Home    Deus absconditus    Autori  Ora et Labora

Dom Jean Leclerq osb
Luci nuove
su Catherine de Bar
*

La pubblicazione di due nuovi volumi degli scritti di Catherine de Bar (Madre Mectilde del SS. Sacramento) costituisce un avvenimento nella storia della spiritualità e, specialmente, in quella del monachesimo. Questa insigne rappresentante della scuola benedettina del XVII secolo non era quasi conosciuta e, quando lo era, la sua immagine e la sua dottrina rimanevano spesso offuscate dai luoghi comuni nati dalla restaurazione romantica e dai suoi sottoprodotti, e non controllate. Le Benedettine di Rouen, in collaborazione con M. J. Daoust, ci offrono ora il modo di procedere a una verifica - che è una scoperta - alla luce di documenti autentici. Già l’edizione di un primo volume [1] aveva dato l’occasione di situare quest’autrice nel suo tempo e in rapporto al XIX secolo [2]. Le due nuove opere danno ulteriori informazioni, di un interesse che dev’essere sottolineato [3]. Non che sia possibile segnalarne qui tutte le ricchezze; è pensabile che ormai dovranno, e potranno, essere intraprese una o parecchie tesi di storia o di teologia, riguardanti la sua concezione della mistica, la sua dottrina sull’eucaristia, la sua psicologia religiosa, e del modo, forte e amabile a un tempo, con cui ella si occupò della direzione spirituale di laici - soprattutto di principi e nobili - e di monache. Qui si tratterà soltanto di attirare l’attenzione su taluni aspetti della sua personalità e della sua spiritualità.

1.  Lo sfondo storico

Questa psicologia e questa spiritualità sono legate alla sua storia personale, a quella del suo Istituto - le Benedettine del SS. Sacramento - e a quella della società in cui operò. Da questo punto di vista, è estremamente rivelatore il racconto della fondazione del monastero di Rouen, che occupa l’inizio del volume III (pp. 1-136). E’ appassionante e fa pensare alle Fondazioni di santa Teresa d’Avila: una vita spirituale manifesta tutto il suo vigore proprio quando è confrontata coi fatti. Gli elementi comuni alle grandi tradizioni contemplative appaiono ugualmente per contrasto con i dati culturali che ad essi si uniscono e che sono d’importanza secondaria. Per esempio, Madre Mectilde, a differenza di ciò che era avvenuto cento anni prima in un altro paese - la Spagna del XVI secolo - sembrerebbe molto libera riguardo alle leggi della stretta clausura delle monache, come furono precisate dopo il Concilio di Trento: «Ella partì dunque da Parigi... » (p. 30). «Uscì dunque da Parigi... » (p. 43). Per nessuno dei quattro viaggi che fece a Rouen in pochi anni (1677-1681), dice mai che abbia dovuto chiedere un permesso. Ora ogni volta ella si sposta con altre monache, e la carità gliene fornisce un motivo sufficiente: «Decise dunque di fare un terzo viaggio (che, in realtà, era il quarto) per venire di persona a consolarci » (p. 88). Il meno che si possa dire è che la clausura non l’assilla; questa parola, del resto, non figura nei copiosi Indici che completano ogni volume, e che danno tante referenze intorno a un gran numero di idee, pratiche e osservanze. Il volume III contiene delle lettere che riguardano i monasteri normanni; nella maggior parte sono indirizzate a monache dell’Istituto, ma talvolta anche ad abbadesse benedettine di altre case, come pure a secolari, laici ed ecclesiastici, implicati nella storia delle case di Normandia. Basta sfogliare questi duecentotrentacinque documenti, oppure guardare l’Indice dei nomi propri, per constatare che M. Mectilde era in relazione coi personaggi e gli ambienti più ferventi della Francia del suo tempo: Benedettini - Mauristi, Vannisti e altri -, Benedettine delle grandi abbazie riformate, religiose Annunciate, Carmelitane, Orsoline; religiosi Domenicani, Cappuccini, Minimi, Certosini, Oratoriali; la Madre de Blémur, il Padre de Condren, il P. Jean Chrysostôme, san Jean Eudes e tanti altri. Pur conservando la sua identità, la fondatrice seppe trarre profitto da ogni risorsa presente in quel grande movimento spirituale che fu chiamato Scuola Francese. Tutto questo si trova all’origine delle circa quarantacinque case che si estendono ora dalla Scozia alla Sicilia, dalla Normandia alla Polonia, con un prolungamento in Uganda: di esse si trova una carta geografica alla fine del volume III.

