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Deus absconditus, anno 79, n. 1, Gennaio-Marzo 1988, pp. 27-33
 

Sr Mariarenata Quariglio osb ap
(Una benedettina del SS.mo Sacramento di Ronco di Ghiffa)
Riparazione: un servizio al mondo e alla Chiesa

Chi non sa trarre dalla sua fede il motivo per sperare la salvezza del mondo, di tutto il genere umano, non crede abbastanza forte. E nemmeno sa cosa voglia significare il santo «abbandono» chi si affida «individualmente» all’amore misericordioso e non gli abbandona tutti gli uomini. La caratteristica di una spiritualità riparatrice è la misericordia, non il sacrificio; la speranza e non la denuncia. La carità di Dio deve sospingere.

È questo il compito riservato ad ogni cristiano, e più ancora ad anime consacrate: testimoniare davanti agli uomini la potente salvezza di Dio per i pagani e gli esclusi, di cui noi eravamo i primi; quello di esercitare «il ministero della grazia» a noi affidato a loro beneficio (Ef 3,2).

Ad ogni battezzato è stata concessa questa sorte: di promettere a quelli che sono lontani le imperscrutabili ricchezze di Cristo, per far risplendere il segreto di Dio, che radica e fonda gli uomini nella carità. È proprio dalla conversione dei peccatori che possiamo avere la misura dell’ampiezza, della lunghezza, dell’altezza e della profondità dell’amore di Cristo.

Dio vuole salvi tutti i suoi figli. L’ha detto. Lo compie ogni giorno. E lo farà fino a quando non vi sarà che un solo uomo sulla terra.

Tuttavia per saper da che cosa siamo scampati, per vivere in noi una speranza che sia veramente cristiana, dobbiamo misurare il peso del peccato.

Il male non è la somma dei malanni esistenti. Non sta solo nella tirannia di certi politici, nell’astuzia dei violenti, nell’ingordigia dei meschini. Se fosse così, se bastasse correggere tante deviazioni per avere un mondo diverso, un mondo nuovo, potremmo sperare di essere all’altezza di risolvere da soli tante questioni, tanti fatti, tanti problemi senza dover invocare l’aiuto del Cielo. Ma il mondo non si salva da solo! Il mondo non si può salvare da solo non perché non lo voglia, ma perché prigioniero, è inabilitato alla sua salvezza.

Come è possibile allora la salvezza?

Guardiamo il male dalla parte delle «vere» vittime: i peccatori.

È lecito sperare per loro ? Quale promessa possiamo loro fare ? In concreto: noi che speriamo nel dono gratuito e inatteso della redenzione, come dobbiamo testimoniare perché la nostra fiducia non si corrompa di fronte a quietismi e indifferenze ?

Il primo dovere di chi crede e spera è quello di accettare – senza illusioni – la tragica realtà del peccato. È suo dovere misurare le proporzioni del fallimento dell’uomo, il quale solo con la redenzione e la riparazione potrà essere riscattato.

Dobbiamo educarci alla compassione assoluta, alla solidarietà drammatica: sentimenti interiori che ci danno materia per accrescere la nostra speranza cristiana. E poiché esiste il male non possiamo che abbandonarci a Dio.

«Rimetto la mia vita nelle Tue mani, o Dio. Abbi pietà degli uomini, Tu che ci hai giurato salvezza. Qualunque cosa ci succeda, oso ancora ringraziarti, perché Tu sei il Forte che al momento buono si alza, come dopo il pesante sopore del vino, per rendere giustizia ai poveri, con la Tua ira misericordiosa. Solo ti prego: vieni presto in nostro soccorso, prima che i deboli siano soverchiati dalla desolazione. So bene in Chi ripongo la mia speranza, io credo nell’Amore. Ma che i popoli non mi irridano e non dicano: dov’è il tuo Dio ?» (cfr. Sal 42-43).

Tra la certezza oggettiva del male e l’obbligo di fidarci di Dio c’è la redenzione di Cristo. Santo abbandono e cruda consapevolezza del male sono in contrasto tra loro, infatti per poterli affermare entrambi come veri occorre la redenzione e fare la sintesi di Cristo. Solo in questa luce possiamo comprendere la missione della riparazione.

