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Deus absconditus, anno 94, n. 4, Ottobre-Dicembre 2003, pp. 47-49

 

 

Sr. M. Cecilia La Mela osb ap Monaca del Monastero «San Benedetto» di Catania.

Fede speculativa e fede pratica in Mectilde de Bar

Il 1600 è il secolo d’oro della spiritualità francese incorniciato in un periodo di grandi cambiamenti storici e religiosi: basti pensare ai movimenti protestanti e alle guerre di religione. Ma è anche un tempo fecondo dal punto di vista letterario e filosofico: Bacone, Campanella, Hobbes, Spinoza, Cartesio, Pascal, Shakespeare, Molière, Racine e ancora la scienza: Galileo, Torricelli, Newton. Sono tutti contemporanei di Madre Mectilde e, alcuni di loro, soprattutto i francesi, hanno certamente determinato la sua formazione culturale tanto è vero che, oltre all’influenza dei grandi spirituali: Bernières, Bérulle, Francesco di Sales, Eudes, ci sono tematiche che portano tracce della riflessione speculativa del tempo.

Il nostro non è un semplice elenco di nomi, ma è una inquadratura più ampia del periodo in cui visse Madre Mectilde e che fa da substrato alla sua esperienza religiosa e alla fondazione del nostro Istituto.

Siamo in un secolo che già prepara molto da vicino l’Illuminismo e si pone come ponte tra la pietà religiosa, spesso sentimentale, e la riflessione razionale sull’uomo e sul mondo.

Madre Mectilde, con grande intuito e profonda saggezza, riesce a conciliare le varie correnti ideologiche e a impostare una sua meditazione che è coerente alle direttive della Chiesa sancite dal Concilio di Trento. Le sue opere sono un vero gioiello di mediazione e di equilibrio e, lette con attenzione, ci svelano una ricchezza di pensiero veramente eccezionale.

Nel capitolo del 17 dicembre 1671, ella espone un vero e proprio trattato sulla fede, distinguendo una fede speculativa e una pratica.

«La fede è necessaria poiché ci introduce nei misteri; senza fede, non vi saremo ammesse» [1].

C’è qui una prima osservazione da fare. Madre Mectilde era una donna colta ed entrava spesso in relazione con numerose persone di varie estrazioni sociali soprattutto con le cosiddette «menti illuminate» dei salotti parigini. Anche in monastero arrivava l’eco della cultura dominante che lei, sapientemente sapeva valutare e discernere. Non ci sembra azzardato, dunque, ritenere che vi sia in queste parole una difesa silenziosa ma acuta della religione messa in discussione dalla mentalità materialista e dal rigorismo scientifico che, in quegli anni, andava diffondendosi. Forse questo spiega perché, nella Giornata religiosa, a proposito del parlatorio, ella caldamente raccomanda alle sue monache di non favorire discorsi che introducono la mentalità del mondo, né tanto meno, di fare in monastero una risonanza di essi col rischio di turbare le consorelle.                                                       .

Continuando il suo discorso, Madre Mectilde afferma che vi sono due specie di fede: una fede speculativa e una fede pratica. «La fede speculativa senza la fede pratica, non ci salverà» [2].

La fede speculativa potrebbe essere accostata alle idee innate di cui parla Cartesio, quelle idee che, cioè, ritroviamo in noi a partire dalla stessa coscienza e che non sono contaminate dalle idee avventizie che vengono dall’esterno e che tuttavia, possono influenzarle. La fede, per Mectilde de Bar, è un dono ed è speculativa proprio perché prescinde da noi. Nel testo sopra citato speculativa è intesa nel senso di teorico, di astratto, ma non arbitrario. La fede pratica che non si contrappone a quella speculativa ma ne è l’esplicazione, la verifica, potremmo dire, è la pratica della fede, ossia la verifica di quello che crediamo incarnandolo nelle situazioni concrete della vita.

«Credere Dio presente nel Santissimo Sacramento è una fede tutta divina che ci fa vedere e conoscere un Dio povero, abbassato, annientato, che si riduce sotto un poco di pane per venire a noi ed essere da noi mangiato. Quali grandi misteri ci rivela la fede! Esiste però una fede difettosa, come quella dei demoni che credono e non fanno; a cosa ci servirà credere se non mettiamo in pratica ciò che crediamo? Dobbiamo esercitarci in una fede pratica» [3].

Questa duplice sfaccettatura della fede, in un certo senso, è ciò che Pascal, profondamente cristiano, in termini filosofici chiama «esprit de géométrie« ed «esprit de finesse». Il primo riguarda i principi, l’intuizione, il secondo ci permette di cogliere praticamente questi principi e cogliere la ricchezza e la profondità della vita. Nell’esprit de finesse la conoscenza non la si insegna ma la si sperimenta. Ecco che Madre Mectilde ci vuole dire che la fede senza le opere non ha senso. Lo stesso concetto si ritrova nelle lettere di San Giacomo. Ma c’è una polarità di significati da cogliere nel passaggio dalla fede speculativa a quella pratica. La fede pratica è l’esternazione di quello che si crede, è l’appercezione direbbe Leibniz, di quello che si percepisce in base al dono della  fede mutuato dalle nostre categorie mentali che sono relative all’influenza familiare, ambientale e di formazione. Ora la fede richiede una pratica che la rende valida. Questa è la prima valenza: se crediamo una cosa dobbiamo necessariamente ritenerla reale nella nostra esperienza di vita, tenendo sempre conto che la fede supera l’evidenza e la razionalità, cosa che invece non ammettevano gli illuministi.

L’altro significato che possiamo rintracciare in questa conferenza di Madre Mectilde è il risvolto vitale che la fede opera nell’esperienza del credente. La Madre Fondatrice sembra dirci che nel momento della prova, lì effettivamente dobbiamo dimostrare la nostra fede. Quando occasioni particolari, come ad esempio la sofferenza o l’incomprensione o la malattia, ci mettono alla prova, dobbiamo essere coerenti con quello che, in tempi migliori, proclamavamo come verità di fede. Non solo, dunque, riprendendo lo stesso esempio che fa la Madre, dobbiamo effettivamente credere che Gesù è presente nel SS. Sacramento e quindi rapportarci con lui nella praticità di un rapporto reale, ma anche credere che, nella notte oscura, nei momenti di aridità e di ateismo mentale, questa presenza non viene mai meno e il nostro ardore e la nostra fede dovrebbero essere ugualmente consoni a quanto sentivamo e professavamo nei momenti di trasporto e di fervore.

Questo discorso sulla fede speculativa e la fede pratica vuole insegnarci la coerenza tra i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti: tra il dire e il fare, tra l’essere e il volere. Tutto ciò ha come risvolto quella serenità d’animo che, anche nei momenti più difficili, mantiene la costanza dell’umore e non si scoraggia perché sa che il Dio in cui crede è un Dio che realmente opera nella sua vita, circondando di misericordia e di grazia proprio i momenti in cui la fede pratica sembra smentire la fede speculativa.

 



[1] Catherine Mectilde de Bar, L’anno liturgico, ed. Glossa, Milano 1997, p. 60.

[2] Ivi.

[3] Ivi.