Il cammino delle buone opere (RB IV)
Procediamo nel cammino delle “buone opere” iniziato nei mesi scorsi sotto la guida sicura della Regola. Oggi prendiamo in considerazione tre “strumenti” per il bene; per fare il bene; perché la nostra vita sia benedizione.
- Non assecondare la concupiscenza.
- Non testimoniare il falso.
- Onorare tutti gli uomini.
Ci soffermeremo in particolare sul primo strumento, considerando brevemente gli altri due, come conseguenza e riflesso diretto del “non assecondare la concupiscenza”.
Partiamo dunque da:
Non assecondare la concupiscenza
È una massima che subito ci appare attualissima, in una società come la nostra, che invece asseconda immediatamente la concupiscenza, e trova occasioni continue per assecondarla, a tutti i livelli. Ma con questa esortazione san Benedetto non vuole fare del moralismo…. Non cade mai nel moralismo il nostro santo padre Benedetto. Quando chiede con decisione qualcosa, è per la Vita!
“C’è qualcuno che desidera la vita, e brama lunghi giorni per gustare il bene?” (RB Prol., 7).
Cos’è la concupiscenza?
Andiamo a vedere quel che dice il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Al numero 2515: “La concupiscenza nel senso etimologico può designare ogni forma veemente di desiderio umano” È un “moto dell’appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana”.
Si tratta dunque di un desiderio smodato, eccessivo, eccedente, non equilibrato, non puro, talmente mosso dall’istinto – è un ‘moto’, subitaneo, qualcosa di impulsivo e irrazionale – che la persona che asseconda la concupiscenza finisce per non ragionare più…Può fare follie. Perché segue l’istinto. Ma così perde ogni dignità, oltre che perdere la grazia.
San Benedetto, grande conoscitore dell’uomo, mette in guardia da questo con-cupire. Cupio significa desiderare ardentemente, in forma veemente, appunto. Cupio + con = forte brama!
È come un ‘covare’ sotto la cenere… rimuginando…
Tutto questo ingenera disordine, male, peccato, e, in tempi più o meno lunghi, tristezza profonda, disperazione.
Benedetto è invece il padre della discretio. La Regola dice equilibrio, misura, sobrietà, ponderazione e purezza in tutte le sue parti. Anche in ciò che è buono, positivo, sempre Benedetto rifugge gli eccessi:
- si pensi a quando tratta della preghiera (RB 8-20): vuole che sia breve, pura, che non ecceda in sproloqui o singolarità;
- quando, nel capitolo sul silenzio (RB 6) parla dei fratelli già avanti nella virtù, “spiritualmente più maturi”, misura anche per loro le possibilità di parlare.
Perché il silenzio è spazio di ascolto, di attenzione all’Altro, di crescita, di purificazione del cuore, di riflessione davanti a Dio.
In tutto san Benedetto vuole una misura di sapienza, che regola la vita e non cade nell’eccentrismo. Un motto benedettino potrebbe essere: senza eccessi!
C’è una sola cosa, nella Regola, in cui è possibile eccedere: nella carità. Qui non ci sono misure. Al capitolo 72, trattando del buon zelo che i monaci devono avere, Benedetto esorta senza mezzi termini: “Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore”. Un amore ardente, pieno di fuoco dello Spirito. Per dirla con san Bernardo – e Benedetto qui è solidale – “La misura dell’amore è amare senza misura”.
Ma la motivazione fondante di questo equilibrio che pervade tutta la Regola non è ancora, appunto, di ordine morale, precettistico. La motivazione di fondo sta a monte. È tutta questione di OCCHI e di CUORE. Di sguardo. È questione di com’è il tuo sguardo sulle cose e sulla vita: se è puro o non lo è.
Se è con Dio o se è senza Dio. È tutta questione di attenzione a Dio, di una vita attenta a Dio, e quindi buona. Naturalmente buona.
Torniamo alla Regola. C’è un filo rosso che la conduce: è la presenza di Dio.