Il vol. II apre orizzonti ancor più vasti e vari, poiché le lettere che contiene non si limitano a una sola provincia. Ma anche in esso, più ancora che le connessioni storiche, sono le convinzioni di M. Mectilde a meritare attenzione. Esse vanno dall’annientamento di sé e la partecipazione a quello di Gesù, a un amore unitivo, che passa per l’abbandono a Dio, l’accettazione della Croce - e delle croci -, il distacco, l’adorazione, il culto liturgico, la devozione eucaristica, la gioia, la pace: e tutto questo, unendosi come vittima volontaria alla redenzione. Vi si trovano atteggiamenti cristiani che sono di tutti i tempi; ma, com’è normale, alcuni di essi ricevono una colorazione speciale dal paese e dall’epoca in cui vengono vissuti. Così, fin dall’inizio del vol. I (pp. 22-26), la devozione al Bambino Gesù-Re è tipica di una delle forme che rivestì in Francia il culto di Cristo Re nel XVII secolo[4]. Quanto al titolo di abbadessa dato alla Madonna, e di cui già si faceva menzione nel voI. I, esso riappare nel II come nel III (una quindicina di referenze nell’Indice, p. 386), con una frequenza che traduce in M. Mectilde una convinzione, di cui abbiamo esposto altrove le motivazioni spirituali [5]. E non c’è bisogno di immaginare che le abbadesse del XVII secolo fossero decadenti - non essendo affatto vero nel loro insieme [6] - e che quindi fosse necessario fare questa infrazione alla tradizione benedettina per giustificare lo statuto riconosciuto alle superiore nell’istituzione di M. Mectilde. La «Superiora-Priora» è certamente meno estranea al pensiero di san Benedetto dell’«Abate-Prelato».

2.  Teologia ed esperienza

Al centro di tutta la pietà di M. Mectilde si trova una cristologia che meriterà di essere studiata nel suo complesso. Le sue componenti essenziali appartengono a tutta la tradizione. In particolare, a causa dell’influenza della liturgia, non sono dimenticati gli aspetti gloriosi del mistero: per esempio, certe considerazioni sull’Ascensione (II, p. 36 ecc.) fanno pensare a ciò che scrive un san Bernardo o un D. Marmion. Anche l’insistenza sullo Spirito Santo potrebbe oggi apparire «attuale». Quanto alla devozione al Sacro Cuore, neanche essa era nuova, né nella liturgia, né nella tradizione illustrata da una santa Geltrude. Vi sono, tuttavia, alcuni aspetti di questa spiritualità che sembrano più difficili da accettare, dopo la Gaudium et spes ... Si tratta, in particolare, del valore della sofferenza, dell’idea di riparazione, della condizione di vittima. Cerchiamo di afferrare come mai tali concezioni si imposero nel XVII secolo, e quanto conservino di valido.

La sofferenza non derivava dall’immaginazione; non c’era bisogno di inventarla: era un fatto che s’imponeva da sé, come sempre. Quando era causata da violenze colpevoli, era normale che si pensasse a espiare queste colpe; si trattava delle atrocità che accompagnavano le guerre. Ai nostri giorni, non si è forse edificato un Carmelo sopra un parte dell’antico campo di Dachau? Quando si legge quel che scrive M. Mectilde delle guerre del suo tempo (II, pp. 326-328, 358 ecc.), si comprende che c’era di che «riparare» ...

Altre sofferenze, di carattere spirituale, erano causate dalle profanazioni delle chiese e delle specie eucaristiche; esse erano frequenti (II, pp. 248-250, 256, 266, 277-279, 292-294, 371 ecc.). Anche in tali circostanze si imponeva l’idea di fare riparazione, come avvenne pochi anni fa, quando fu profanato il duomo di Milano.

