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Deus absconditus, anno 102, n. 3, Luglio-Settembre 2011, pp. 57-66

 

 

La “teologia” del costato di Cristo:

tracce mistiche nella spiritualità di Mectilde de Bar

 

La “teologia” del costato di Cristo da sempre ha trovato fertile campo nell’esperienza mistica, soprattutto in quella spiritualità che si fa contemplazione del Verbo incarnato, del Cristo vero Dio e vero Uomo che, proprio per la sua Umanità, ci apre un largo accesso alla sua Divinità. Per diversi mistici la porta d’ingresso è spesso ritrovata nelle piaghe del Crocifisso, specialmente in quella del costato. Entrare in queste “aperture” è ripercorrere l’esperienza della sposa del Cantico, della colomba che si nasconde, quasi in un amplesso amoroso, nelle fenditure della roccia (Ct 2,14), ridestando l’immagine tanto cara alla simbologia cristiana del pellicano che, in mancanza di cibo, si squarcia il petto per nutrire con il suo sangue i suoi piccini. Scrive Mectilde de Bar alla Duchessa Margherita d’Orléans: «È Gesù l’unico del vostro cuore che vi sostiene e che vi anima del suo Spirito e vi attira tutta a sé, attraverso la sua divina operazione, nel segreto del vostro intimo, che vale per voi come luogo di ritiro e solitudine, nell’attesa che vi separi interamente dalle creature. Egli conosce quali sono i più teneri sentimenti del vostro cuore e che esso ha già spiccato il volo verso le cavità della roccia, che sono le piaghe adorabili dell’umanità santa di Gesù, e [che restate] in quelle preziose caverne in cui gemete senza posa dopo aver goduto di Colui che ha ferito il vostro cuore con le frecce del suo divino amore»[1].

Anche madre Mectilde, dunque, sentiva molto questa spiritualità che, alimentata dalla meditazione della passione e morte di Gesù, si apriva ad una esistenza “pasquale” caratterizzata dall’imitazione di Cristo. Immedesimarsi con i dolori del Salvatore non è mai, nei mistici, lacrimoso devozionismo, bensì lucida e realistica contemplazione di un Amore immenso, quello divino, e coscienza della risposta dell’uomo fragile e impastato di peccato. La contrizione del cuore e il dono delle lacrime erano, specie per i Padri del monachesimo, fattiva e feconda revisione di vita in un serio cammino di conversione illuminato dalla Grazia.

In un colloquio familiare con le sue figlie, nell’aprile del 1694, madre Mectilde raccontò che, anni prima, in un giorno in cui faceva il ritiro di riparazione, consapevole della sua realtà di peccatrice si sentì smarrita, ma fu presto consolata da una voce interiore che le disse: «Poiché tu hai ferito il tuo Dio oltraggiandolo e gli hai fatto delle piaghe con i tuoi peccati, nasconditi in quelle stesse piaghe che i tuoi peccati hanno fatto: vi troverai la tua guarigione, la tua salvezza e infine troverai la vita in ciò che ti aveva dato la morte.

Le piaghe sotto i piedi di Nostro Signore sono le mie preferite: vi si può rimanere sempre, poiché vi si sta ben nascoste, separate da tutto e Nostro Signore ci sopporta ed è contento di vederci là. E la piaga del costato? – le si chiese. Rispose: Vi si può andare talvolta, ma per rimanervi sempre occorrono anime ben purificate, del tutto separate da se medesime e da ogni creatura, poiché quella piaga è una fornace che consuma incessantemente. Occorre amare di puro amore, altrimenti non vi si può rimanere»[2]. E alla Madre Benoîte de la Passion scriveva nel 1641: «Mia reverendissima e carissima madre, la divina lancia che ha trapassato il Cuore adorabile di Gesù ferisca il vostro e lo consumi coi suoi divini e amorosi ardori»[3].    

