É cominciato il tempo ordinario: siamo oggi alla terza domenica.
Il tempo ordinario non è il tempo dell’insignificanza, dell’ordinarietà, in senso negativo. É il tempo della quotidianità illuminato dalla presenza di Cristo. Il ritmo della liturgia ci fa toccare degli apici, come sono state, ad esempio, le feste natalizie. Poi, però, dopo questi “picchi”, ci è dato il tempo di ogni giorno per gustare, riassaporare tanta intensità. E per farla passare nella vita di ogni giorno. La fede cristiana, infatti, non rimane astratta, affidata a un Dio irraggiungibile e invisibile. No, la fede cristiana è ancorata alla visibilità di Dio, al mistero dell’Incarnazione.
Per usare un’espressione della Santa Regola, al IV capitolo dedicato agli strumenti delle buone opere, dobbiamo tornare nell’officina della vita quotidiana, dove non ci manca il lavoro.
La riflessione che vorrei proporvi oggi ruota attorno a uno degli strumenti delle buone opere, elencati nel IV capitolo della S. Regola. Il IV capitolo presenta una raccolta di norme etiche fondamentali e universali di vita cristiana, a cui san Benedetto ne aggiunge alcune in base alle specifiche esigenze della vita monastica.
Mi appoggio su di un brano scritturistico che non sembrerebbe immediatamente collegato.
Nel terzo capitolo della seconda lettera a Timoteo l’apostolo invita questo suo discepolo, che è un giovane Vescovo, a compiere un discernimento sulla storia, una lettura dei “segni dei tempi”. Esercizio importantissimo che come cristiani siamo chiamati costantemente a fare.
Colpisce la visione molto negativa della storia espressa da Paolo (vv. 1-5):
“Sappi che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, empi, senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, intrattabili, disumani, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, amanti del piacere più che di Dio, gente che ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore. Guardati bene da costoro!”.
Colpisce anche il ritratto del cristiano che ne risulta (cf vv. 6-9), che possiamo però comprendere alla luce della vita travagliata dell’Apostolo Paolo (prove, lotte, fatiche…) e dello scontro in atto tra il cristianesimo e la cultura dominante.
Paolo appare qui preoccupato che la testimonianza di Timoteo e della sua Chiesa “tenga” e sia autentica.
Due espressioni di Paolo vorrei sottolineare:
- Tu invece mi hai seguito da vicino nell'insegnamento.... (v. 10)
- Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente (v. 14).
Questo modo di esprimersi di san Paolo ci fa immediatamente pensare al discorso della montagna, a quella serie di antitesi in cui Gesù afferma: “...vi fu detto...ma io vi dico....”.
E' un linguaggio tipicamente evangelico. Un linguaggio “serio” che tende ad introdurre nella vita del discepolo una duplice esigenza:
- discontinuità: rottura, contrapposizione rispetto a stili di vita circostanti. “Avete inteso che fu detto...ma io vi dico... Sulla scia dell'insegnamento del Maestro, Gesù, Paolo chiede a Timoteo, il coraggio di scelte che si pongano in discontinuità con certi modi di pensare e di agire. Possiamo richiamare qui un altro brano di san Paolo ai Romani (12,2):
“Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.
- eccedenza: superamento, esagerazione. Un andare oltre, in nome del Vangelo, in nome della sapienza della Croce. “Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio…se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due….”.
Un martire della chiesa protestante, D. Bonhoeffer ha scritto: “In che cosa il discepolo si distingue dal pagano? In che cosa consiste il ‘fattore cristiano?’ A questo punto viene detta la parola alla quale tende tutto il quinto capitolo di Matteo: il fattore cristiano, lo ‘straordinario’, l’eccezionale, ciò che non è naturale. É ciò che supera i farisei in una giustizia maggiore, il di più, ciò che va oltre. Dove non c’è questo fattore singolare, straordinario, non c’è nulla di cristiano”.
Non si tratta di desiderio nostalgico, di oscurantismo, né di disprezzo del mondo. Noi questo mondo lo dobbiamo amare, il Signore ci ha messi qui, a vivere in questo mondo e in questo tempo! Si tratta piuttosto dell’esigenza di vivere sempre più in profondità le implicazioni della nostra fede, per essere sale e luce, per testimoniare la logica dell’amore di Cristo, che è sempre logica vincente, anche quando “umanamente” sembra perdere!
Dicevo, quindi, che Paolo chiede a Timoteo il coraggio di scelte che si pongono in discontinuità con certi modi comuni di fare e di pensare. E insieme, gli chiede il coraggio di superare le logiche del buon senso e del calcolo. Il coraggio di saper esagerare, rischiare nel bene, nella giustizia, nella carità.
É interessante notare che in queste richieste dà un criterio di garanzia per evitare eccessi o strumentalizzazioni: c’è sempre, infatti, il rischio del fanatismo, del moralismo, del rigorismo che mortificano e restringono la potenza del Vangelo.
Il criterio è il continuo riferimento alle Scritture, non separato dal deposito della fede:
“Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (vv. 14-17).
