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Deus absconditus, anno 98, n. 1, Gennaio-Marzo 2007, pp. 19-22

 

Sr. M. Cecilia La Mela osb ap

Riparazione – consumazione
in madre Mectilde de Bar

Un distintivo caratteristico e particolare del nostro Istituto è la fedeltà allo spirito, al carisma che la Madre Fondatrice ha voluto imprimere alla sua opera! La spiritualità oblativa della riparazione è parte integrante della rivelazione biblico - cristiana ed è la specificità che esplicita il nostro essere benedettine adoratrici. Essa, nata da circostanze storiche, quali gli orrori della guerra dei trent’ anni e gli abusi dei protestanti, è diventata in Mectilde de Bar risposta ad un valore irrinunciabile e sempre presente nella Chiesa e che, anche oggi, soprattutto oggi, non può non essere attuale e urgente.

«L’unica tendenza e aspirazione del nostro spirito e del nostro cuore deve essere di adorare il SS. Sacramento e rendergli omaggio, per quelle creature che non se ne ricordano e per quelle altre che lo oltraggiano con peccati e sacrilegi» [1].

In una canzone - poesia, il cantautore italiano Angelo Branduardi traccia per assurdo la storia d’amore tra un uomo e una nuvola:

«Lui l’amò, come la vide, così bianca inafferrabile: “Lontana sei ed io non ho la scala per il cielo!” ». E così l’uomo insegue la sua amata per valli e colline indirizzandole il suo canto d’amore finché “lei serena lo guardò, e al suo pianto poi si arrese. Ed una tenera pioggia, lei gli donò consumandosi d’amore ... ».

Questa dinamica oblativa imprime alla fiaba la caratteristica dell’amore umano che ama donandosi. È una dinamica rintracciabile nei rapporti genitori e figli o tra gli sposi ma che nel messaggio evangelico si sublima in una gratuità che spinge ad amare anche chi non si conosce ma che ci è fratello nella comune condizione di fragilità e peccato. Il modello è Gesù Cristo, l’unico che sa provare vera compassione per il prossimo, per ogni prossimo. Gesù Cristo che si è abbassato, si è annientato per essere raggiungibile, per raggiungere. La compassione non è commiserazione, ma un cum patior, ossia un patire con, un condividere, un lasciarsi coinvolgere in modo tale dalla sofferenza altrui fino a sentire propria l’inquietudine e l’amarezza degli altri. Gesù morente, sulla croce lancia il suo ultimo grido: “Consummatum est”. Davanti allo spettacolo della croce realmente capiamo cosa è l’amore e, allo stesso tempo, ci rendiamo conto che ancora non sappiamo amare sino in fondo. Riparare è un avvicinarci sempre più a questo sublime modello di amore.

La riparazione è un compatire per vocazione e per amore, è un consumarsi per donare, un comunicare totalmente se stessi sino all’ esaurimento di sé. La riparazione rende vicini, accorcia le distanze, è la scala per il cielo. Gesù, unto dalla peccatrice che gli lava i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli, risponde ai benpensanti, che deploravano tanto spreco di aromi profumati, esaltando l’amore di quella donna, un amore più forte dei pregiudizi umani e dei propri peccati. La monaca riparatrice è la monaca sprecata, non come inutilità o nonsenso, ma in questa prospettiva di donazione gratuita di se stessa per gli altri, disposta a consumarsi pur di intercedere e condividere per una sovrabbondanza d’amore che è dono di Dio. Questo dono, dirà la Madre, va compreso alla luce del sacrificio di Cristo.

Amore - riparazione è un binomio inseparabile, così come lo è sacrificio - consumazione: prescindere da essi è sbagliare rotta. Non ci si fa riparatori per uno spiccato senso filantropico, ma per accogliere l’altro nella sua preziosità non sopportando alcuna ombra nella sua vita e nel suo cammino. La riparazione postula un autentico sentimento di misericordia: senza di esso l’amore sarebbe arido, presuntuoso. Misericordia vuol dire avere il cuore tenero, avere propensione amorosa verso l’altro accettato e amato per quello che è, consapevoli che chi ripara è a sua volta bisognoso di riparazione. È come una fontana: si riceve acqua rigenerante dal Signore e, a sua volta, la si comunica agli altri. Siamo tutti dei miseri investiti dalla misericordia divina, senza alcuna presunzione di superiorità morale sui nostri fratelli, ma con loro solidali e vicini. Riparazione è portare i lontani vicini, i dispersi radunati, i poveri arricchiti. Riparazione è tenersi per mano, aspettarsi, risollevarsi quando si cade. Per riparare bisogna vivere continuamente alla presenza di Dio perché riparazione è presentare a Dio, adorandolo, l’umanità sofferente, senza escludere la gioia della vita. È l’invito che Madre Mectilde rivolge a tutte noi:

«Voi siete delle riparatrici d’amore e le vostre riparazioni devono essere operate in amore, con amore e per l’amore»[2].

