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Deus absconditus, anno 75, n. 4,  Ottobre-Dicembre 1984, pp. 19-28
 

Dom Jean Leclerq osb
L’adorazione riparatrice nella tradizione e nella storia

Oggi vorrei parlare da storico, cercando di situare nella tradizione e nella storia la vostra vocazione alla riparazione per mezzo dell’adorazione, incluso il voto di vittima.

La Tradizione e la Storia non si identificano. Questo bisogna dirlo una volta per sempre.

La Storia è la conoscenza del passato: è una scienza (fu così o non fu così).

La Tradizione è una trasmissione (da «tradere»): una corrente viva, continua, che deriva dalla vita dei Tre (dal Padre per Cristo nello Spirito) e continua, specialmente grazie all’azione dello Spirito Santo (il quale ci comunica Cristo, che a sua volta ci mette in relazione col Padre), attraverso tutta la Chiesa.

Non bisogna mai perdere il senso della tradizione. È in questo senso che dobbiamo essere «tradizionalisti». La Tradizione, dunque, non è il passato, non s’identifica con nessun momento del passato, anche se si è realizzata nel passato in vari momenti successivi, che vengono studiati dalla storia.

Il nostro compito è quello di vivere la Tradizione: non da storici, ma da esseri viventi, inseriti in un organismo vivente che è la Chiesa.

Questa chiarificazione ci evita di confondere la «Tradizione» dalle varie tradizioni che sono sempre personali. Spesso gli anziani (e conosco questa tentazione, perché anch’io ero già anziano dopo il Concilio) pensano che la Tradizione sia ciò che si faceva quando loro anziani erano giovani, e dicono: «II mio maestro dei novizi... il mio parroco... ecc.». Ma il 1930-40 era un momento determinato, che ormai è passato. La tentazione è sempre quella di assolutizzare un momento del passato, un momento della Tradizione. Invece Dio agisce sempre, lo Spirito è sempre all’opera.

La Tradizione è questa corrente che si arricchisce continuamente come il fiume, che passando attraverso diversi terreni si arricchisce, o come le acque termali che provenendo dal centro della terra e passando attraverso livelli geologici, si arricchiscono di sali e giungono a noi pronte per essere usate. La Tradizione è tutto questo.

Se dunque la storia non si identifica con la Tradizione, tuttavia è necessaria una certa conoscenza di essa, un certo studio della storia.

La storia è importante: prima di tutto per capire ciò che di continuo ci fu nel passato (e nel passato ci sono state anche delle cose che non bisogna più ripetere, ad es. quando tutta la civiltà, inclusa quella cattolica, accettava la schiavitù, ecc.).

La storia, proprio a me che sono vecchio storico, insegna a vedere tutto ciò che c’è stato di meno cristiano e di meno evangelico per tante cause.

Ed è la storia che ci libera dal passato: ce lo fa conoscere e poi ci da un po’ d’immaginazione, perché spesso le cose che crediamo nuove, che stiamo per inventare, sono già state fatte mille anni prima di noi. A volte ci sono state delle soluzioni nel passato, che possono aiutarci a inventare nuove soluzioni per l’oggi: non per imitarle o per tornare al passato, ma per ispirarci ad esso.

La Tradizione non s’identifica mai con certe cose troppo particolari, quelle che per es. nella nostra vita monastica si chiamano «usanze». La Tradizione essendo una corrente vitale non può essere che una realtà spirituale, che può sopravvivere e che può essere anche universale, continua, eterna. Ad es. le adoratrici di Sidney in Australia che conosco bene, come quelle di Londra, come quelle di Ghiffa, della Germania, della Polonia, possono avere dappertutto la stessa Tradizione, però non avranno né la stessa lingua, né le stesse usanze, ecc.

Quindi la Tradizione ci aiuta a discernere ciò che è valevole da ciò che è caduco e che può cadere, come certe forme che si spiegano solo in un tempo particolare e che perciò non sono né eterne, né universali.

In tal modo la Tradizione ci libera dai dettagli, ci dà il senso del relativo e perciò dell’umorismo che è così importante nella vita. C’è anche un umorismo degli storici!

