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Deus absconditus, anno 96, n. 3, Luglio-Settembre 2005, pp. 39-42

 

Sr. Maria Cecilia La Mela osb ap*

Analisi della tristezza in una lettera di Madre Mectilde de Bar

La lettera in questione è del 4 marzo 1678[1]. Madre Mectilde de Bar scrive ad una religiosa di Rouen infondendole una buona dose di incoraggiamento. È un testo di media lunghezza ma presenta una incisività davvero ammirevole. Madre Mectilde è una donna che misura bene ogni parola e, sulle sue doti letterarie e oratorie, non c’è che dire. Il corpus della lettera presenta, potremmo dire, un’espansione concentrica, una sorta di spirale che aggira prima il problema e poi lo mette a fuoco in modo chiaro e deciso. Come in ogni lettera, anche in questa è possibile rintracciare la sapiente e materna pedagogia della nostra Fondatrice. La capacità di cogliere e smascherare i difetti, anche se ben celati dietro un’apparenza di zelo e perfezione, fa di madre Mectilde una vera psicologa, una indagatrice accorta e benevola che adopera le sue intuizioni umane e spirituali per il bene delle sue figlie e delle persone da lei dirette.

«Non vi preoccupate di spiegarmi i motivi del vostro dolore, mia carissima figlia. Io lo vedo e lo capisco abbastanza, ma col dispiacere di non poterlo consolare col mio sollecito ritorno».

È questo l’inizio della missiva: la Madre si mette dalla parte di questa figlia che, precedentemente, le aveva scritto per sfogare una sua grande pena interiore. Partendo con il darle ragione, la Madre le chiede di avere pazienza, di aspettare cioè il suo ritorno, senz’altro per parlarne con più agio e verificare quanto stava succedendo “di brutto” durante la sua assenza. Infatti prosegue:

«Spero tuttavia che ci rivedremo prima del mese di ottobre o subito dopo, poiché sono tutti d’accordo sulla necessità del mio ritorno perché non abbandoni l’opera di Dio, né le vostre care persone; per cui mi affretto a pregarvi tutte di risollevare il vostro coraggio».

Sembra di sentire tutta l’ansia di san Paolo per le chiese da lui fondate e che esortava, incoraggiava, rinsaldava in sua assenza con il sostegno delle sue lettere. Qui madre Mectilde, passando dal singolare al plurale, infonde ancora coraggio alla sua destinataria, le fa cioè percepire che non è la sola a soffrire, che tutta la comunità sta attraversando un momento di prova e di incertezza. È implicita l’esortazione alla Religiosa a non ripiegarsi sulle sue difficoltà, ma a farsi carico di quelle delle altre. C’è anche da dire che la Madre, con grande prudenza, fa una buona dose di sconto a quanto la religiosa le avrà sicuramente raccontato nella lettera-sfogo. Sia perché chi vede solo il proprio dolore è portato ad esagerarlo, e quindi la Madre prende il necessario distacco, sia perché per dare coraggio ella tende a sdrammatizzare il problema per non affossare ancora di più chi è nella prova.

Ed ecco che si arriva ad una maggiore chiarezza riprendendo l’uso del singolare:

«Cercherò di consolarvi con qualche cambiamento, ma nell’attesa, nel nome e per amore di nostro Signore Gesù Cristo nel sacro mistero del suo amore, fatevi coraggio e cercate di edificare l’opera di Dio. Oso assicurarvi da parte sua che, restando ai suoi piedi, non perirete».

Ecco la risposta a ciò che la religiosa aveva chiesto a madre Mectilde. Di certo, però, non era quella che si aspettava o che avrebbe desiderato ricevere, ne è prova la ripetuta supplica che fa la Madre di abbandonarsi alla volontà di Dio, di pregare e avere pazienza. È solenne il ricorso al nome e all’amore di Gesù Cristo: vi è allusione al SS. Sacramento con la duplice ripetizione del vocabolo amore in rapporto al sacrificio eucaristico appunto. Segue l’esortazione ad affidarsi alla Madonna per combattere le tentazioni del demonio. Tutta la lettera è intrisa di verbi che hanno attinenza con la consolazione, la rassicurazione e ancora vocaboli di coraggio e numerosi avverbi esortativi.

Ed eccoci al cuore della lettera, una specie di bollettino medico che madre Mectilde presenta alla sua “assistita”. Con garbo e un certo tatto le dice la verità, dopo averla preparata gradualmente ad accettarla, con la speranza che il colpo, attutito da una certa preparazione psicologica, colga il segno con profitto:

«Voi sapete che quello sciagurato nemico [il demonio] fa di tutto per farci cadere in qualche eccesso. Ora la tristezza è il suo nido, ove egli gioca il suo gioco per farci perire, poiché la tristezza ci rende incapaci della vera luce, dato che ci immerge in orribili tenebre; essa fa dimenticare Dio e i suoi santi, e rende l’anima incapace di alcun bene».