Cristo e la sua com-passione al peccato

Soffermiamoci un istante ad osservare il male stando dalla parte di Cristo che ne è la vittima per eccellenza. È Lui, l’Agnello Immacolato, che porta il totale peso dei nostri peccati. Non il peso vendicativo di Dio, ma il peso del peccato in se stesso, come fallimento umano che lo esaspera fino alla morte. Cristo «prende su di sé il vuoto, la disperazione, l’inutilità, l’inconsistenza» della nostra stessa vita. Appare tragicamente tentato di disperazione e di delusione più di ogni altro uomo. Tutto l’abisso del «no» umano contro l’amore di Dio gli diventa esperienza subita. Direbbe Von Balthasar: «Accompagna l’uomo fin dentro la situazione estrema della sua scelta negativa».

Cristo ha esperimentato il vuoto di Dio, soffrendo di a-teismo, carico dell’angoscia di quelli che di Dio sono privi. Possiamo dire: «Dio, contro Dio si è schierato per l’uomo».

La storia umana di Cristo è incomprensibile se non prendiamo sul serio la sua discesa nell’abisso del peccato. Un autore contemporaneo ha scritto: «Non puoi scendere così in basso da non trovare il tuo Cristo ancor più in basso ad accoglierti».

E Don Mazzolari: «Bisogna sentirsi colpevoli per amare e redimere. Noi, invece, siamo galantuomini e la nostra preghiera, se pur ci degniamo di pregare, è quella del fariseo. Per questo passiamo davanti alle carceri senza tremare, godiamo l’attimo della prostituta senza rabbrividire dell’infamia che sconsacra una povera creatura, passiamo accanto alla gioventù che si perde lavandoci le mani, in luogo di allargare le braccia per fare argine. Rifiutiamo di essere fratello del ladro, dell’assassino, dell’abbandonato: PER QUESTO NON AMIAMO».

Nella persona di Cristo annientato dal peccato degli uomini c’è più che la vicenda di un Uomo appassionato degli uomini. Siamo di fronte ad una tremenda rivelazione della passione di Dio stesso.

Ora sta a noi accettare o meno la definizione di Dio come amore, cioè come « passione », come volontà di condivisione.

Come è possibile amare una persona e nello stesso tempo dirgli: «Voglio essere indipendente da Te ? Quando si ama si vuole dipendere. Il più amante è il più dipendente. Amore e povertà, amore e umiltà, amore e kenosi, diventano sinonimi quando indicano lo slancio con cui l’Amore si «de-propria» per condividere la sorte dell’amato senza riserve.

Ce ne da l’esempio ancora e sempre il Cristo. Gesù, per amore del Padre, si fa anatema in mezzo ai fratelli perduti. « Cristo non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me » (Rm 15,3).

Cristo è solidale. Cristo è « sostituto vicario » – come amano definire certi Teologi contemporanei – dell’uomo dannato.

Cristo ripara. Non soltanto cancella o reprime il male, ma facendosene responsabile lo capovolge in positivo.

Condannando, non si salva. Condonando, nemmeno. Condono o condanna non cambiano per nulla le condizioni verificatesi. Per redimere davvero, occorre entrare « dentro » il peccatore e dare una nuova vita a ciò che altrimenti rimane perduto. Questa è la strada della solidarietà, della « responsabilità vicaria », assumendo su di sé un peccato non nostro al fine di riciclare ogni potenza vitale che si era perduta.

Facciamoci imitatori e riparatori con Cristo

Essere imitatori di Cristo, essere «modelli» fedeli di Cristo che si immola dev’essere l’atteggiamento e la giustificazione fondamentale di vita di chi ha la missione battesimale di continuarne l’opera e la presenza.

L’autore ignoto della «LETTERA A DIOGNETO» riporta un saggio insegnamento per chi vuol riprodurre nella sua vita l’oblatività di Cristo. Dice: «Amando Cristo, diventerai imitatore della sua bontà. Non meravigliarti che un uomo possa diventare imitatore di Dio: lo può, perché Dio stesso lo vuole... Chi prende su di sé il fardello del prossimo... costui è imitatore di Dio».