Non dobbiamo mai prendere sul serio un periodo e farlo norma costante di vita.

L’umorismo è proprio il senso del relativo, che impedisce di attribuire un valore assoluto a un periodo o a un modo di fare.

Conserviamo l’essenziale e viviamolo, e poi vivendolo troveremo – adattandoci – come inserire quest’essenziale nel presente, per trasmetterlo ad un futuro che sarà ancora diverso.

Io vedo nei monasteri, specialmente maschili, che i giovani di oggi sono molto diversi da quando ero giovane io. Non hanno per niente la stessa cultura: non sanno il latino, la storia è appena trattata, poca la filosofia, però in compenso molta sociologia, ecc. Non so cosa sarà questa cultura monastica fra vent’anni. L’unica cosa che sappiamo è che sarà diversa. Quindi noi anziani e adulti dobbiamo lanciare, trasmettere ai giovani ciò che abbiamo e poi lasciare trovare da loro stessi il modo di continuare.

E i giovani non devono dire: «Noi siamo giovani, sappiamo tutto! Tutto comincia con noi!». Ci vuole una umiltà reciproca, ed è proprio questo il vantaggio della comunità e della stabilità. Ed è perciò che vi parlo di storia.

Io penso che voi monache (e questa è una specie di parentesi che aggiungo, perché è uno dei problemi più attuali in tutta la Chiesa) dovreste pensare voi stesse a formarvi. Non dovete sempre aspettare che un padre, un confessore, un sacerdote, pensino alla vostra formazione! Per prima cosa ce ne saranno sempre meno e sempre più occupati in cose che non sono le vostre. Tocca quindi a voi, adesso, studiare la vostra tradizione, le vostre fonti, la vostra dottrina: studiarla, discuterne, approfondirla, assimilarla, trasmetterla alle giovani. Il problema degli studi delle monache è veramente importante! Le monache (a differenza delle religiose di vita apostolica, che possono anche andare all’università) devono trovare altre forme, altri mezzi e formare delle «formatrici».

Questo è uno dei problemi più urgenti della Chiesa, e lo studio della storia fa parte di questa formazione. Non dovete limitarvi a coltivare la pietà, l’osservanza, e neanche solo la teologia: anche la storia ha il suo valore ed è essa stessa una parte della teologia.

Ora voglio rendervi partecipi delle nuove ricerche, fatte da me sopra la «storia della riparazione», dopo l’incontro dell’aprile scorso.

Devo dire che ho fatto delle scoperte abbastanza importanti in proposito, nel senso che la vita di adorazione riparatrice è molto più antica nella Chiesa di quanto si pensi.

Una volta si diceva che il pensiero del Seicento francese e dell’Ottocento romantico non era basato su buona teologia, tanto da sembrare una cosa del tutto marginale. Ora mi sono accorto che la storia della riparazione è molto più antica e centrale. E questo bisogna dirlo perché contribuisce a dare fiducia in una tradizione. Più la tradizione è antica, più essa è radicata nella vita stessa della Chiesa.

La vostra vita di adorazione e riparazione non è costituita solo da forme di devozione, di pratiche, ecc., ma ha il suo contenuto dottrinale: ed è questa la Tradizione nella Chiesa. Il germe della fede venutoci dalla Rivelazione (dal Padre, Figlio, Spirito, Apostolo, ecc.) si sviluppa e cresce (come ha detto il Vaticano II nella Costituzione Dogmatica sulla Rivelazione divina) e la Chiesa prende sempre più coscienza del contenuto della rivelazione primitiva.

Si può dire, in un certo senso, che oggi noi ne sappiamo di più su Gesù Cristo che non gli Apostoli. Essi avevano tutto, ma non avevano né il tempo, né la capacità, né la missione di elaborare il tutto. Ci sono voluti venti secoli di lavoro, dovuto ai santi, ai Padri, giunti fino a noi. Approfittiamo dunque di tutto questo sviluppo, che dovrà necessariamente continuare. Ci sarà la teologia del XXI secolo, perché c’è sempre un progresso.