Parecchie sofferenze dipendevano molto semplicemente dalla cattiva salute, in un tempo in cui la medicina disponeva di pochi mezzi per evitare queste pene: indisposizioni, malesseri, malattie, reumatismi, vampe, svenimenti, pericoli di morte, febbri terzane, languori derivanti dalla febbre, debolezza di petto, vaiolo, decessi... tutte queste realtà, così spesso nominate nelle lettere di M. Mectilde, sembra che abbiano inciso profondamente sulla sua psicologia e su quella dei suoi contemporanei. Non che si trascurasse di curare la salute (II, p. 318 ss.), di fare cure termali (II, p. 414). Ma, nonostante tutto, c’era l’idea che quella sofferenza fosse una specie di martirio (II, p. 318), se accettata generosamente. Perciò le austerità sono moderate, e si parla di «sollievo» (II, pp. 322, 352 ecc.).

Dato che tutte quelle pene facevano parte dell’esistenza, perché non dar loro un senso? In M. Mectilde non si nota nessuna compiacenza nella sofferenza; ella si oppone alla malinconia (II, p. 284). Ma quando l’occasione di soffrire si presenta senza averla cercata, un cristiano pensa a unire le proprie sofferenze a quelle di Cristo: san Paolo non manca di dire che faceva così; con quale diritto si rifiuterebbe agli spirituali del XVII secolo, o di altri tempi, di reagire nello stesso modo? D’altra parte, l’idea della riparazione non è ossessiva per M. Mectilde. Non c’è quasi nulla sulla riparazione nell’Indice del vol. II, e il III riporta solo un breve testo, ma esplicito (p. 317). L’Ufficio della riparazione, al quale si fa allusione nel voI. II (p. 371), non è quello del suo Istituto. E l’idea di riparazione riveste in lei una sfumatura differente da quella che ebbe in santa Margherita Maria Alacoque e nella tradizione che deriva da Paray-le-Monial. Per esempio, non si trova in M. Mectilde l’idea di «consolare Nostro Signore». Davanti al medesimo fatto storico delle profanazioni, due grandi anime dello stesso tempo reagiscono diversamente. Madre Mectilde ha anche delle formule nelle quali «riparare» equivale espressamente a «restaurare» la gloria dovuta a Dio da parte degli uomini, ciò che fu innanzitutto l’opera di Cristo (I, p. 22). Altrove «riparare la gloria» di Dio (II, p. 305) equivale a restaurare l’immagine di Dio nell’uomo. Questa nozione di riparazione non s’intende nel senso di una specie di compensazione di ordine psicologico che si darebbe a Dio, ma di un’opera di restaurazione: ristabilire la giusta condizione di dipendenza e di amore, nella quale l’umanità deve stare nei confronti di Dio; nulla vi è in questo che non sia fondato sulla Scrittura, come ha dimostrato recentemente un teologo chiaroveggente, che non pecca certo di sentimentalismo [7].

Se a tutte le pene già menzionate si aggiungono quelle inerenti alla stessa vita spirituale - oscurità della fede, purificazione del cuore, prove mistiche -, si comprenderà perché M. Mectilde, come tanti altri spirituali, abbia spiegato a se stessa e alle sue figlie che un cristiano, una cristiana, possa fare di se stesso una vittima volontaria a imitazione di Colui che fu, liberamente, la Vittima per eccellenza; i grandi mistici, da san Paolo ad Adriana von Speyr, hanno forse detto qualcosa di diverso? Si tratta qui di ciò che è stato paragonato a una specie di alchimia spirituale, che trasforma una sofferenza subita in una sofferenza accettata, e che permette di offrirsi spontaneamente invece di lasciarsi degradare, pur senza volerlo, dalla malattia e dalle altre debolezze inerenti alla condizione umana e alla vita di fede. In tutti questi punti, come si vede, la teologia implicita - e talvolta espressa con precisione - che si può trovare negli scritti di M. Mectilde, suppone la sua esperienza, e da essa deriva. Del resto ella utilizza un linguaggio che potrebbe sembrare moderno, benché sia altamente tradizionale, quando dice ripetutamente: «Fate esperienza ...» (II, 23, 29, 58 ecc.).

