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Deus absconditus - Atti del Convegno di spiritualità monastico-eucaristica,

Ronco di Ghiffa (VB), nn. 5-6, 1980, pp. 107-131

 

Sac. Giovanni Moioli

«Il Vero Spirito» di M. Mectilde de Bar:  una proposta «spirituale», le sue motivazioni, la sua attualità

 

 

Il tentativo che vorremmo compiere è, a prima vista, difficile e quasi destinato all’insuccesso. Intendiamo introdurre alla lettura di un testo spirituale del secolo XVII francese a cui fa particolare riferimento una specifica istituzione monastica, quella delle Benedettine del SS. Sacramento; e che sembra così fortemente datato nelle sue prospettive e nel suo linguaggio, da farlo appartenere ad un’epoca definitivamente conclusa.

Il testo è «Le véritable esprit» di Catherine Mectilde de Bar [1]: e la lettura a cui intendiamo guidare, non dovrà evidentemente farci dimenticare né la storia di questo testo, né la sua collocazione dentro una determinata stagione storica e spirituale, né il momento ecclesiale in cui veniamo a trovarci noi, che a quel testo ci accostiamo, dopo il Concilio Vaticano II ed il complesso travaglio epocale che ne è seguito.

Daremo tuttavia per scontato sia lo studio puntuale del testo mectildiano e della sua formazione, sia la conoscenza analitica dell’ambiente spirituale del «Grand Siècle» [2]. Tutto ciò resterà sullo sfondo e verrà eventualmente richiamato, man mano che la lettura stessa ce ne offrirà l’opportunità o ce lo richiederà. Agli effetti, invece, di offrire delle chiavi di lettura del documento, ci sembra di fondamentale importanza invitare a porre attenzione a tre seguenti rilievi.

 

1 - Il «Véritable Esprit» non è un testo formalmente teologico, né formalmente «dogmatico». Più in generale potremo dire: non è un testo né teoretico, né «sistematico».

È un testo spirituale. Ciò significa che, in esso, una prospettiva di fede autenticamente cristiana si esprime, e vuole proporsi e venire condivisa; ma al modo di una risonanza vissuta, di una assimilazione personale: quindi con delle accentuazioni, delle messe in evidenza, delle proporzioni che sono proprie di chi risente in sé e vuol far risentire sinteticamente l’intero dato cristiano, ma da un determinato punto di vista vissuto.

L’unità interna, di un simile testo e della proposta che esso presenta, non è dunque l’unità di un sistema: è l’unità di questo determinato punto di vista; si potrebbe dire, di questa «esperienza» fondamentale. Ciò a cui un simile testo mira, è testimoniare, attraverso l’articolarsi di un discorso, la sinteticità e la vitalità di quella esperienza; e – insieme – indurre a condividerla, facendo in qualche modo risuonare con essa o entrare in essa.

Anche il linguaggio che esprime e traduce l’unità del punto di vista vissuto assume pertanto una struttura o delle connotazioni particolari, e come tale andrà ascoltato e interpretato [3]: sia che esso venga forgiato dall’Autore stesso, sia che venga attinto da un ambiente spirituale e assimilato, fino a rigenerarlo o ricrearlo secondo accenti e sfumature personali; sia che si tratti di imprestiti, dei quali l’Autore avverte l’utilità o la possibilità di utilizzo, e che – in quanto tali – integra nel testo che propone.

 

2 - Ciò non significa che non sia legittimo e doveroso interrogarsi – come noi stessi faremo – sull’effettivo valore cristiano dell’intuizione unitaria di un testo come «II Vero Spirito» della De Bar: cioè sulla caratteristica di quella intuizione di essere un punto di vista pienamente situato entro la fede e, perciò stesso, di essere un punto di vista sintetico e vissuto nella fede e nel senso della realtà (di Dio, di Cristo, dell’uomo, del mondo...) che è proprio della fede cristiana. Bisognerà, nondimeno, fare attenzione perché la domanda sia posta in modo corretto: vale a dire, non dimenticando che si tratta di stabilire un rapporto o un confronto tra noi, credenti di questo momento della storia della Chiesa, e la prospettiva spirituale che una credente, come Mectilde de Bar, ha vissuto ed espresso.