Dunque nel vostro caso vediamo che si tratta di una dottrina.

Nella storia - come in ogni sviluppo - ci sono dei momenti più forti e più ricchi, ad es. la prima generazione dei Padri apostolici, che hanno avuto un’intuizione veramente tremenda del Mistero. Poi sono venuti i Padri della Chiesa nei secoli dal terzo al quinto, con Agostino e tanti altri in Oriente, che hanno contribuito ad un ulteriore progresso, spesso provocato da eresie ed errori. Infatti a misura che si percepisce meglio la fede ed il suo contenuto, nascono parallelamente certe difficoltà in ogni credente con conseguenti soluzioni più facili. Ci sono sempre delle eresie che stimolano e fanno crescere l’autocoscienza della Chiesa.

In tutti i tempi, poi, ci sono stati dei grandi pensatori come S. Gregorio Magno (sec. VI), seguito da un periodo di un certo rallentamento. Col periodo carolingio ci fu una ripresa con grandi teologi e senza molte eresie (forse la gente non era neanche capace di farne). Ma dal secolo X in poi - specialmente riguardo all’Eucaristia - cominciano a serpeggiare degli errori che obbligano i pensatori della Chiesa a riflettere e a precisare di più.

Negli ultimi due decenni abbiamo conosciuto una forma di teologia molto interessante: si tratta di una teologia di tipo fondamentalista, con un ricorso alle fonti, alla Bibbia, che ha promosso un grande progresso nello studio delle sacre scritture, avvalendosi anche della metodologia strutturalista. Essa ha rivelato però la tendenza a fermarsi a questo livello, data la sua sfiducia nelle idee.

Oggi notiamo una sana reazione. La fede non è certamente riducibile a ideologia; ma suscita e fa crescere una teologia. Stiamo assistendo ad un ritorno a forme prima abbandonate. Proprio da due o tre anni c’è un movimento formato da studiosi bene attrezzati, che getta un ponte tra la devozione e la teologia del passato e quella più recente.

Vengono messe a servizio della teologia non soltanto tutte le risorse della scienza dei testi, ma anche quelle dell’intelligenza e della riflessione. Un caso esemplare è rappresentato dal Santo Padre Giovanni Paolo II, che ogni mercoledì lancia nuove idee.

Veramente in questi anni ottanta stiamo vivendo un tempo forte della teologia.

Percorrerò un po’ con voi la storia della riparazione, per parlarvi degli aspetti nuovi che mi sono apparsi. Poi suggerirò (perché io sono soltanto uno storico e non un teologo di professione o un pensatore) certi viali secondo cui la teologia nuova già si orienta e trova risultati che danno fiducia nella vostra tradizione.

Abbiamo visto che nel senso tradizionale la riparazione è il fatto di Dio in Cristo per lo Spirito: è Lui che ripara, Lui è il Redentore. E ho notato in uno dei prefazi di Natale che si adopera ancora l’espressione «nos reparasti», «Dio ci ha riparati» col mistero dell’Incarnazione.

Però questa idea sia della riparazione fatta da Cristo sia dell’unione nostra con Cristo ha dato luogo ben presto, fin dal tempo di S. Paolo (cioè fin dalla prima generazione cristiana) all’idea che noi possiamo unirci a Cristo per partecipare alla sua opera riparatrice, in una forma molto specifica che, secondo il linguaggio dell’Antico Testamento, si chiama in qualità di «vittima», di «ostia», per «immolarsi», per «conformarsi» a ciò che ha fatto Cristo: «Offritevi quali vittime viventi, sante, piacevoli a Dio» (Rm 12,1).

Questo tipo di «unione vittimale» lo vediamo realizzato nei Martiri. Essi si sono offerti liberamente come «vittime», anche senza dirlo, ed in effetti sono stati consumati come olocausto.

L’unione vittimale col Cristo è stata applicata ben presto a proposito della verginità. Le vergini che si consacravano a Dio si offrivano anche vittime. In seguito il termine venne applicato alla mortificazione e all’ascesi di coloro che si specializzavano per una vocazione particolare nella vita spirituale e particolarmente nella preghiera, intesa ad esprimere l’offerta di se stessi. (Ho raccolto diversi testi che mostrano come le radici di queste idee siano molto profonde).