3.  Attualità del messaggio

L’ultimo esempio citato porta a suggerire alcuni punti di contatto tra l’insegnamento di M. Mectilde e talune concezioni e tendenze spirituali che emergono nuovamente nella vita della Chiesa, anche se hanno conosciuto un certo discredito durante le due o tre generazioni che hanno avuto il merito di preparare il rinnovamento della liturgia consacrato dal Concilio Vaticano II, il quale però non può porre un limite alla evoluzione della pietà.

1.  Presenza eucaristica

E’ un fatto che si osserva nella generazione dei giovani adulti di oggi: il ritorno alla devozione eucaristica. Spontaneamente e senza che nessuna legge eserciti una pressione su di loro, numerosi gruppi di laici, di religiose e di religiosi, ritornano ora all’adorazione prolungata di Gesù Cristo realmente presente nel SS. Sacramento.

Ora questa realtà della presenza è fondamentale nel pensiero di M. Mectilde, come ha ricordato un teologo, che a sua volta ne cita un altro: «Le grandi linee della sua vita furono recentemente riassunte così: “Solo quando si spezzano i legami umani, può apparire la forza dell’alleanza divina. Certo, gli uomini muoiono, delle comunità umane vengono disperse, degli esseri umani sono costretti a lasciarsi, ma Lui resta. Ecco l’asse principale della vita di Caterina de Bar. Egli rappresenta nella sua vita Colui-che-resta presente” [8]… “Alla Sua presenza corporale sotto le specie eucaristiche nel SS. Sacramento, lei risponde con una comunità di adorazione perpetua. In questa presenza vicino a Lui si dispiegano allora i molteplici aspetti dell’esperienza vissuta: adorazione e abbandono, espiazione e riparazione, ma sempre integrati e nutriti dalla Sua presenza reale”» [9]. Dopo di che, il P. Van Buytenen cita dei testi di M. Mectilde, che mettono in luce «quegli aspetti molteplici dell’esperienza vissuta» da lei.

2.  Adorazione

Questa presenza a Colui che è Presente non è che uno dei nomi con cui la tradizione ha sempre chiamato l’adorazione. Anche questa conosce un rinnovamento. Per provarlo citiamo una conferenza fatta a Parigi nel 1976 alla giovane comunità monastica di Saint-Gervais, e che fu pubblicata l’anno seguente [10]. Fu tenuta da un’irlandese, Suor Maria Dolores, priora generale delle Suore dell’Adorazione Riparatrice; il tema è «pregare davanti all’eucaristia non è darsi a una devozione particolare, ma entrare nell’universo spirituale dell’adorazione, ossia dell’incontro con Dio». Questo incontro tra Dio e l’uomo «non è cosa banale. E’ un grande mistero che prende tutto l’essere ... Nell’adorazione non si tratta di fare qualche cosa, ma di lasciare che Dio prenda tutto di noi... Gesù è il perfetto adoratore del Padre ... Adesso, vivendo glorioso nell’Eucaristia, egli è a un tempo del nostro mondo e presso il Padre» [11]. E’ noto che, attualmente, questo considerare la presenza eucaristica come anticipo e partecipazione della presenza escatologica del Risorto, è l’oggetto delle nuove riflessioni teologiche, le quali costituiscono, a loro volta, un ritorno alla tradizione, al di là dei tentativi di spiegazione, che ebbero inizio con lo sviluppo della teologia scolastica, e che quest’ultima interpretazione del resto non esclude [12].

 

« Il luogo della presenza divina» continua suor M. Dolores, non è più il Tempio, « è il Corpo di Cristo ... Per questo, noi non dobbiamo disperderci, ma calarci nel Cristo, aderire al Corpo di Cristo, e perderci nella sua adorazione...». Soprattutto se si è chiamati a consacrare tutta la vita all’adorazione, «è proprio esponendosi all’azione di Gesù che si diventa adoratori», e questo esige che si passi attraverso «un’attività di spogliamento, per molte notti oscure... Così Gesù nell’Eucaristia incomincia con l’insegnarci il silenzio pieno di adorazione e di contemplazione, grazie al quale saremo sempre più donate e più abbandonate, fìno alla fìne ...