San Benedetto in ogni capitolo della Regola chiede fondamentalmente questa attenzione a Dio, questo vivere tutto – preghiera, lavoro, obbedienza – alla Sua presenza. Il monaco è il memore, ossia colui che di giorno in giorno cresce nella consapevolezza di questa presenza, in questa attenzione a Dio: “…ben consapevole che Dio continuamente lo guarda dall’alto dei cieli…” (RB 7, 13).
Così al cap. 19: “Sappiamo per fede che Dio è ovunque presente… Ma dobbiamo essere assolutamente certi che Egli ci è presente soprattutto mentre celebriamo l’Ufficio divino”.
Il mettere in pratica, pur con tutti i nostri limiti, la regola benedettina, ci fa vivere questa memoria fondamentale: non siamo soli – Dio è con noi – il Suo Regno è già presente, qui ed ora, oggi, in tutto ciò che facciamo.
Ma proprio questo vivere costantemente alla presenza di Dio mette ordine nella mia vita, e quindi mi porta a vincere la tendenza naturale alla concupiscenza; a non assecondarla.
CCC 2514: “San Giovanni distingue tre tipo di smodato desiderio o concupiscenza: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita”.
Se ci pensiamo bene, all’origine, alla base di queste tre diverse forme di concupiscenza, c’è sempre uno sguardo impuro. Tutto parte da uno sguardo che non sta più con Dio, che non è più pulito, alla sua presenza, che non è più dalla Sua parte, e quindi diventa impuro. Così, non ci sono più limiti di sorta: tutto diventa lecito, tutto viene ammesso e concesso. Tutto non è più sotto il segno del dono, della gratuità, ma del possedere, dell’afferrare.
San Benedetto, invece, ci riporta alla radice del cuore. Se la concupiscenza offusca lo sguardo e appesantisce il cuore, il benedettino che non la asseconda lavora proprio sulla purezza di cuore. Beati i puri di cuore: è la beatitudine che contrasta, che lotta con la concupiscenza.
Allora, concentriamoci su questa ‘buona battaglia’ della purezza del cuore.
Qui ci facciamo aiutare da un bel testo di fratel Michael Davide Semeraro, Patire le beatitudini [1]. Leggiamo a pag. 178:
Ecco a cosa siamo chiamati: a diventare così puri da non vedere più il male, da non avere più sensibilità per questa realtà fino a scorgere in tutte le cose, che del resto sono imperfette e talora persino inique, una parte di luce che peraltro è presente in ogni situazione. La conversione radicale da fare nel proprio cuore è proprio questa: superare la tendenza, quasi congenita, a cogliere persino nelle cose buone, nelle persone sante, nelle situazioni serene, sempre quello che manca, con una sorta di malizia che ci apparenta all’ ‘invidia’ (Sap 2, 24) e che è propria del maligno. Talora siamo talmente contaminati da quest’invidia di fondo da diventare – quasi nostro malgrado – come ‘apostoli del maligno’ – sempre alla ricerca di quello che non va, per mascherare quello che in noi, nel profondo del cuore, esige purificazione e rinnovamento. Il Signore ci chiede di accedere a questa purezza di cuore che sa vedere la luce anche quando essa è flebile…
La concupiscenza possiede, appesantisce, corrode il vivere.
Il cuore puro non possiede. E’ libero, povero, aperto, casto, umile.
Com’è possibile liberarsi dalla concupiscenza ‘congenita’, e liberare uno sguardo puro, cioè pulito, non possessivo sulle cose, persone, situazioni?
Come si arriva al cuore puro?
Sostiamo su di un apoftegma, un racconto dei padri del deserto, per aprire un varco alla verifica sulla nostra vita. Questo è il nostro fine: saperci guardare bene dentro, con coraggio e lealtà, per correggerci, e camminare speditamente sulla via del bene, come vuole appunto San Benedetto. L’attenzione alla Regola, l’amore e la pratica della Regola ci fa oblati: donati, decisamente proiettati nel bene, togliendo di mezzo gli ostacoli che rallentano il passo verso Cristo.