È come credenti, certo appartenenti al mondo e alla Chiesa di oggi, ma appunto credenti, che noi ci poniamo a confronto con la credente Mectilde de Bar: non invece come «uomini di oggi» che avvicinano una donna «di ieri» e concludono che, in nome dell’oggi, la sua proposta non si capisce più. È invece, all’interno della visione della fede, che noi dovremo interrogare l’intuizione ed il testo di Mectilde; ed eventualmente dovremo lasciarcene interrogare.

Chiederemo, allora, a lei se e quanto ella è cristiana; ma, a nostra volta, ci lasceremo eventualmente rivolgere la domanda se e quanto noi siamo cristiani. Soltanto verificando l’autenticità della nostra fede o della nostra posizione di credenti, potremo legittimamente porre alle proposte di Mectilde (come ad ogni proposta che intende essere spirituale) la domanda sulla sua autenticità e ricchezza cristiana.

Per questa medesima ragione, si dovrà evitare di interrogarsi e di riflettere sul valore cristiano dell’intuizione di Madre Mectilde, operando una specie di confronto impersonale e materiale tra il testo de «Il Vero Spirito» e le sue affermazioni, da una parte; e i testi del Concilio Vaticano II, dall’altra. Per questa via si viene a domandarsi: «che cosa corrisponde, nel testo mectildiano, al testo o ai testi del Vaticano II?». E inevitabilmente si concluderà: «Tutto quello che non corrisponde (e potrebbe anche essere molto!) bisogna toglierlo».

Ma un simile procedimento è discutibile e, tutto sommato, infecondo. È «il mondo» del testo mectildiano che domanda di essere compreso e ricompreso nella Chiesa di oggi (e quindi anche per la Chiesa di oggi): il «mondo» di una intuizione di fede, compreso e ricompreso dal «mondo» proprio della fede di oggi, una fede che fa riferimento – tra l’altro – all’insegnamento (e non soltanto alla «lettera») del Concilio Vaticano II, e che dovrebbe essere il nostro. Ecco ciò che bisognerebbe fare, per non correre il rischio di «aggiornamenti» incomprensivi, di quanto deve essere «aggiornato». In realtà, se si procedesse per la via del confronto materiale tra testi, si potrebbe arrivare al più a degli «aggiustamenti»: in ogni caso, ne deriverebbe solo la semplificazione o la superficialità.

 

3 - Il «punto di vista» spirituale unitario, che si esprime ne «Il Vero Spirito», apre immediatamente nella direzione della tradizione monastica, in particolare di quella benedettina.

A prima vista ciò potrebbe essere guardato con sospetto, come se un simile incontro non potrebbe dar luogo ad una sintesi, a suo modo originale e vera; e dovesse invece necessariamente dar luogo ad un ibridismo o ad una sovrapposizione di cose. È proprio sulla base di un simile sospetto, che potrebbe legittimarsi l’interrogativo: «deve prevalere l’intuizione "eucaristica" di Madre Mectilde, o deve prevalere il radicamento sul tronco monastico?».

Ma quando si procede per simili vie, si dimostra – come nel caso precedentemente considerato – di procedere secondo una mentalità geometrica, che considera la tradizione monastica da un lato, e l’intuizione mectildiana dall’altro, come due entità perfettamente solidificate e che rimangono reciprocamente esteriori.

Non si giunge, invece, a percepire la possibilità di unificazione che deriva dal fatto che l’intuizione mectildiana è semplicemente un punto di vista, a partire dal quale e secondo il quale l’intera tradizione monastica, che fu anche la sua, viene riguardata e ripresa.