Adorare suppone anche che ci si lasci vedere da Dio, che ci si lasci sondare da colui che conosce le nostre intime fibre… Bisogna sapere che Egli è l’amore, la gioia che l’altro sia quello che è… Difficoltà della fede e dell’intelligenza, spogliamenti successivi, conducono a lasciare che Dio prenda l’iniziativa della nostra vita... Combattimento che conduce alla pace... Quale contestazione più grande dell’Adorazione del Corpo di Cristo, nel silenzio e nella povertà, nel cuore della santa Chiesa?» [13].

 

Tutto ciò che queste frasi hanno espresso in linguaggio moderno, sarebbe facile tradurlo nella lingua del XVII secolo francese, con espressioni tratte da M. Mectilde; per esempio là dove dice che il dono dello Spirito Santo consiste nel «guardare Gesù, unirsi a Gesù, operare in Gesù» (II, p. 337); oppure quando insiste sulla partecipazione agli «stati di Gesù», come si faceva al suo tempo (II, p. 29 ecc.). La condizione è che ci si «disoccupi» (I, p. 315) di sé e delle creature; e questo stesso termine, che è usato altrove nella medesima epoca, si riallaccia a sua volta a una tradizione benedettina medioevale [14]. Di qui, l’importanza attribuita all’abbandono, alla semplicità (II, p. 286 e passim), all’obbedienza al «beneplacito» di Dio (II, p. 94). Questo modo di parlare, però, non indica affatto il capriccio di colui che comanda, come facilmente immaginerebbe la mentalità moderna; l’idea s’ispira a quella dell’approvazione, al Placet che il re dava a una decisione. E si potrebbero moltiplicare gli esempi che mostrerebbero fino a che punto l’insegnamento di M. Mectilde è vicino a quello della tradizione antica come a quello di oggi.

3.  Adorazione riparatrice

Dopo gli sviluppi del movimento liturgico del nostro secolo, il concetto di riparazione è stato talvolta presentato quale un dato derivante dalla devozione al Sacro Cuore, come fu diffusa dalla così detta «religione di Paray». Ma basta consultare una tavola pastorale della Bibbia per constatare che la parola «riparare» era già frequente nell’Antico Testamento, col significato di restituire qualcosa a qualcuno, oppure di restaurare un edificio o un oggetto - rovine, Tempio, altare - e soprattutto di espiare: in tal caso l’idea di riparazione era associata a quella di adorazione, di purificazione; essa è ugualmente connessa all’idea di compensazione, di risarcimento e di riabilitazione [15]. Ecco dunque un dato biblico ricchissimo, la cui esplicitazione ha legittimamente conosciuto molti arricchimenti nella tradizione cristiana: è normale che ogni ambiente e ogni epoca abbiano messo più o meno in luce l’una o l’altra delle sue componenti.

Recentemente un teologo, che è anche filosofo, ha pubblicato un esposto sull’adorazione riparatrice, qualificato dai suoi editori un «testo forse difficile, ma importante». Esso aveva lo scopo di rispondere a questo interrogativo: il «carisma» dell’adorazione riparatrice «non è forse “sorpassato”, legato alla mentalità di un’epoca?». Era dunque importante «situare l’adorazione eucaristica e la riparazione all’interno del complesso dell’“Eucaristia che fa la Chiesa”... I diversi aspetti del carisma della vita religiosa saranno rinnovati in tutto il loro vigore soltanto se accettiamo questa riflessione esigente. E’ un bene, del resto. che così sia affermata nella Chiesa la diversità delle vocazioni - anche all’interno della vita religiosa (e si potrebbe aggiungere: anche all’interno della vita benedettina) - e che ognuno possa vivere in dilatazione nel riconoscimento vicendevole, senza esclusivismo né rifiuto» [16].