Più volte ritorna questo riferimento alle Scritture e Paolo ne dà le motivazioni:
- “queste possono istruire per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù” (v. 15).
- “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare alla giustizia” (v. 16).
Lo scopo, il frutto spirituale?: …”perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (v. 17).
Non si tratta di vivere solo in maniera “moralmente buona”, ma di crescere secondo la piena maturità di Cristo. “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova”, afferma Paolo nella 2 lettera ai Corinzi (cf 2Cor 5,14-18). Ecco il punto centrale della nostra vita di cristiani battezzati, di oblati benedettini…una nuova personalità tutta interiormente orientata da Cristo e a Cristo. É Lui che deve vivere in noi, Lui nel suo mistero pasquale; è in Lui che dobbiamo immedesimarci sempre più, è su Lui che la nostra vita deve modellarsi.
Siamo invitati a lasciar espandere le potenzialità divine custodite in noi e seminate nel battesimo. Sant’Agostino ripeteva spesso ai neofiti: “Diventate ciò che siete”. Si tratta di un radicamento in Cristo che innesca un processo di trasformazione. Cambia il modo di percepire e di vivere il rapporto con lui, di percepire la realtà, a cominciare da noi stessi. É una vera e propria nuova creazione che cambia la persona e il suo universo: valori di riferimento, scala di priorità, piccole e grandi scelte della vita….
Nel nostro contesto culturale, così ricco di parole spesso povere di significato, la comunione con Dio rischia di essere equivocata con un vuoto sentimentalismo, che illude psicologicamente il credente pensando di vivere in questo modo in un autentico rapporto con il Signore. In realtà, l’amicizia con Dio ha un’identità decisamente differente.
Nell’amicizia con Dio bisogna avere, in primo luogo, lo stesso modo di vedere e di pensare di Dio, che non inganna e non si inganna.
Possiamo fare nostre le parole rivolte da Benedetto XVI alla Commissione Teologica Internazionale il 6 ottobre 2006. In quella circostanza il Papa ha invitato a non “prostituirsi” alla dittatura delle opinioni comuni, orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire dire: “parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell’anima”.
In questa stessa direzione va la regola Benedettina:
- leggiamo il prologo
- leggiamo il IV grado di umiltà
- Dobbiamo seriamente interrogarci sul nostro modo di essere e di porci come discepoli di Gesù, all’interno della nostra società e dell’ambiente in cui viviamo. Attraverso Timoteo, Paolo ci ricorda che per essere cristiani è necessario essere uomini e donne capaci di discernimento. Cioè l’esercizio, non semplice, di leggere e valutare i fatti, gli eventi alla luce del Vangelo.
- C’è e cresce in me la virtù del discernimento?
In che cosa mi scopro ancora troppo omologato a certi modi di pensare e di agire che obbediscono a logiche non evangeliche o che comunque non mi fanno “esagerare” nell’amore (per es. la logica del “che male c’è?”). Che cosa mi blocca nel prendere certe decisioni? La paura di “perdere”, perderci o soffrire troppo? Mi chiedo e vi chiedo: non è che ancora, in noi, in tanti modi di valutare e giudicare, vive un pagano?
- E in questo discernimento, quale spazio ha la Parola di Dio? Sono convinto che il confronto con la Parola è essenziale e decisivo per il mio cammino spirituale? Il card. Martini ha scritto che non ci sarà futuro per il cristianesimo se i cristiani non si radicano fortemente nella Parola.
- Non c’è giorno nel quale le nostre orecchie non si incrocino con la Parola di Dio. Ma la incontriamo anche con il cuore?
- Uno dei “contrassegni” del modo di pensare del mondo è l’idolatria dell’io, che può a volte mascherarsi sotto le apparenze del bene. Nel mio “fare il bene” c’è sempre e solo la ricerca di Dio, della sua volontà o cerco me stesso?
- “La mentalità del mondo è quella della sopraffazione, dell’arrivismo ad ogni costo, del cercare il proprio comodo, del banalizzarsi nella superficialità delle cose, dell’efficientismo a tutti i livelli. Alla radice di tutto questo c’è la ricerca di se stessi, il rovesciamento della prospettiva e del fine dell’uomo secondo il piano divino. É proprio quanto il monaco deve respingere, perché il suo atteggiamento fondamentale, che lo costituisce vero discepolo, è di cercare Dio e non se stesso. Il costume del mondo si oppone radicalmente ad una vita basata sull’umiltà, sull’espropriazione di sé per essere di Cristo e quindi a disposizione di Dio per la salvezza di tutti.
Quanti ‘rimasugli’ – e fossero solo ‘rimasugli’ – della mentalità dl mondo troviamo ancora in noi! Dobbiamo diventare sempre più esigenti nella diagnosi del nostro male; dobbiamo acquisire la capacità di volgere uno sguardo franco su noi stessi, per saper smascherare i nostri vizi” (A.M. Canopi, Mansuetudine volto del monaco p. 46).
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