Proprio di qui, risulta una sintesi nuova: che non è, per questo meno monastica [4]. Mectilde è piuttosto, una monaca benedettina che «riprende» la propria esperienza, la propria «regola», la propria tradizione dal punto di vista «eucaristico», che è il suo. Così – lo ripetiamo – quanto essa propone non sono due «cose»: che si mettono assieme per via di sottrazione o di somma. Neppure al modo con cui una pietra preziosa (il senso «eucaristico») verrebbe incastonata in un anello (la tradizione benedettina).

Due esempi concreti, tratti da «Il Vero Spirito» ce ne forniranno l’illustrazione convincente.

Al capitolo IX della sua operetta, Mectilde riprende la pagina della «Regula Benedicti» sulla «taciturnitas», il silenzio: e, in ogni caso, esplicitamente essa intende riferirsi all’esperienza anche personale di Benedetto, quella del periodo eremitico vissuto a Subiaco... Ma non riscrive semplicemente il capitolo di Benedetto: ne ripropone o ne ritrova il senso, a partire da un proprio punto di vista, quello della kenosi cristologica: nel momento incarnatorio (vita di Gesù in Maria) e nel momento eucaristico. Il silenzio monastico che Mectilde ora ripropone, deve «onorare» questi «due» silenzi di Gesù.

Essi, agli occhi della Fondatrice, conservano una certa analogia (il Cristo è in Maria; il Cristo eucaristico è veramente in noi, quando è ricevuto nella Comunione: nell’uno e nell’altro caso si può vedere una sorta di «cattività», di prigionia volontaria); e, nel contempo, rivelano una immensa distanza. Perché, in noi, ciò che Cristo incontra è la condizione di peccatori che non gli lasciano la libertà di agire e di operare, perché non accettano di essere stabiliti nel «nulla». Così, Mectilde parla della «captivité terrible et effroyable qu’il souffre dans nos poitrines» [5].

Anche al capitolo II, Mectilde riprende a suo modo un capitolo della Regula: la «scala humilitatis». Lo riprende a suo modo: perché propriamente i gradini non sono i dodici del testo benedettino; e si hanno invece le «dieci delizie» della Figlia del SS. Sacramento; e le «sette debolezze» che devono essere evitate, perché segno di una non perfetta «stabilizzazione» nel «santo annientamento». Eppure, nel caso della Regola di S. Benedetto, e in quello de «Il Vero Spirito», il tema di fondo è sempre il distacco da se stessi.

 

Ma qual è il punto di vista di Mectilde? È la kenosi eucaristica; così che tutto viene sintetizzato nella formula: «notre principal devoir... de nous y lier, d’y avoir rapport»; e da questa formula prende, a suo modo, logica giustificazione.

Se così è, perde non solo di rilievo, ma di senso anche ogni tentativo di giustificare la proposta mectildiana, cercando di ritrovare continuità storica se non tra il testo benedettino e quello di Mectilde, almeno tra l’esperienza di Benedetto e l’intuizione-chiave della Fondatrice francese. «Il Vero Spirito» registra, infatti, un tentativo di tal genere, compiuto dalla stessa Mectilde [6]: ma sarà difficile acconsentirvi, sul piano delle ricerche storiche. Varrà meglio accettare che la verità storica della fondazione di Mectilde sta nella sua caratteristica di riesprimere, dal punto di vista della kenosi eucaristica, l’intuizione, la fondazione e la tradizione benedettina: e perciò stesso di riproporla in termini nuovi, immediatamente contestuali ad un periodo storico ed alle sue sollecitazioni, eppure, in esso non esclusivamente conclusi.

Il punto di vista specifico della spiritualità mectildiana: la «kenosi» eucaristica

«Kenosi» non è un termine di Mectilde de Bar: è il termine che Paolo (Fil 2, 7) usa per esprimere la condizione di Colui che, pur essendo «nella forma di Dio», vive nell’ubbidienza fino alla morte di Croce, realizzando la figura isaiana del «servo», e ricevendo così «il nome superiore ad ogni nome», quello di «Signore», a cui «ogni ginocchio si piega».