Dobbiamo rinunciare a riassumere qui una così ampia esposizione, la cui qualità sta nella precisione del pensiero, nella densità dell’espressione, nel rigore - ossia la tecnica - del vocabolario. Basti dunque enunciarne i temi. E’ dapprima sviluppato il significato antropologico della riparazione: la riparazione, che è contemporaneamente opera dell’uomo e opera di Dio, è un modo - anzi la maniera per eccellenza - di ricreare, di riparare l’Alleanza e, per conseguenza, di adorare. Nell’Uomo-Dio, riparazione e adorazione non sono che un’unica attività, di cui l’atto supremo è la Morte-Risurrezione di Gesù. Lo Spirito fa sì che questa opera continui nella Chiesa, grazie a un processo ininterrotto di conversione. E’ legittimo che delle «vocazioni eucaristiche», esse stesse diverse e complementari, consacrino la propria esistenza a questa adorazione riparatrice, a «una vita di adorazione dell’Eucaristia, che prende tutto il tempo e si dispiega nello spazio eucaristico [17]… Si tratta - come per Gesù e la Chiesa - di testimoniare che adorazione di Dio e riparazione dell’uomo, riparazione dell’offesa fatta a Dio e ri-creazione dell’uomo, sono legate nell’Eucaristia. Questa adorazione eucaristica ha lo stesso significato della celebrazione» [18].

Anche sotto tutti questi aspetti, uno studio minuzioso di tutti i testi nei quali M. Mectilde ha parlato dell’Eucaristia permetterebbe di paragonare il suo pensiero con quello della tradizione, che va dalla Scrittura ai teologi odierni, di collocarla al suo posto, di percepirne sia le ricchezze che i limiti. Tutto resta da fare in questo campo. Ma si può star sicuri che lo sforzo non sarebbe senza ricompensa.

 

 

* * *

 

 

Altri aspetti dell’opera di M. Mectilde potrebbero ancora essere proposti allo studio, e anche all’ammirazione dei lettori di oggi, sia per il loro interesse dottrinale che per la loro attualità.

Per esempio, ai nostri giorni si parla e si scrive molto su quello che certi antichi chiamavano la paternità spirituale e che una terminologia recente ha designato col nome di «direzione spirituale». Si tratta, in realtà, dell’arte di consigliare e di guidare o, più esattamente, di aiutare gli altri a lasciarsi consigliare e guidare dallo Spirito di Dio, senza che nessun intermediario umano possa imporre le sue vedute personali: tutto al contrario, il suo ruolo è quello di stimolare la libertà dell’altro. Questa forma di carità altamente tradizionale rischia a volte oggi di trasformarsi in una specie di dipendenza incondizionata, che sarebbe l’opposto del suo vero scopo. Ecco perché attualmente è oggetto di attenzione da parte di storici e teologi [19].

Non sarebbe privo di interesse interrogare su questo punto M. Mectilde. Come molti grandi spirituali di tutti i tempi, e specialmente del XVII secolo, ella inviò una quantità sbalorditiva di lettere. Rancé fece lo stesso, e negli Archivi della Grande Trappa vi sono voluminosi manoscritti che contengono le sue migliori lettere, nella maggior parte inedite [20]. Per M. Mectilde, sarebbe il caso di distinguere il modo con cui tratta di problemi spirituali con i laici - generalmente dei nobili - e con le monache. Verso tutte, ella è abitualmente ammirativa e incoraggiante; ma quando lo giudica necessario, sa essere ferma ed esigente (per esempio: II, pp. 295, 309, 378-379, ecc.). Anche in questi casi, però, conclude con una esortazione alla pace interiore. Parla chiaro con tutte, anche con una gran dama tanto elevata come la Duchessa d’Orléans. Le lettere indirizzate a questa sembrano un po’ più curate e ricercate di quelle destinate a semplici religiose. Un esame minuzioso di tutti questi testi darebbe molta luce, tanto su M. Mectilde che sui diversi ambienti coi quali era in relazione. Così, in tanti modi, l’importante documento che costituisce la sua opera scritta permetterebbe di darle il posto che le spetta in una tradizione viva, della quale i periodi antichi o quelli del XIX e XX secolo fanno a volte dimenticare che, nella storia benedettina, il XVII secolo fu ugualmente un gran secolo.

 

 

Jean Leclercq

 

Abbaye de Clervaux

 

 



*  Tradotto da Studia Monastica, vol. 20, fasc. 2, Abadia de Montserrat 1978.

