Ci facciamo aiutare da padre Rupnik [1]:
“…per il semplice fatto che Giuseppe è amato, gli altri lo odiano. Il testo dice che i fratelli non potevano parlargli amichevolmente, con un atteggiamento benevolo a priori, dal momento che l’amicizia è proprio questo: succeda quel che succeda, noi due ci capiamo, non ci può essere tra noi ombra di equivoco…
Ma i fratelli non possono avere tale atteggiamento verso Giuseppe. La predilezione di Giacobbe rende Giuseppe odioso ai fratelli, accumulando su di lui il rancore…[…] Cristo, rivelazione dell’amore del Padre, è anch’egli odiato e alla fine condannato proprio per il fatto di essere Figlio del Padre (cfr Mc 14, 61-64). Sembra quasi che l’amore sia destinato a suscitare odio, che, anzi, questa sia una caratteristica che contraddistingue l’amore di Dio. Infatti, poiché l’amore di Dio è la santità di Dio, la sua perfezione, non può coesistere con il male. E siccome l’amore cerca di inglobare tutto, di abbracciare tutto e di vincere il male, il male si evidenzia e reagisce. Possiamo qui ricordarci sant’Agostino, che afferma che Cristo è venuto nel mondo per rivelare l’amore del Padre, e, tramite questo amore, suscitare negli uomini l’amore verso Dio. È un movimento molto bello, ma anche molto tragico. Cristo suscita l’amore negli uomini, ma questo amore nasce solo dopo la sua crocifissione, solo dopo cioè che si è scatenata una violenza tale da ucciderlo. È quanto esprime l’icona della deposizione dalla croce: solo dopo che l’uomo ha risposto con la violenza all’amore di Dio, solo dopo che Dio per amore è arrivato a subire la sofferenza e la morte, solo allora, di fronte al corpo morto di Cristo, l’uomo è capace di fare un gesto di amore verso Dio, avvolgendo nella tenerezza il suo corpo morto. Come se l’amore vincesse il male attraverso l’odio che gli si scatena contro, ma che riesce ad assorbire. L’amore assorbe quest’odio e, in tale maniera, lo vince, affinché si realizzi l’amore in pienezza […] Nella vita spirituale è illusorio pensare che amando si possa automaticamente suscitare l’amore. È una sorta di idealismo spirituale. Amando si può suscitare l’amore delle persone già purificate. Altrimenti l’amore viene frainteso e in questo senso si verifica il suo martirio, come avviene per Cristo. Anche la nostra accoglienza dell’amore di Dio passa attraverso un processo di purificazione…”.
Che grazia il realismo per il cristiano!
Rischiamo sempre di idealizzare il Vangelo. Per Gesù è stata dura. Lui è l’Agnello ferito e immolato. C’è poco da fare. E perché per noi dovrebbe esserci una via spianata? Un amore più… a buon mercato?
Il nostro guaio è il rattristarci. Il perdere la pace e lo sgomentarci, lo scandalizzarci di fronte agli ostacoli e alle prove. Voglio bene finché tutto va bene. Ma alla prima curva, addio!
Soffrire è umano. Legittimo. Ma chi è di Cristo non si arrende, non si ferma. L’amore nel cristiano ha comunque l’ultima parola.
Amare è difficile. Anche in una comunità ecclesiale. Anche in un gruppo di appartenenza che ha alte motivazioni spirituali. Perché siamo umani. Siamo un impasto di bene e di male… E più c’è il bene, più emerge anche il male, che a volte si scatena. Accettarlo è già virtù. Andare avanti sapendo, riconoscendo questo, è un bel dono per la vita.
Difficile amare davvero: senza preoccuparsi di sé. Gratuitamente. Implica un processo di purificazione che è crescita, uscita da sé (estasi!) per entrare nel Cuore di Dio, e quindi nel cuore dell’altro. Essere di Cristo, diventare ogni giorno di più cristiani, amare un po’ con il Suo Cuore, è, alla fin fine, impresa che supera la logica umana. Per questo i santi, in Oriente, sono chiamati ‘i folli di Dio’.