Le vergini consacrate furono la prima forma del monachesimo femminile, e forse del monachesimo in assoluto. Esse vivevano prima nelle loro case e poi si riunirono in comunità.

In seguito vennero i monaci, coloro cioè che volevano andare al di là delle pulsioni spontanee dell’egoismo, che pregavano e lottavano contro il male presente in loro stessi, e contro il male presente nel mondo.

Intanto apparivano le prime eresie (lo gnosticismo, ecc.), che venivano facilmente attribuite al demonio. Ecco allora che il monaco diventa colui che va nel deserto per lottare contro il demonio per dominarlo in se stesso e ovunque. Vediamo perciò dei vescovi che al tempo delle eresie chiedono delle fondazioni ai monaci, perché combattano con la preghiera. Origene diceva: «Perché i monaci dovrebbero essere dispensati dal servizio militare? Perché lottano contro il male. Perciò non hanno bisogno di indossare delle armi materiali e di lottare contro i nemici, perché lottano contro il male interno dell’uomo».

Essi sperimentavano ciò che già Origene nel III secolo chiamava «il martirio della coscienza». Se non tutti avevano la fortuna di essere martirizzati per Cristo, alcuni erano volontari per questo martirio spontaneo.

Quindi la vita monastica, in questo senso di valore sociale grazie alla preghiera e all’ascetismo, ha attraversato tutti i secoli dell’antichità (come abbiamo visto), è giunta fino al Medioevo, e continua ad esprimersi oggi in termini di offerta volontaria di se stessi e di espiazione per gli altri.

In Oriente, un testimone del secolo X, anonimo, dice: «Il contemplativo è come Dio: la sua misericordia e la sua carità non sono più interessate, ma si estendono a tutti e a tutto, così come Dio ama tutti e vuole bene a tutto l’universo, senza che da parte dell’universo ci sia motivo per essere amato a causa della sua separazione da Dio per il peccato. L’uomo offre se stesso a Dio come ostia volontaria, e sacrificio di soddisfazione».

Siamo già nell’anno 1000 e le idee espresse da questo Anonimo orientale sono molto vicine alla vostra vita di riparatrici in qualità di «vittime». Ecco ciò che aggiunge: «Per l’umiltà di Cristo il monaco offre se stesso a tutte le sofferenze per il bene di tutti, in quanto la sua carità si estende a tutti. Tutto sopporta nel suo amore divino, così che non gli è difficile darsi al fuoco per tutti, a causa del suo amore universale ( = sia al fuoco del martirio – che non c’era più in quel tempo –, ma ancor più al fuoco interiore).

In Occidente ho notato un eremita, del quale si legge: «Rimasto solo, lontano da tutti, si applicava al canto dei salmi, alle vigilie, all’orazione più intima. Cercava di espiare con le lacrime i mali estesi ovunque nel mondo, come se fossero stati suoi. Si augurava la salvezza di tutti gli uomini affinché pervenissero alla conoscenza della Verità».

Notate come questi eremiti già nel secolo decimo abbiano questa coscienza universale.

Un altro: «Prega perché tutto il popolo riceva perdono e remissione dei suoi peccati». Passiamo a Cluny, dove l’abate S. Maiolo dice di lui: «Quest’uomo che aveva il culto di Dio e l’amore della bontà, che cosa avrebbe potuto considerare impossibile da ottenersi, in ciò che riguardava la sua salvezza e quella degli altri? Lui che continuamente sull’altare della celeste contemplazione faceva di se stesso, per la pratica della mortificazione di ogni giorno, una vittima piacevole a Dio!». Qui siamo in piena tradizione monastica di Cluny.

Uno dei suoi successori, Pietro il Venerabile, diceva a riguardo dei monaci: «Benché non amministrino i Sacramenti, i monaci contribuiscono per una parte molto grande alla salvezza dei fedeli». È una battuta che già potete leggere nei primi secoli nelle «Vite dei Padri», dove si dice che senza di loro il mondo cadrebbe. Essi sostenevano il mondo con la fede, la preghiera, l’unione a Cristo, l’offerta in vittima, pur non facendo niente di immediato.