[1]  Catherine de Bar, 1614-1698 ... Mechtilde du Saint-Sacrement. Document biographique. Ecrits spirituels, 1610-1670, éd. Bénédictines du Saint-Sacrement (14 Rue Bourg l’Abbé, 76.000 - Rouen, France), 1973.

[2]  Sotto il titolo Une école de spiritualité bénédictine datant du XVIIe siècle: les Béénédictines de l’Adoration perpétuelle, in Studia Monastica, 18 (1976), pp. 433-452, ho presentato questo primo volume, che qui sarà designato con l’abbreviazione: I.

[3]  Catherine de Bar. Mère Mechtilde du Saint-Sacrement. Lettres inédites, Rouen (stesso indirizzo) 1976; qui sarà designato con: II. Catherine de Bar. Fondatrice des Bénédictines du Saint-Sacrement. 1614-1678. Fondation de Rouen, Rouen 1977; designato qui con: III.

[4]  Ved. Supplément de la vie spirituelle, I (1947), pp. 291-307, sotto il titolo La royauté du Christ dans la spiritualité française du XVIIe siècle.

[5]  Une école de spiritualité, art. cit., p. 437, con bibliografia.

[6]  Ne danno testimonianza i fatti raccolti da PH. SCHMITZ, Histoire de l’Ordre de Saint-Benoît.

[7]  Ved. la nota 8.

[8]  C. VAN BUYTENEN, S. J., Eucharistisch leven - een kwestie van groei. De Spiritualiteit van Catherine de Bar, in Communio International Katoliek Tjdschrift, 2 (1977), n. 5, p. 387; egli stesso cita DR. P. PENNING DE VRIES, S. J., Moeder Mechtildis van het Heilig Sakrament, Uitgave Priorij Nazareth, Tegelen 1976, p. 2.

[9]  C. VAN BUYTENEN, art. cit., p. 388, che cita ancora il P. PENNING, art. cit., p. 2.

[10]  Adorer en esprit et en vérité, in Communio, II (1977), pp. 74-80.

[11]  Ibid., pp. 74-76.

[12]  G. MARTELET, The Risen Christ and the Eucharistic World, New York 1976; Identité du message évangélique et changements dans les expressions doctrinales: Résurrection et Eucharistie, in Nouvelle Revue Théologique, 98 (1976), pp. 769-783.

[13]  SR. M. DOLORES, art. cit., pp. 76-80.

[14]  JEAN ChrysostÔme DE SAINT-LÔ, O.F.M., La désoccupation des créatures et l’occupation de Dieu seul, Paris 1651, citato ne La spiritualité de Pierre de Celle (1115-1183), Paris 1946, p. 85.

[15]  G. PASSELECQ - F. POSWICK, Table pastorale de la Bible, Paris 1974, alle parole Réparer Réparation.

[16]  Nota della Redazione, posta a capo dell’articolo di G. CHAPELLE, S. J., L’adoration eucharistique et la réparation, in Vie consacrée, 46 (1974), p. 338; l’articolo è nelle pp. 338-354.

[17]  Per esempio, nel senso con cui M. Mectilde parla di «adorazione attuale»: ogni attimo di vita, anche della vita ordinaria, è offerto, intenzionalmente, come atto di adorazione (N.d.r.).

[18]  G. CHAPELLE, art. cit., p. 354.

[19]  Per esempio, ha avuto luogo, su questo argomento, un vasto colloquio nell’abbazia cistercense di New Clairvaux in California, nel giugno 1978; gli atti saranno editi ben presto da Cistercian Publications, Kalamazoo, Michigan. Il P. Chrisogonus Waddell vi ha fatto un esposto su Rancé come guida spirituale.

[20]  Un inventario di circa 1500 lettere di Rancé, conservate nella Grande Trappa, è stato fatto da R. TOURNOUER, Bibliographie et iconographie de la Maison-Dieu Notre-Dame de la Trappe, Mortagne 1905, II, pp. 198-423. Alle relazioni di M. Mectilde con Dom Louis Quinet, cistercense della Stretta Osservanza, è stato consacrato un capitolo da G. - A. SIMON, Dom Louis Quinet, Abbé de Barbery (1595-1665), Caen 1927, pagine 37-47.