Ci vuole la follia di un amore che accetta di perdere, di rimetterci, di morire a sé, per il bene altrui. Il vero amore passa sempre di qui. Se non metti in conto la perdita, ti ritiri, ti ritrai… e non ami più.
Ma Gesù lo sa:
“L’amore è tutto, tranne che una benedizione. Non ci si autocandida all’amore… Nell’amore c’è sofferenza e persino morte, per cui è logico che nell’uomo tutto si ribelli all’amore”.
“Gesù sa che il sentiero dell’amore e della dedizione di sé non è semplice: specialmente quando al discepolo viene chiesto tutto. In quegli istanti si deve solo sperare di essere degni dell’amore e di saperne reggere il peso. L’amore, in fondo, non è una cosa nostra” [2].
“Amare non è umano”: è di Dio. È dono Suo. Riconosciamo che facciamo fatica ad amare, a perdere qualcosa di noi, a lasciare andare gli interessi…
C’è una sola possibilità: accettare l’Amore ferito – perché il Dio Incarnato per primo è ferito, si è ferito amandoci; ci ha rimesso tutto – e partire da qui, per imparare ad amare. Più purificati. Senza accampare pretese o chiedere riscatti. Quindi più liberi. Accogliere l’Amore ferito, che ti ferisce, ti libera. Muori, sì. Ma risorgi in Lui. Perché, alla fin fine, “l’amore che opera il bene e che non viene riconosciuto non ha bisogno di essere visibile agli occhi del mondo, perché è già passato dalla morte alla vita in Cristo risorto. Il bene dimenticato è un bene vero. Perciò la persona che lo compie e viene dimenticata soffre, sì, ma anche risuscita nella gioia di un cuore pacificato, perché sa che Dio ha visto e accettato… Dio è amore, e tutto ciò che l’amore abbraccia, rimane in eterno” [3].
L’amore che doni rimane in eterno. Passa in cielo con te. Tutto ciò che dici e doni per amore passa in cielo, non va perduto.
Allora, se amare è difficile, è però possibile. È desiderabile. È una bella avventura.
C’è una sola via: amare nell’umiltà, nell’umile amore di Dio. Così si diventa con Lui signori sulla terra. Liberi di amare servendo.
Questo ci chiede san Benedetto quando ci parla, negli strumenti delle buone opere, del primato dell’altro, sempre nel primato di Cristo. Perché l’altro è di Dio. È terra sacra. È tempio dello Spirito. Richiede rispetto. Un amore purificato. Non esigente. I santi non sono esigenti con gli altri, ma con se stessi.
Al capitolo 72, vera perla della Regula Benedicti, san Benedetto tratta dello zelo buono dei monaci: purificato dale amarezze, dai rancori, dalle pretese. Lo slancio di un amore mite, mansueto, paziente. “Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri” (72, 2). È la costante scuola dell’umiltà dell’amore che serve, che si china. A questo punto capiamo cosa vuol dire diventare, umilmente, custodi dei fratelli.
La nostra cara madre Caterina Lavizzari, con il suo tocco di simpatia, ammoniva: “Che nessuna diventi la guardia di finanza delle sue sorelle!”.
Amare non è sindacare.
Non è tenere tutto sotto controllo.
Non è rivendicare diritti e pretese. Tenere puntigli…
Essere ‘custodi’ non significa possedere l’altro.
Pensiamo all’angelo custode: quanto bene discreto e sollecito, ma davanti a Dio!
Così dovremmo essere noi, gli uni per gli altri, nel respiro vitale della comunità monastica. Fratelli e sorelle che si sono ricevuti da Dio, e che, senza possessi e arroganze, si custodiscono davanti a Lui:
1. Nella preghiera
Sentiamo la forza e la bellezza del pregare a vicenda, anche quando siamo lontani! E la gioia di sentire che siamo sorretti e portati avanti da una Comunità di Sorelle che, per pura grazia, prega giorno e notte per noi, per me. C’è il Signore davanti a noi!