E S. Agostino: «Anche noi, fratelli, se davvero amiamo, imitiamo. Non potremmo infatti dare in cambio un frutto più squisito del nostro amore di quello che consiste nell’imitazione di Cristo, il quale patì per noi, lasciandoci un esempio, perché seguiamo le sue orme... I santi martiri lo hanno seguito fino all’effusione del sangue, fino a rassomigliargli nella passione». Più vicino a noi, la «Lumen Gentium» sottolinea che l’intero popolo cristiano è chiamato al servizio della «riparazione»: il popolo di Dio «costituito da Cristo in comunione di vita, di carità, di verità, è pure da Lui preso come Strumento di redenzione» (LG 9).

Come può la Chiesa essere sacramento se, nel contempo, non è anche sacrificio, ripetizione, riattuazione dell’offerta di Cristo completata nel nostro corpo ? È questa profonda consapevolezza che spinge S. Paolo ad esortare i cristiani di Roma: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio» (Rm 12,1). Chiedo ai credenti di continuare la loro eucaristia divenendo essi stessi «corpo dato e sangue versato» affinché, plasmati dal dono divino, diventino strumento di salvezza per i fratelli.

Modello eloquente ed illuminante della partecipazione alla passione del Figlio è Maria. Chi come Lei e più di Lei ha testimoniato che vi è una reale possibilità cristiana di partecipare al dolore redentivo che Cristo ha offerto al Padre per tutti noi ? Maria è «vicaria» della passione di Gesù, in quanto la assume e la condivide in piena solidarietà. La sua identificazione col Cristo è tale da far diventare la passione fatto suo proprio e nel culmine della sua partecipazione sacrificale ci diventa Madre.

Ogni battezzato – nessuno escluso – sull’esempio di Maria, è chiamato a completare quello che manca alla passione di Cristo, ad essere «vicario» degli uomini. Il battezzato è chiamato a portare anch’egli le «stimmate delle preoccupazioni», dell’ansia apostolica per il destino dei fratelli. Il fedele che imita Cristo nella solidarietà con i peccatori deve però offrire il sacrificio prima per i propri peccati: unica condizione per intercedere per gli altri.

È proprio vantando al cospetto di Dio le proprie debolezze che otteniamo da lui misericordia. La «solidarietà» riparatrice è tale solo quando è costituita dal «riconoscimento» della propria impotenza, del proprio fallimento, delle proprie native sproporzioni con le attese di Dio. Non è innalzandosi, ma bensì abbassandosi nell’infimo che attuiamo l’apostolato della riparazione.

Non sono gli innocenti, ma i peccatori ad aver bisogno del medico, perché sanno parlare a nome di tutti i travagliati dalle «piaghe» del peccato.

Il peccatore che chiede perdono per il peccato che è in lui è consapevole che l’assoluzione non è mai e soltanto individuale. Se io pecco il mio cedimento è inserito dentro un contesto di peccato generale e di responsabilità. Solo se fossi fuori della corresponsabilità nel peccato il mio agire, la mia debolezza non avrebbe alcuna ripercussione. Ma proprio perché sono inserito in questo piano di responsabilità la mia colpa va ad aumentare la massa del male e in qualche modo diventa originante. Per il medesimo motivo, se io ottengo il perdono, sono assolto dal mio peccato e ottengo assoluzione anche per quella parte di peccato sociale legata alla mia colpevolezza.

Ma qual è l’aspetto visibilmente concreto di una vocazione riparatrice ? È la misericordia. La misericordia è una passione forte che trasforma il senso della tragedia in slancio di dedizione, come dimostra il seguente passo di Bonhoeffer:

«Beati i misericordiosi... questi nullatenenti, questi stranieri, questi impotenti, questi peccatori, questi seguaci di Cristo, vivono con Lui ora rinunciando anche alle proprie dignità, perché sono misericordiosi. Non si accontentano delle proprie difficoltà... ma partecipano anche alle difficoltà altrui. Hanno un amore irresistibile per i piccoli, gli ammalati, i miserabili, gli umiliati e offesi, per tutti quelli che subiscono ingiustizie, per gli esclusi, per tutti quelli che si tormentano e si preoccupano; cercano quelli che sono caduti nel peccato e nella colpa... Il misericordioso dona il proprio onore a chi si è macchiato di vergogna. Egli si sa trovare presso i pubblicani e i peccatori e subisce volontariamente il disonore della loro compagnia. Cede il massimo bene che un uomo possa avere, la propria dignità e il proprio onore, ed è misericordioso... La misericordia del Cristo crocifisso fa loro dimenticare ogni proprio onore... E se sono coperti di vergogna, sono pure beati, perché sarà fatto loro misericordia. Dio si chinerà profondamente su di loro e prenderà su di sé i loro peccati e la loro vergogna».