Esempi simili si trovano nei Certosini, in S. Ildegarde e in molti altri del Medioevo. I monaci non entravano nella vita monastica necessariamente per questo scopo, ma una volta entrati capivano il senso della preghiera e dell’ascesi vissuta in questo orizzonte, in questa efficacità.

Ben presto questo atteggiamento generico di generosità e di espiazione ebbe nel Medioevo l’occasione di concentrarsi sulla devozione al SS. Sacramento.

Già nel secolo X specialmente nelle Fiandre (l’attuale Belgio) e in Lombardia (Italia) ci furono delle correnti estremamente favorevoli a false dottrine sull’Eucaristia. Esse furono favorite dall’ambiente economico in pieno sviluppo in queste zone. Nelle Fiandre c’era un grande sviluppo dell’industria della lana che produceva un grande commercio con l’Inghilterra, le regioni del Reno, ecc.; e la Lombardia ospitava errori provenienti dalla Mesopotamia, giunti attraverso il commercio con i paesi dei Balcani. Si trattava di idee semplificatrici. Queste idee sono poi state chiamate col nome di «eresie popolari», perché ebbero grande successo nel popolo, come oggi l’hanno le sette. Il perché di tale successo è facile da comprendere: credere a poche cose, liquidare la morale, ecc., è certamente più facile che addentrarsi nel Mistero della Trinità e sue conseguenze.

Nel secolo IX c’era già stata una controversia fra i teologi sul sacrificio di Cristo nell’Eucaristia, che però non ebbe un grande influsso sulla pietà, ma che preparò il terreno di resistenza in seguito alle eresie popolari dell’anno 1000. Un certo Gandolfo, che dall’Italia andò a Liegi per esporre dubbi sul Battesimo, Eucaristia, Penitenza e Matrimonio, trovò forte opposizione nel vescovo della città, S. Gerardo (uno dei riformatori del monachesimo).

Ma l’autorità non può sopprimere i movimenti profondi. In questo caso ci vogliono i mistici, ci vuole gente che preghi sul luogo. Ecco perciò il compito delle monache, che fecero rifiorire un movimento eucaristico in reazione e in espiazione contro tutti questi errori.

Nel secolo XI un teologo di Tours, Berengario, espose delle idee che vennero considerate pericolose, le quali mettevano in questione la Presenza reale. Non si può dire che egli sia stato eretico; è certo però che un Concilio a Tours lo ha, non condannato, ma avvertito. Berengario, canonico e maestro di scuola a Tours, da buon cattolico e teologo, si sottomise, fece una «confessio», cioè una ritrattazione. Ma le idee lasciano sempre lo strascico.

Così un santo benedettino, Lanfranco del Bec, (abate del Bec), poi maestro di S. Anselmo (da lui formato) e quindi arcivescovo a Canterbury decise di opporsi ad esse. Pensò che non bastava proclamare la verità dalla cattedra del Vescovo, ma che bisognava farla entrare nella devozione del popolo. Fu lui che nel 1063 decise che la processione delle Palme fosse una processione del SS. Sacramento, con delle opportune stazioni. E questa fu la prima processione eucaristica.

Anche nel monachesimo ci sono scrittori che difesero e giustificarono la fede nell’Eucaristia. Un monaco di Liegi, Algerio, venuto a farsi monaco a Cluny, scrisse un rimedio destinato a guarire – tramite la fede – gli sviamenti di altri, la loro «perfidia» (come egli chiama assenza di fede). Come Adamo il primo uomo aveva creduto al tentatore, così tanta gente ora crede a queste nuove eresie e noi dobbiamo accettare, affrontare, sormontare questa difficoltà, per riparare.