È davvero commovente questa tenerezza, drammatica certo, verso l’umanità di Cristo, una umanità umiliata, fatta peccato per amore, ma una umanità glorificata dal “passaggio” dalla morte alla vita che Cristo ci ha fatto fare, in lui, donandosi nella totalità di tutto se stesso. San Bernardo, autore tanto amato da madre Mectilde, scriveva: «Dove trovare per i deboli una sicura garanzia di salvezza e un’incrollabile pace, se non nelle piaghe del Salvatore? In esse mi rifugio, tanto più sicuro quanto più egli è potente per salvarmi. Il mondo si agita, il corpo fa sentire il suo peso, il demonio insidia: non cado, perché sono stabilito sulla roccia perché mi ricorderò delle piaghe del Signore. Infatti, “è stato trafitto per i nostri delitti” […] Io fiduciosamente mi approprio di quel che mi manca dalle viscere di Cristo, perché sono ricche di misericordia, e in esse non mancano aperture dalle quali può scaturire»[4]. Questo delle piaghe di Cristo era un tema tanto caro alla tradizione monastica, come appunto abbiamo visto in San Bernardo, e quindi familiare a madre Mectilde la quale, però, è debitrice anche ad alcune grandi mistiche delle quali aveva letto gli scritti. Tra queste spiccano soprattutto, per l’affinità dei temi, Santa Caterina da Genova (1447-1510) e Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), entrambe citate dalla nostra Fondatrice in alcune sue conferenze. Del resto, come ci informa Papasogli, molti spirituali italiani ebbero una grande influenza in Francia[5] e la stessa madre Mectilde vi attinse a piene mani. Scrive Santa Caterina da Genova: «Tutto il bene è solo in Dio. Io non mi quieterò fintanto non sia rinchiusa in quel Divino petto, dove si perdono tutte le forme create e così perdute restano poi divine, perché diversamente non può trovare pace il vero e puro amore»[6]. È ancora nella dimensione di un amore puro che le piaghe di Cristo, specie quella del costato, sono considerate come una fonte di rigenerazione dove, tolte le scorie del peccato, l’anima è unita talmente a Dio da perdersi in lui. Di qui il suo grido di stupore: «Ma Tu, Signore, hai tanto amato l’uomo, facendoti Tu servo, come se l’uomo fosse il padrone del tuo Cuore!»[7]. Inconfondibile è l’eco del bellissimo inno che San Paolo ha consegnato ai Filippesi (2,6-7), l’esaltazione del Cristo che non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio sino ad assumere la forma di servo e facendosi obbediente sino alla morte di croce. Ecco perché madre Mectilde ci invita ad «adorare le sue piaghe sanguinanti e quasi morire di amore, contemplando la ferita del suo Cuore adorabile, oppure stare ai suoi piedi come la Maddalena»[8]. In fondo tutta la nostra spiritualità benedettino-eucaristica non è altro che un vivere in noi l’annientamento di Cristo come sublime dono di umiltà e di amore, è un lasciarci trasformare in dono di comunione per tutti. Nelle piaghe ci si nasconde per ricevere una vita nuova in Cristo, ma per poi aprirci agli altri, senza rimanere chiuse in noi stesse. È quanto, con immagini davvero ardite di donna innamorata, scrive la carmelitana Santa Maddalena de’ Pazzi che era solita chiamare Gesù con il drammatico appellativo di “Agnello svenato”: «Dobbiamo metter la bocca al costato dell’inchiovellato Verbo, ovvero alla sua bocca, e considerarlo come capo nostro; e da queste mammelle attrarre la compassione verso tutti i suoi membri che sono le creature»[9].

Cristo è il mediatore, il pontefice, cioè colui che fa da ponte tra la terra e il cielo. Così ce lo presenta anche Santa Caterina da Siena (1347-1380) alla cui scuola si erano abbeverate Santa Caterina da Genova e soprattutto Santa Maddalena de’ Pazzi. Non è improbabile che madre Mectilde avesse una buona conoscenza anche di questa terziaria domenicana, oggi Dottore della Chiesa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, la Santa di Siena riporta la rivelazione in cui le vien detto che per salire alla contemplazione di Dio «il primo scalone sono i piedi, che significano l’affetto; perché come i piedi portano il corpo, così l’affetto porta l’anima. I piedi confitti ti sono scala acciocché tu possa giungere al costato, il quale ti manifesta il segreto del cuore. Salita sui piedi dell’amore, l’anima comincia a gustare l’affetto del cuore, ponendo l’occhio dell’intelletto nel cuore aperto al mio Figlio, dove trova consumato e ineffabile amore»[10] perché, come ribadisce madre Mectilde, «Gesù Cristo è tutto ciò che noi possiamo attendere dalla carità immensa di Dio e tutto ciò che Dio attende ed esige da noi […] Tutto è racchiuso in Gesù Cristo suo Figlio, in modo tale che possiamo giungervi solo nella misura in cui siamo membra vive di Gesù Cristo, incorporati alla sua umanità deificata, vivendo della sua vita e del suo spirito. Dio ci ha resi partecipi della sua natura divina […] Dio ci ha chiamati a vivere in lui la vita santa e felice che egli vive in se stesso; ma non possiamo viverne che per mezzo di Gesù Cristo e come sue membra; e l’apostolo Paolo ci dice una volta che siamo morti e che la nostra vita è nascosta con Gesù Cristo in Dio, un’altra volta che viviamo  per Dio e in Dio in Cristo Gesù, e mille cose simili che confermano questa verità»[11]. È quanto affermato anche da Santa Maddalena de’ Pazzi: «C’è un vasello dove si può intingere, dico che c’è il corpo del nostro umanato Verbo pieno di innumerevoli piaghe, dove ci possiamo ascondere e attrarre ogni dolcezza»[12]. Di Santa Caterina da Genova si dice che «quando il raggio d’amore ferì la sua anima, in un istante essa vide e sentì un certo fuoco d’amore uscire dalla Divina Fonte. Questo fuoco d’amore la fece restare a quel punto fuori di sé, senza intelletto, senza lingua e senza sentimento. In quell’amore puro e semplice, come Dio le mostrò, restò tutta presa, né mai più quella visione le uscì dalla mente, ma sempre vedeva quel puro Amore rivolto verso di lei […] Restò poi talmente unita a quel raggio che mai più, nell’anima di lei, poté penetrare alcuna cosa all’infuori di Dio»[13].