“…Un monaco si recò un giorno con due discepoli ad Alessandria, la grande città, per vendere al mercato delle ceste di vimini. Giunti alle porte della città il piccolo drappello scorge…due di quelle donne che normalmente stanno alle porte della città. Belle, ben truccate, provocanti, elegantemente agghindate. A quella visione, l’abba si mette a piangere. I due discepoli rimangono scandalizzati da quel singhiozzo. Pensano: ‘Il nostro abba sente malinconia, perché pensa a tutti i piaceri che ha lasciato per seguire Dio nella solitudine e nel deserto. Anche lui è vittima della nostalgia!’. Avvolti da questi pensieri i due tacciono, finché il più giovane trova un po’ di coraggio, e si rivolge al padre. Domanda: ‘abba, perché sei triste?’ Quegli risponde: ‘Perché penso a tutto quello che queste donne fanno per piacere agi uomini, e a tutto ciò che io faccio per piacere a Dio!” [2].
“Tutto è puro per chi è puro”. Tutto concorre al bene per chi pensa bene.
Avevate mai pensato che anche il pensare in positivo rientra nel “non assecondare la concupiscenza”?
Un pensiero negativo, malato, impuro contamina il cuore, il giudizio, la parola, gli atteggiamenti, la vita. Così, si capisce che la vita cristiana è essenzialmente una lotta spirituale, per combattere anche quei pensieri che ci portano giù, verso il basso, e ci inquinano dentro. Bisogna vigilare.
IN PRATICA:
“Non assecondare la concupiscenza” significa:
- sta rivolto verso l’alto.
- Pensa bene.
Perché lo sguardo del tuo cuore e della tua vita resti puro.
Se tu pensi e mediti continuamente pensieri positivi, non lasci attecchire nella tua mente e nel tuo cuore l’impurità, l’astio, il rancore, la tristezza, l’invidia, che sono le vere ‘piaghe’ della vita.
Notiamo un particolare importante dell’apoftegma citato: i due discepoli, formulando pensieri negativi, tristi, alla fine non hanno più parole. Rimangono come prosciugati dentro, secchi, aridi, privi di vita. Il male, appunto, ti abbatte, ti atterra e corrode, ti azzera le risorse.
Invece, se tu resti aperto al bene, positivo, genuino come l’abba del racconto, sari anche frainteso, non capito, giudicato male, ritenuto indebitamente ingenuo oppure nostalgico, ma dentro tu resti comunque forte, intatto, pieno di capacità di ripresa anche di fronte ai colpi bassi, capace di nuove risorse di vita che ti aiutano a ricominciare ogni giorno. Certo, il lavoro lo devi fare bene dentro, nel tuo cuore, ‘lottando con Dio’ come Giacobbe, cioè lottando dalla parte di Dio, per il bene.
Vediamo ora, dai Dialoghi di san Gregorio Magno, un episodio della vita di san Benedetto che qui ci può aiutare. Abbiamo parlato di concupiscenza anche come di superbia della vita (cfr p. 3). Si veda, appunto nei Dialoghi, Il pensiero superbo del piccolo monaco (n. 20): un giovane monaco, figlio di un avvocato, è chiamato a reggere la lucerna davanti alla tavola di Benedetto mentre questi prende la cena. Il giovane, dice san Gregorio, “chiuso nella sua taciturnità, cominciò a ruminare pensieri di superbia, dicendo in cuor suo: ‘E chi è costui, che io lo debba assistere mentre mangia, reggergli la lucerna e prestargli servizio? Sono proprio uno che deve fare il servo?”.
Notiamo, anche qui, come già nell’apoftegma sopra ricordato, la ‘chiusura nella taciturnità’, che attanaglia il cuore del discepolo. Ti chiudi, e non ti fidi più dell’altro. E allora, questa difesa, paradossalmente ti espone a tutti i pensieri e giudizi. Diventi libera terra del male, preda di ogni malignità.
