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Fermati e torna a te stessa
La stabilità interiore
“Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”
(Os 2, 16)
“Gli disse: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto. Ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto…” (2 Re 19, 11-13)
“In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici…” (Lc 6. 12-13)
Fèrmati. Dove vai, se prima sai fermarti? Di fermarti alla presenza del Signore, di ritrovarti davanti a Lui, per recuperare la roccia, il fondamento stabile della tua vita. Una vita ben stabile e centrata è quel che tutti cercano e desiderano, ad ogni età, oggi più che mai, e in modo spesso esasperato. Ma allora, come si fa?!
La nostra Regola Benedettina ci chiede la stabilità nel monastero, il voto di stabilità è tipicamente benedettino. Alla Professione monastica facciamo voto di stabilità nel monastero in cui emettiamo i Voti: voto di stabilità nel luogo di appartenenza, per tutta la vita. Fino alla morte! Stabili in monastero fino alla fine. Non è come fuori, che si va, si viene, si corre, si gira e si rigira, si viaggia e si vola… in monastero si sta, si rimane… per sempre.
Non è solo una stabilità del luogo, ma, più ancora, è stabilità del cuore. Stabilità di un cuore che non si disperde, che non fluttua di qua e di là, che non tradisce. Perché è di Cristo. Ed è una santa battaglia da portare avanti ogni giorno! Non bisogna illudersi mai di essere a posto. Se si vuole diventare STABILI, bisogna camminare, non stare statici; lasciandosi portare ogni giorno al centro, verso Gesù Cristo.
Ma non è che san Benedetto se l’è inventato questo voto di stabilità…Ricordiamo il motto ricorrente dei padri, di fronte alla prova e alla tentazione: “Rimanere nella propria cella”. Restare, rimanere, stare in Dio, aggrappati a Lui, più ‘infuria la bufera’. Più le cose, dentro e fuori, si mettono male, e più è urgente fermarsi, restare, non fuggire, aspettando con pazienza e perseveranza che ogni vento contrario cessi. Rimanere, per diventare stabili. Rimanere dentro una costante conversione, questa è la vita monastica.
Rimanere per tutta la vita in conversione. Rimanere con il cuore aperto alla conversione, passando dalla in-firmitas (l’anima è in-ferma) alla stabilitas. Restare in un luogo, sì, la cella, che però è il cuore stesso di Dio. Restare in Dio è l’abitazione, la vera dimora del monaco, nei tempi felici e in quelli turbolenti, e non ce n’è altre. Tutto il resto è illusione, fuga, appunto. Questo è significativo, e ci illumina.
“Che nessuno ci inganni: non sfuggiamo al maligno fuggendo da un posto all’altro, ma solo passando dal peccato alla virtù, dalla passione al pentimento.
Se pensi di sfuggire al demonio cambiando luogo, lui ti seguirà; correggiti, e il demonio fuggirà da te”.
“essi passano la vita errando di regione in regione, facendosi ospitare per tre o quattro giorni nelle celle degli altri, sempre vagabondi, mai stabili, schiavi delle proprie voglie e dei vizi della gola, peggiori persino dei sarabaiti (‘molli come il piombo’)…” (RB 1, 10-11)
Se cerchi la luce, Benedetto, perché scegli la grotta buia? La grotta non offre la luce che cerchi.
Continua pure nelle tenebre a cercare la luce fulgente, perché solo in una notte fonda brillano le stelle.
“Perseverando nella Tua dottrina, il Vangelo di oggi, nel monastero, fino alla morte, che si è fatta vicina e rimane minacciosa, partecipando alle tue sofferenze, o Cristo nostra Pasqua, mediante la pazienza al fine di meritare di essere consorti, eucaristizzati, cristificati. Nel monastero fino alla morte, sì, se e come Tu vuoi, ma non fuori da una fedeltà viva al tuo insegnamento: ciò che ha detto a noi lo Spirito in questo tempo della Chiesa” [1].
“Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo…,vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese… E anche per te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se lo vuole Dio, nostro Padre comune”.[2]
“Più la speranza è immensa, meglio percepisce istintivamente che potrà compiersi solo investendosi risolutamente in una lunga pazienza con sé, con l’altro, con Dio stesso. È giorno per giorno che dovrà mantenersi, per vivere. Ogni piccolo gesto le serve per dirsi. Un bicchiere d’acqua offerto e ricevuto, un pezzo di pane condiviso, una stretta di mano parlano meglio di un manuale di teologia riguardo a ciò che è possibile essere insieme. Siamo segnati, gli uni e gli altri, dalla chiamata di un aldilà, ma la logica prioritaria di questo aldilà è che si può far meglio tra noi, oggi, insieme. Un mondo nuovo è in gestazione, e a noi spetta di lasciarne presentire l’anima.”[3]
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