2. Nel bene disinteressato
Senza secondi fini. Purificando le intenzioni. Come direbbe la beata Teresa di Calcutta: “Io faccio tutto per Gesù!”. Questo libera il cuore
3. Anche accettando la ferita
Se non sono capito, se posso essere frainteso, non per questo smetto di amare
L’amore vero non si ferma mai.
“L’amico è il custode dell’anima” (Aelredo di Rievaulx).
Il fratello è il custode dell’anima. Sulla terra, per il cielo.
Custodire i fratelli nel Signore è fare il bene, portare avanti il bene, certi che l’eternità è già qui, nel mio oggi donato con amore. Con la Sua grazia!
PER LA VERIFICA:
1) Quando faccio più fatica ad amare? 2) Chi faccio più fatica ad amare? 3) Dico a Gesù le mie fatiche? Mi affido e appello a Lui? 4) Accetto un amore… ferito? Accolgo il rischio dell’amore, con le sue… perdite? Metto in conto le ferite? 5) Credo che comunque e sempre l’amore resta? Rimane per sempre? 6) Cosa vorrei di più per gli altri e per me?
PER MEDITARE
Il rischio dell’amore
Dalla Vita di sant’Aelredo, di Walter Daniel
C’era una volta un giovane monaco problematico. Era un ragazzo molto angosciato per i suoi troppi pensieri, molto fragile emotivamente e sempre sul punto di abbandonare il monastero; solo l’attenzione paterna e materna di Aelredo lo manteneva nel chiostro. Aelredo aveva un amore grande per questo giovane così tormentato, pensava che fuori dal monastero si sarebbe facilmente perduto e continuamente pregava perché il Signore sostenesse la sua vocazione.
Il giovane non si dimostrò molto sensibile alle attenzioni di Aelredo, e un giorno quasi fuggì dal monastero. Rimase tutto il giorno perduto nei boschi, ma a sera si ritrovò nuovamente e inesplicabilmente davanti alla porta del monastero.
Aelredo lo riaccolse con infinita tenerezza e pazienza, e lo persuase a rimanere nel chiostro. Gli propose, anzi, di passare con lui alla fondazione di Revesby, anche se in sé la cosa non era certo prudente, pensando sia ai problemi iniziali che porta sempre in sé una fondazione, sia al caso difficile di questo giovane.
Il giovane monaco partì con Aelredo per la fondazione, ma poco tempo. E quando già Aelredo era stato nominato abate di Rievaulx, tornò a Rievaulx dicendo che non sopportava il rigore della vita cistercense, nonostante tutte le mitigazioni che Aelredo gli aveva offerto. Diceva che voleva andarsene. Aelredo non insistette, solo gli disse che avrebbe digiunato fino al suo ritorno.
Si racconta allora che il giovane, davanti alla porta aperta del monastero, non riusciva ad attraversarla, perché era come se si trovasse davanti a un’invisibile parete di acciaio, contro la quale cozzava, senza riuscire ad oltrepassarla.
Non si sa bene quello che successe poi, solo sembra che il ragazzo viaggiò molto, e che una notte Aelredo sognç che quel giovane tornava prima dell’ora di Prima del giorno seguente. E così in realtà avvenne. Sembra che questo giovane tornasse solo per chiedere il permesso di andare un periodo a casa sua. Aelredo gli disse di fermarsi in monastero, e pochi giorni dopo, per una malattia strana e inattesa, il giovane morì tra le braccia di Aelredo.
U.I.O.G.D.
[1] M. I. Rupnik, Cerco i miei fratelli. Lectio divina su Giuseppe d’Egitto. Lipa, Roma 1998, pp. 6-11.
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