È molto bella la reazione vigorosa di Benedetto contro questa chiusura maligna – superbia della vita – concupiscenza del piccolo monaco. Benedetto si volta all’improvviso verso di lui, e lo prende vivamente a rimproverare. Sbaraglia il male, non lo accarezza. L’uomo di Dio fa ordine, nella verità, senza compromessi. “Fatti un segno di croce sul cuore, fratello! Che vai rimuginando nella mente? Fatti un segno di croce”.
La croce sul tuo cuore ti libera dal male. La tua vita a forma di croce – è la forma del servo, del servire per amore, come Gesù – ti libera, ti guarisce, ti salva dall’arroganza del pensiero, dalla concupiscenza del cuore.
A questo punto comprendiamo bene il valore e l’importanza dei due strumenti delle buone opere successivi.
Non testimoniare il falso
Chi lavora sul cuore, perché resti puro, e dunque non asseconda la concupiscenza, non avrà un cuore doppio. Cercherà di restare vero nella vita. Vero, e quindi mite. Il mite è chi non ha il cuore doppio. Beati i miti: ecco la beatitudine ‘mezzo di contrasto’ della falsa testimonianza. Chi testimonia il falso fa della menzogna una ‘difesa’ che poi è come un muro che toglie respiro alla sua vita; il suo potere con cui tenta di dominare la vita, alla fine lo vincerà. Chi invece resta puro, vero, mite sarà anche indifeso, inerme di fronte al potere e a tante situazioni dentro – pensiamo al modello Gesù – ma resta libero, profondamente libero. Ed è ciò che conta.
Questo è anche Benedetto. Uomo di Dio perché sempre profondamente libero: libero dal male, e dunque sempre libero di ricominciare ad amare.
Onorare tutti gli uomini
Anche questo ‘strumento’ non è che una conseguenza del percorso che fin qui abbiamo compiuto. Se resti puro e mite nello spirito, per te l’altro, Dio come il fratello, non sarà mai un avversario.
Lo onorerai.
Lo rispetterai.
Ne avrai stima e cura.
San Benedetto è così sensibile a questo onore che i monaci devono rendersi, che ne parla proprio al culmine della Regola, nel capitoli finali; e non solo i monaci sono chiamati ad onorare sinceramente l’Abate, i Superiori, ma ogni fratello (cfr RB 71 – 72).
Cosa significa onorare l’altro?
Significa – qui prendiamo in prestito ancora una volta da fr. MichaelDavide – restare al proprio posto, e non voler occupare quello dell’altro. Amare che l’altro sia al suo posto. Rispettare i doni, i talenti, il cammino, la ‘storia sacra’ dell’altro, di mio fratello o sorella, accoglierli, e vederne la grazia e la bellezza non solo per lui, ma anche per me!
Arrivare a Dio: l’altro mi fa essere, mi permette di essere quel che sono. L’altro, con la sua luce, illumina anche la mia vita. Arrivare a dire: senza di te la mia vita non sarebbe quello che è!
Ce la facciamo a vivere così?
IN PRATICA:
Onorare è…
Sapersi mettere in relazione.
Sentire l’altro come mio fratello.
Sentire la persona del fratello di fede –
il mio fratello, sorella oblata come uno/una che mi appartiene.
Intuire, accogliere, comprendere
Il mistero dell’altro.
Scoprire la ricchezza, il dono, ma anche il dramma dell’altro,
e rispettarlo.
Così si può arrivare ad onorare tutti gli uomini: tutti, indistintamente, Non i più ricchi, belli o bravi, ma: tutti gli uomini. Perché figli di Dio, amati da Dio.
Ci vuole umiltà. Libertà da sé. Quella libertà che permette all’altro di essere. Quella castità che rispetta il mistero dell’altro, e lo mette prima di sé: al primo posto.
Impossibile?
Proviamo a cominciare con un solo passo positivo, senza indugiare: cominciamo adesso!
[1] Fratel MichaelDavide Semeraro, Patire le beatitudini, edizioni la meridiana, Molfetta 2010
[2] Cit. in G. Cazzulani, Un giro di valzer con Dio. Pregare i Salmi, da laici. Àncora,Milano 2006.
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