Dal secolo XII appaiono molti movimenti popolari e non soltanto più in Italia (battaglia milanese o battaglia fiorentina, ecc.) o nelle Fiandre, ma in tutta Europa: nella Renania, nella Francia, nella Spagna: erano i cosiddetti «catari», ossia gli eretici popolari. Essi attaccavano fra l’altro la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.

Per combatterli Pietro il Venerabile, abate di Cluny, scrisse un trattato contro un certo Pietro de B. Altri benedettini scrissero delle bellissime meditazioni eucaristiche.

Così i secoli XII e XIII erano turbati da queste eresie. I Domenicani furono fondati in questo periodo anche per predicare la verità contro questi eretici. Anche il contributo dei teologi era intenso. Parallelamente a queste eresie sorgevano le Confraternite del SS. Sacramento. Il loro intento era proprio di riparare gli errori degli Albigesi. Anche S. Francesco d’Assisi († 1226) aveva voluto riaffermare la presenza del Corpo e del Sangue di Cristo contro chi la negava, e aveva insistito sul dovere di adorare l’Eucaristia non soltanto quando se ne avesse avuto l’occasione (passando in chiesa o partecipando alla S. Messa), ma di adorarla in tutte le chiese insieme. E possiamo fare ciò formulando l’intenzione di adorare l’Eucaristia in tutte le chiese dove viene celebrata.

Tutto questo condusse ad un evento molto importante, e ancor oggi in uso: l’istituzione della solennità del Corpus Domini, che fu iniziata da una monaca di Liegi. da notarsi – come legge universale – che tutte le grandi devozioni a Gesù sono state lanciate da monache: Corpus Christi, Sacro Cuore, Cristo Re). C’è una linea di devozione femminile che ha lasciato maggior tracce di altre, creando forme tuttora viventi).

Questa monaca di Liegi vedendo che, nonostante le prediche, continuavano a propagarsi le eresie, chiese al vescovo di Liegi, Roberto D. di introdurre nella sua diocesi la solennità del Corpus Domini per riparare le incredulità verso l’Eucaristia. Il Vescovo (siamo nel 1264) accolse la proposta. In seguito Papa Urbano IV estese la solennità a tutta la Chiesa.

Fra i motivi addotti per l’istituzione di tale solennità ci fu l’idea di penitenza pubblica per i peccati commessi dall’empietà di certi eretici.

Papa Urbano IV fu ancora più esplicito, quando disse che si trattava di «pagare» (solvere) il debito di riverenza dovuto all’Eucaristia, che non veniva tributato nella celebrazione di altre feste, e anche per «supplire» a ciò che potesse essere omesso da altri, per «ristabilire» nei fedeli le disposizioni d’animo che venivano a mancare verso l’Eucaristia.

Si trattò di istituire realmente un giorno di riparazione per le negligenze dovute alla debolezza umana. Nelle schede ritrovate di uno studente a Parigi (del 1270) si legge che «tale solennità fu istituita proprio per 1’«espiazione». Grazie a questa espiazione siamo scusati per le negligenze commesse anteriormente da noi e da tutti». S. Tommaso d’Aquino compose l’Ufficio bellissimo del SS. Sacramento, che usiamo tuttora.

È interessante notare in ciò che siamo venuti dicendo come prima ci sia stata la mistica (l’esperienza, l’intuizione della persona spirituale), poi sia intervenuta l’autorità e quindi il teologo (come terza persona).

Questo dimostra che non dobbiamo aspettarci tutto dai pensatori. Questi ci vogliono, sono utili, ma nella vita della Chiesa l’importanza primaria è rappresentata dall’esperienza.

Si diffonde così in tutto il mondo la solennità del Corpus Domini e si moltiplicano sempre di più le Confraternite del SS. Sacramento che hanno lo scopo di riparare le mancanze, gli scandali commessi contro l’Eucaristia.