La riparazione senza la misericordia è priva di fondamento, così come la misericordia senza la consapevolezza è inconsistente. La consapevolezza della riparazione è rendersi disponibili a Dio in modo particolare; è ritrarre il proprio spazio vitale per far esistere l’altro, per presentarlo al Padre. Ci si offre, ma l’offerta di sé è reale solo se si lascia a Dio l’iniziativa, così come ha fatto la Vergine Maria. La nuvola sapeva che donando all’uomo il meglio di sé, ossia la pioggia, doveva essere disposta a consumarsi. La monaca riparatrice sa che donarsi è donare tutto all’altro in Dio. Ecco le parole di Madre Mectilde:

«Ogni attività compiuta unicamente per me o per le creature, è un furto che faccio del sangue del Figlio di Dio. Tutto è suo, noi siamo riscattati da questo prezzo inestimabile e non abbiamo diritto di usare o disporre degli istanti della nostra vita se non per il suo amore e la sua gloria» [3].

La riparazione diviene comunione, profonda assimilazione nel proprio intimo del bene dei fratelli per la gloria di Dio, e la gloria di Dio è l’uomo vivente, dice Sant’Ireneo! La gloria di Dio non è qualcosa di astratto, di irraggiungibile, ma è mio fratello, mia sorella, il mio prossimo che è membro dell’unico Corpo; la gloria di Dio siamo tutti noi, grandi e piccoli allo stesso tempo, impastati di forza e debolezza, peccatori chiamati alla santità. Siamo a turno uomo e nuvola, donatore e dono, segno e mistero e lo siamo per vocazione, per amore, consapevoli che “non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici”. Riparare è essere amici imitando Cristo che tutto ci ha dato e tutto si è donato. Solo così la spiritualità riparatrice acquista i connotati del carisma, della vitalità dello Spirito.

L’amore è, dunque, il contrassegno di questa spiritualità che è oblativa proprio perché, nell’imitazione di Gesù Cristo, ha scoperto la vocazione alla solidarietà e al servizio. Per Mectilde de Bar si fa adorazione in spirito di riparazione per un duplice motivo: prima di tutto per la gloria di Dio che, necessariamente, diventa bisogno di cooperare alla salvezza dei fratelli. Scrive la Fondatrice:

«Non lavorate più che per il puro amore di Dio ed i suoi interessi. Abbracciate i vostri fratelli peccatori per presentarli a Nostro Signore: sacrificatevi interamente per essi. Noi formiamo tutti un medesimo corpo in cui Gesù Cristo è il Capo, e dobbiamo dunque desiderare la loro perfezione come la nostra» [4].

Partecipare all’offerta di Cristo nella Messa è rendersi disponibili ad essere, in Cristo per la Chiesa, segno e strumento di gioiosa vicinanza a quanti sono più lontani e distratti dall’amore che Dio, per primo, riversa in ogni cuore. Il sacrificio non è un qualcosa che deve far pensare a motivi tristi, ma è l’urgenza di chi ama e vuole l’altro pienamente partecipe della festa che si fa comunione e condivisione. Il servizio diviene la forma suprema dell’amore solo se è capace di guardare al bene degli altri come se fosse il nostro irrinunciabile e primario bene. È il comandamento di Gesù, il suo testamento d’amore, il suo dono sacerdotale: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» .

La riparazione è fare nostra la causa di Gesù, è collaborare alla redenzione in una rappresentanza di tutti i peccatori, e ci siamo anche noi, davanti alla maestà di Dio che è infinita misericordia. Comunicando all’amore di Cristo, un amore portato sino alle estreme conseguenze, noi siamo chiamati ad essere testimonianza della gioia del Padre che aspetta il ritorno dei suoi figli ammazzando per loro il vitello grasso e scegliendo l’anello e le vesti più belli. Non possiamo gioire profondamente per il ritorno dalla morte alla vita dei nostri fratelli che si erano allontanati, se non facciamo spazio in noi a quell’esclusività che diviene amore disinteressato e capace di liberare il proprio egoismo per lasciarsi trasformare dalla redenzione di Cristo. Ecco perché la nostra Madre Fondatrice, acculturata nel linguaggio e nella mentalità tipica del Seicento, predilige termini quali abiezione e annullamento che, oggi, non dovrebbero farci paura ma stimolarci ad un cammino di conversione profondo che si fa apertura incondizionata all’altro.

Il nostro Istituto, insieme ad altre comunità consacrate alla riparazione sorte lungo i secoli, diventa profezia inquietante in una società chiusa nei propri interessi e irretita da una mentalità dell’arrivismo e del consumo. Il nostro esserci non è un’optional, ma è manifestazione credibile dell’iniziativa di Dio nel chinarsi verso tutti gli uomini, suoi figli e nostri fratelli, che anelano ad un mondo di pace e di vera e autentica fratellanza cristiana.

 



[1]  Madre Mectilde de Bar, La giornata religiosa, p. 192.

[2]  M. MECTILDE DU SAINT SACREMENT (Catherine de Bar), Il vero spirito delle religiose adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento dell’altare, Ronco di Ghiffa 1979, p. 5.

[3]  CATHERINE MECTILDE DE BAR, Il sapore di Dio, ed. Jaca Book, Milano 1977, p. 80.

[4]  CATHERINE MECTILDE DE BAR, Capitoli e Conferenze, Alatri 1998, p. 555.