Beato chi trova in Te la sua forza
e decide nel suo cuore
il santo viaggio (Sl. 83, 6)
Abbracciare la vita monastica significa abbracciare un cammino di conversione del cuore che durerà quanto dura l’esistenza.
Un lento, lungo cammino, che conoscerà tutte le asprezze del deserto, tutte le astuzie del maligno, tutta la miseria del cuore umano, che conoscerà soprattutto le meravigliose e impensabili risorse della Grazia.
Inquadrare il Monaco in questo tipico atteggiamento di conversione vuol dire rifarsi ad una originaria e costante tradizione che non abbiamo motivo di ritenere ormai superata o inadeguata, visto che il cuore dell’uomo resta l’immutabile campo di battaglia fra la luce e le tenebre, fra l’amore e l’odio.
E la scelta, affidata a ciascuno di noi, resta libera, personale, decisiva non solo per il tempo ma per l’eternità. Che alcuni cristiani prendano tanto sul serio questo loro mondo interiore di peccato e di Grazia da dedicargli le energie di tutta una vita non dovrebbe sembrare eccessivo, anche se a molti appare realmente così.
Evidentemente il monaco avrà poi ancora tanto da donare attorno a sé, la sua vitalità interiore si rinfrangerà in molteplici direzioni e lo porrà a contatto con situazioni umane che evolvono con l’evolversi del tempo, ma il centro perenne del suo equilibrio, la sua fisionomia più vera va ricercata in quel suo donarsi ad un mistero di conversione, di penitenza, di redenzione che per poter raggiungere efficacemente gli altri deve prima gettare profonde radici in noi stessi.
"Dal cuore degli uomini escono le cattive intenzioni" (Mc 7, 21).
Avendolo compreso, il monaco si è chinato in ascolto di quel suo cuore umano capace di tanto male, «prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, invidia, superbia» (Mc 7, 22) ed ha avvertito anche dei palpiti tanto diversi, germi indistruttibili di santità deposti in lui dal Battesimo, che attendevano di essere sottratti dalle spine delle preoccupazioni terrene per crescere fino alla misura dell’uomo perfetto: Cristo Gesù. «Perché ecco il Regno di Dio è dentro di voi!» (Lc 17, 21).
È per questo che il monaco è divenuto l’uomo dell’interiorità e del silenzio, si è inoltrato nelle vie misteriose dello spirito, proteso nell’ascolto di una voce che ha determinato tutta la sua esistenza. «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore» (Sal 84, 9).
Si è allontanato dal brusio della folla per aver più agio di ascoltare quella voce che parlava di pace al suo cuore, per poter creare in sé condizioni ideali dell’ascolto, non tanto nella fuga dai rumori esterni quanto piuttosto nella ricerca di un silenzio interiore dove, una volta spento il tumulto delle proprie passioni, potesse risuonare, limpida, la Parola del Vangelo.
L’opera della propria pacificazione sarà lunga e difficile, andrà soggetta ai dinamismi impazienti di un’azione disordinata e alle stasi stagnanti dello scoraggiamento, s’imbatterà in false segnaletiche circondate apparentemente di luce ma il cui termine è nelle tenebre, conoscerà il morso dell’egoismo e di una impotenza al bene quasi invincibile e allora, sperimentate tutte le inquietanti possibilità del cuore umano, riceverà finalmente in dono, dall’alto, la pace. Scoprirà con gratitudine sconfinata che i miti, i pacifici, i puri di cuore intravedono in parte fin da quaggiù quella beatitudine riserbata all’immutabilità del Regno dei Cieli.
Il monaco è consapevole di essere stato chiamato ad un agone che in certe ore potrà rasentare l’agonia, ma sa che il Regno dei Cieli appartiene ai violenti, il retaggio dei quali è la pace. E sa ancora un’altra cosa: che la sua pace si diffonderà come una benedizione invisibile sul mondo sconvolto dall’odio e dal terrore. Il suo occhio, reso limpido da un diuturno rimanere sotto lo sguardo colmo d’amore di Dio, si posa sul creato e lo trasfigura, restituendogli quella missione glorificatrice di Dio che aveva ricevuto agli albori della Creazione.
E così uomini e cose partecipano a questo suo ritorno ad uno stato d’innocenza perduta e la Speranza torna a vivificare i cuori inariditi degli uomini: dunque la bontà, la pace, la verità, l’amore sono ancora possibili, sono vicini, lo portiamo in noi come capacità inesplorate e feconde. E una luce si accende nelle tenebre del mondo e si comunica e non è necessario neppure che si sappia che è partita dalla solitudine orante di un cuore unito a Dio: in lui, con espressioni inenarrabili, lo Spirito adora, glorifica, supplica il Padre intercedendo senza fine presso il trono di Dio, in lui lo Spirito esulta. «Convertere animam meam in requiem tuam quia Dominus beneficit tibi» (Sal 114, 7).
Se si comprende bene la finalità tutta diffusiva di quanto il monaco va a cercare e a realizzare nella sua solitudine non si sarà più tentati di giudicare la sua vita un egoismo, e la fame, la miseria, la malattia, l’ingiustizia sociale troveranno ciascuna un punto d’incontro reale con quelle esistenze così apparentemente estranee a tutto ciò: si scoprirà che c’è una fame di Dio insaziabile nel cuore degli uomini che verrà misteriosamente lenita dal perseverare di tutta una vita alla Presenza di Dio, così come verranno in soccorso della povertà radicale dell’uomo di fronte al male e all’ingiustizia le mani levate in alto di coloro che portano in cuore, con la Passione di Cristo, la passione del mondo.
Ma che questo sia compreso o no, che questo sia conosciuto o no non importa: certo è che mai mancheranno nella Chiesa si Dio questi silenziosi operai del Regno che continueranno fino alla fine dei secoli l’ininterrotta catena delle divine misericordie per il genere umano.
Essi sono chiamati a prolungare nel tempo la missione nascosta e adorante di Colei che accolse nel silenzio il Verbo divino e nel silenzio lo custodì durante tutta la vita, così come ora custodisce nel suo cuore, abisso insondabile di Santità, tutti noi con ineffabile Amore e ci conduce alla pace incandescente e silente dell’incontro con Dio: in unione con Cristo nello Spirito Santo, a gloria del Padre!
E.P.
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