C’è pure una serie di mistiche. Abbiamo visto la prima intuizione di S. Giuliana di Liegi, a cui seguì l’approfondimento di S. Lutgarda, di cui fu scritto: «Elevata in spirito vide Gesù, il Capo della nostra salvezza con le sue piaghe che grondavano sangue, in piedi di fronte al Padre, supplicandolo per i peccatori». Questo brano è bellissimo: il Figlio, Cristo, benché risorto, supplica ancora il Padre per i peccatori e noi ci sentiamo invitati ad entrare in questa supplica. Continua poi il testo: «Ed egli disse: – Tu vedi come mi offro totalmente al Padre per l’intenzione dei miei peccatori; voglio che anche tu ti offra, allo stesso modo, totalmente per i miei peccatori». Questo passo è interessantissimo, molto preciso e dottrinalmente molto corretto. Un’altra mistica che conoscete è S. Gertrude.

Poi dal popolo stesso nascono tante Confraternite del SS. Sacramento. È interessante notare la loro ispirazione benedettina. Ce n’è una poi che presenta un regolamento che è riassunto al termine dall’elenco degli «Strumenti delle buone opere» come appaiono nel capitolo IV della Regola di S. Benedetto.

In questo periodo fu fondato l’ordine dei Cistercensi con monaci e monache, più tardi la Congregazione di Monteoliveto, che era pure una congregazione del SS. Sacramento.

Vedete come c’è una continuità in questa devozione.

L’adorazione si sviluppa specialmente in Italia sotto la forma delle Quarantore, istituite a Milano nel 1520 (le 40 ore indicano le ore che separano la morte di Cristo dalla sua risurrezione), con il preciso scopo di riparare.

C’è quindi una continuità ed è sempre viva l’idea di costituirsi «vittima» (già vista in S. Paolo). È il momento in cui questa qualità di «vittima» comincia ad assumere la forma di un voto speciale. È il momento in cui appaiono vari Ordini con un quarto voto, oltre i tre voti di vita religiosa. Sant’Ignazio per es. emette il voto di andare ovunque sarà mandato dal Papa.

Uno di questi voti fu il voto di vittima.

Questa insistenza sulla riparazione, sull’aspetto vittimale si sviluppa soprattutto in Francia nel600. Un criterio interpretativo di questo fatto potrebbe essere basato sulla considerazione che la Francia era allora giansenista: ma la vera ragione non sta qui. Questo aspetto vittimale è uscito dalla teologia dei grandi maestri: Bérulle, Olier, Condren, ecc. San Giovanni Eudes dice: «per offrirsi a Gesù in qualità di ostia e di vittima, che deve essere sacrificata alla sua gloria e al suo amore».

È a questo proposito che interviene M. Mectilde de Bar, col senso giusto della riparazione e dell’offerta vittimale. Ella dice:

«Il voto di vittima non è un voto particolare; tutti i cristiani sono divenuti tali per il Battesimo, per il loro rapporto all’unione a Cristo. Noi ci leghiamo a questa qualità del Cristo vittima del divin Padre per riparare la sua gloria oltraggiata dai peccatori».

A Paray-le-Monial c’è un’altra corrente che conduce a riparare il Riparatore e dice: non soltanto il Riparatore è Cristo, ma adesso lo siamo anche noi. L’espressione può avere certamente il suo senso ortodosso; infatti questa devozione uscita da Paray ha salvato la fede nel secolo XIX, ed è molto rispettabile. Si spiegava nel secolo passato come reazione ai disturbi provocati dalla Rivoluzione francese. Per riparare a tante offese c’è stato questo movimento molto giustificato e legittimo che però conduceva, a volte, a estreme austerità, non ragionevoli. Abbiamo degli esempi nei Carmeli di Francia, dove le monache si flagellavano a vicenda per farsi più male: tutto con buone intenzioni, ma perdendo il senso della misura!

È allora che interviene Teresa di Lisieux a ristabilire un giusto equilibrio, dicendo che è Cristo che ripara e noi ci associamo umilmente a Lui.

Nella prima metà del nostro secolo molte anime sante scoprono questo giusto equilibrio del senso della espiazione, pur conservando ancora qualcosa della tradizione legittima uscita da Paray. In Italia abbiamo: S. Benigna Consolata Ferrerò; a Torino c’è un movimento chiamato il «supremo lamento»; in Spagna abbiamo Josepha Mendez. E a Ghiffa: Madre Caterina Lavizzari.