La diagnosi è chiara: con termine moderno possiamo ben dire che si tratta di depressione, madre Mectilde si spinge sin alla radice. È bene notare la ripetizione tematica ‘gioca il suo gioco’: verbo e sostantivo usati come rafforzativi proprio per evidenziare che la tristezza, come i motivi che l’hanno prodotta, non sono altro che illusioni diaboliche. Non è la tristezza salutare scaturita, ad esempio, da una forte contrizione per i propri peccati, né quella santa che ci fa piangere per gli oltraggi che Gesù o i nostri fratelli subiscono dalla cattiveria di alcuni uomini, né una certa malinconia legata a motivi vari; qui si tratta di quel male sottile che i padri del deserto prendevano sempre di mira: l’accidia. È quella sorta di indolenza, di pigrizia, spesso camuffata da zelo, da buona volontà, ma che misura a partire dalle proprie forze, dalle proprie aspettative, dalle aspirazioni e desideri personali e non da una reale conformità al volere divino. Anche San Benedetto nella Regola parla di una tristezza negativa: i sarabaiti sono una “tristissima” specie di monaci (cap. 1°); l’abate deve avere premura che coloro che sono scomunicati non siano sommersi da eccessiva tristezza (cap. 27°), e ancora, l’ozio tanto deprecato al cap. 48° non è, in fondo, una forma di accidia che, a lungo andare, mette irrequietezza e triste insoddisfazione nel cuore del monaco?

Ecco la soluzione proposta da Mectilde de Bar. Non è una soluzione teorica, non un consiglio dettato a tavolino, è la consegna di una esperienza, la soluzione trovata da chi ha dovuto fare i conti con questo terribile tipo di tentazioni.

«Dovete quindi combatterla e confessarvene quando vi sarete abbandonata ad essa, come pure quando vi preoccupate e accasciate troppo per la mia assenza».

Il primo passo da fare, consiglia l’esperta, è riconoscere il male, togliere le maschere, debellare forme apparentemente buone di giustificazioni quali, ad esempio, l’assenza della Madre. Riconoscere che la tristezza nasconde in realtà inquietudini di altro tipo è già il primo passo in avanti. Occorre chiedere aiuti esterni, la Madre consiglia la confessione, la direzione spirituale, ma la soluzione vincente è quella suggerita all’inizio della lettera: restare ai piedi di Dio, unire il proprio travaglio al sacrificio eucaristico, confidare nella intercessione della Vergine Maria. Questo restare ai piedi richiama molto la stabilitas monastica, quella saldezza interiore che ci rende stabili anche nel luogo in cui ci troviamo. Ed ecco la delicata, ma non meno lucida e severa, denuncia del vero male che affligge questa religiosa:

«Siate dunque un po’ più generosa con Dio. Lo siete tanto per natura con le creature: sarebbe per voi una vergogna eterna che non lo foste almeno altrettanto con Dio».

Qui la Madre tocca i vertici della sua saggezza e della sua lungimiranza. Ha scovato l’infe-zione nascosta che è causa di tanto male. Questa religiosa è davvero buona e generosa, ma lo è per natura, per carattere. In lei, tuttavia, non è scattata la molla dell’amore oblativo, della donazione disinteressata: ecco la causa della sua tristezza! Se fosse stata generosa con Dio, ma in un certo senso anche verso le sue consorelle, non avrebbe chiesto quei cambiamenti che Madre Mectilde le ha annunciato che farà al suo ritorno. Chissà che l’attendere il proprio ritorno non sia un modo per temporeggiare e poi, di presenza, far capire che quei cambiamenti sono arbitrari, dettati cioè dalle necessità della religiosa e non dalla volontà di Dio e dall’effettivo bisogno della comunità. C’è da sottolineare quell’avverbio di modo, “almeno”, una specie di sospiro esortativo, quasi una supplica, l’accorato appello alla coscienza della religiosa: dia tutto di sé, ma con gioia, e troverà in questo il suo vero appagamento.

Ecco la conclusione prima del commiato:

«Coraggio dunque, mia cara figliola; saluto e abbraccio le care N.N. nell’attesa di poter loro scrivere. Le prego di non essere deboli come voi; e la cara N. non mi ha affatto offesa con la sua lettera. Per grazia di Dio, sono capace di comprendere certi sfoghi: essi scaturiscono da quel fondo di dolore che bisogna inabissare del tutto in Dio».

È tenerissimo l’appellativo “figliola”: Madre Mectilde vuol fare percepire alla figlia spirituale il bene soprannaturale che la anima. Se avesse assecondato lo sfogo di quella religiosa, se l’avesse commiserata, le avrebbe fatto un torto immenso. Chi ama l’altro sa come dirgli la verità, senza ferirlo, senza umiliarlo, ma sostenendolo con grande misericordia e carità. E infine, la battuta circa le altre due religiose e l’accenno alla debolezza della destinataria della lettera. Davvero la Madre sa essere severa ma con un candore e una semplicità che disarmano chi le riceve. Ella sa che tutte portiamo un fondo di debolezza, di dolore, ma se lo affidiamo a Dio, inabissandolo in Lui, non è più un fondo da cui non si possa risalire, anzi, esso diventa il nostro tesoro perché ci fa percepire quello che realmente siamo e come tutto dobbiamo sperare dall’amore misericordioso del Padre.

 



* Monaca del Monastero “San Benedetto” di Catania.

[1] Catherine Mectilde de Bar, Non date Tregua a Dio. Lettere alle monache 1641-1697, ed. Jaca Book, Milano 1978, p. 149.