Infine, una sintesi di quanto si è detto sul tema delle piaghe e del mistero della Redenzione, la chiediamo ancora a madre Mectilde che ci invita a pregare così: «O eccesso, o bontà, o amore infinito, o carità troppo grande! O mio Salvatore, voi soffrite che i miei peccati vi facciano innumerevoli ferite senza lamentarvi! E dopo aver così ferito la vostra santa umanità, mi dite di entrare nelle sue dolorose e deliziosamente amorose aperture per trovarvi un asilo e il mio luogo di difesa contro la giusta collera del Padre vostro; e come se voi foste insensibile ai vostri dolori, mi dite tanto amorosamente di dimorare nelle vostre sacre piaghe, di nascondermi in quelle divine caverne, di restare là come perduta…O eccesso, o amore! Ecco il linguaggio che voi tenete all’anima colpevole che dovrebbe annegare nelle lacrime di una sincera contrizione e di un amore che divori cuore e vita! O Gesù, voi siete il Salvatore dei peccatori, voi siete Colui a cui io devo tutto! Fatemi la misericordia di non uscire mai da queste adorabili ferite che i miei peccati e il vostro amore vi hanno fatto! Che la mia anima vi sia immersa così profondamente da non poterne mai uscire, che il vostro prezioso sangue la purifichi, e il vostro amore la consumi in voi per non più apparire fuori di voi. Amen»[14].

Perché non fare anche noi questa totalizzante e misteriosa esperienza di immersione? Le piaghe di Cristo sono aperte anche per noi!

 

Suor Maria Cecilia La Mela

 

 



[1] Testo di madre Mectilde de Bar citato da Suor Annamaria Valli con accurato commento nella lezione di “Scuola di cultura monastica” (Milano, 8/5/2000) relativamente al tema La mistagogia per il tempo di Quaresima e la Pasqua e disponibile in dispensa.

[2] C. M. de Bar, Colloqui familiari, Alatri 1987, pp. 30-31.

[3] C. M. de Bar, Non date tregua a Dio. Lettera alle monache 1641-1697, Jaca Book, Milano 1979, p. 47.

[4] Bernardo di Chiaravalle, Discorsi sul Cantico dei Cantici, 61,3.

[5] Cfr B. Papasogli, Gli spirituali italiani e il Grand Siècle, Roma 1983.

[6] Caterina da Genova, Vita, 14.

[7] Ibidem, 3.

[8] C. M. de Bar, Il vero spirito, Ronco-Ghiffa 1980, p. 51.

[9] Maddalena de’ Pazzi, Probatione, 2,176.

[10] Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, Cantagalli, Siena 1998, p. 72.

[11] C. M. de Bar, Attesa di Dio. Riflessioni sulla Regola di San Benedetto, Jaca Book, Milano 1981, pp. 65-66.

[12] Maddalena de’ Pazzi, Lettera a suor Veronica di Cortona.

[13] clara Balduzzi, Il soprannaturale in Santa Caterina da Genova, Edizioni Segno, Udine 1992, p. 58.

[14] Testo citato in: Veronique Andral, Catherine Mectilde de Bar. I. Un carisma nella tradizione ecclesiale e monastica, Città Nuova, Roma 1988, pp. 132-133.