Ecco cosa domanda Nostro Signore a noi. Che compiamo ciò che Egli stesso ha compiuto durante la sua vita, cioè la riparazione mediante il puro amore, poiché in questo sta la salvezza della Chiesa e dei popoli.

La via più breve e più sicura per unirsi in modo totale e definitivo al Cristo è la partecipazione al suo martirio d’amore. Seguendolo più da vicino per perpetuare il memoriale del suo annientamento. Completando nella propria persona i suoi patimenti. Praticando senza esitazione il « chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna » (Gv 12, 25-26) per essere prolungamento dell’umanità di Gesù.

Rinnegando se stessi per darsi al prossimo, anteponendo tutti a se stessi, perché il sacramento del fratello è la via che il Signore ci ha indicato per legarci a Lui.

«Ogni dono di sé è una semina di amore che fa nascere amore. Là dove è più difficile accettare l’annientamento di essere servi degli altri e di essere mangiati dagli altri, là si raccoglie più abbondantemente il frutto della carità. È quello che il Signore Gesù ci ha insegnato. Come Gesù nella S. Eucaristia è pane distribuito a molti, così il discepolo si fa cibo per alimentare la vita dei fratelli mettendosi a disposizione in modo incondizionato e senza misura. Tempo, fatica, attenzione d’amore, preghiera, condivisione della gioia e della sofferenza: tutto diventa offerta deposta sull’altare, e senza la pretesa di trattenere o ritirare qualche cosa per sé: tanto meno il compiacimento per la propria generosità, sentimento che può subentrare nell’animo e sciuparvi tutto il bene. Chi si perde deve sentirsi sempre più povero, se è vero che si perde, fino all’annientamento del sentirsi inutile»(A.M. Canopi).

È bene che non sentiamo in noi altro che nudità e povertà e perfino il vuoto di Dio... Dobbiamo lasciare cadere tutto per restare nel nulla; e fuori di questo beato annientamento, tutto il resto è veramente nulla che possa valere qualche cosa. Ovviamente si tratta quindi un «nulla» che diventa il vero e assoluto «tutto». È l’identificazione alla vita di Cristo, ostia che cela la Divinità – celarsi, sparire, tacere – grazie destinate ad improntare di sé tutta la vita. Ogni colpa di orgoglio è un rinnegamento della vita Eucaristica, un rifiuto a partecipare alla umiliante Passione del Maestro. Come dall’annientamento di Cristo è nata la Chiesa così il discepolo non deve sottrarvisi, ma deve lasciarsi afferrare per dare crescita e incremento alla Chiesa nel suo cammino verso la santità.

La vita va considerata come «un seme da gettare» nel solco della preziosa eredità che Cristo ci ha lasciato e non lascia mai mancare: sofferenze, umiliazioni, persecuzioni, ecc... È certo una logica che si scontra con la mentalità di questo nostro mondo basato sull’egoismo, sull’autoaffermazione, sull’istinto, sul diritto, ecc. ma chi segue le orme di Cristo sa che la vera libertà, la maturità umana si fonda non sulla « conservazione » di sé, ma sul dono totale e disinteressato.

Una vita consacrata alla riparazione dev’essere concepita e vissuta come una prosecuzione del martirio di Cristo – il solo a generare la vita –  radicato nel dono vissuto in situazioni di umiltà, in fervorosa preghiera, in intima segreta e gioiosa immolazione nella carità verso i fratelli, nella comunione che genera l’eternità, nell’ardente generosità e desiderio di toccare il punto più profondo dell’abissale mistero di umiltà e d’amore di Dio.