La condizione dell’ubbidienza del Cristo Gesù, o del Signore-Servo di Dio per gli uomini appare a Paolo come uno «svuotamento», un «annientamento»: il termine greco usato è appunto quello di «kenosi».

Mectilde non utilizza materialmente questo vocabolo, e, nondimeno, parla come Paolo e per esplicito riferimento ai Filippesi, di «annientamento» di Cristo, cogliendolo immediatamente nello stato eucaristico, ma in continuo rimando all’annientamento «pasquale», quello della Croce, che si apre alla risurrezione.

Volendo ricorrere ad una categoria storiografica, utile anche se approssimativa, si potrebbe dire che il senso della kenosi eucaristica, nel suo costitutivo ed esplicitamente richiamato rimando alla kenosi pasquale di Cristo, dà specificità al fondamentale «cristocentrismo» della spiritualità di Mectilde de Bar.

Quando Mectilde pensa all’«annientamento» di Cristo, pensa, dunque – concretamente ed intuitivamente – anzitutto all’Eucaristia: la fede nel sacrificio eucaristico, nella comunione, nella presenza reale sostiene e giustifica l’intuizione.

Ma si dovrà subito notare, come o secondo quali registri viene contenutizzata l’intuizione della kenosi eucaristica. Essi sono due.

Vi è anzitutto un registro che potremmo chiamare storico-descrittivo (la riduzione del Cristo eucaristico al silenzio e all’impotenza; l’annientamento secondo la via comune del cibo e della bevanda; l’esposizione alle profanazioni, ecc.).

E ve n’è uno più profondo ed essenziale: quello che collega per diverse vie e con diversi imprestiti anche alla teologia del tempo, la kenosi eucaristica a quella pasquale, È sempre infatti il medesimo Cristo; e l’eucaristia non è un’«altra cosa» rispetto alla croce del Signore: più precisamente rispetto al «dono» di sé, alla «consegna» di sé fino alla morte, che appunto sulla croce è stata compiuta.

 

Certo, il registro storico-descrittivo non è irrilevante nei confronti del senso della fede: il quale può sempre cogliere, anche a questo livello di «annientamento» le tracce o i segni di un incomprensibile gratuito amore, fedele con se stesso nella rinuncia a qualsiasi logica di «potenza», e nella fondamentale e liberissima opzione della «consegna» non solo agli uomini, ma ai peccatori; – per i peccatori –. E i peccatori saranno sì, per Mectilde, i profanatori dell’Eucaristia, e coloro che la ricevono sacrilegamente; ma anche – in un senso più generale, e tuttavia non meno vero – ognuno di noi: a misura della nostra profonda e reale impurità [7].

Tuttavia, la meditazione della «consegna eucaristica» ai peccatori, non trova in se stessa il quadro ultimo di comprensione e di riferimento. Essa non specifica la spiritualità e la vocazione mectildiana, se non in quanto rimanda al gesto storico ed unico della Croce di cui l’eucaristia (e quindi anche gli aspetti di «kenosi» che vi si possono cogliere) è «rappresentazione» [8].

È la Croce, nelle due fondamentali coordinate che il Nuovo Testamento vi coglie (con il Padre, di fronte al Padre, per il Padre; con i peccatori, per i peccatori) a fornire a Mectilde de Bar la chiave profonda di comprensione dell’eucaristia [9], la quale, se in un certo senso prolunga l’«annientamento» della Croce, perché sembra aggiungervi un certo numero di circostanze nuove, sostanzialmente rimane quell’unico e medesimo «annientamento».

Complessivamente l’intuizione è limpida, ed espressa con la desiderabile chiarezza: anche se non sarà difficile cogliere dei limiti di prospettiva o di spiegazione, là dove Mectilde cerca di illustrare analiticamente o di svolgere, in funzione «pratica», l’intuizione stessa. Sono le caratteristiche ed i limiti della sensibilità spirituale del mondo a cui Mectilde appartiene, e quelli di una teologia o di talune fonti teologico-spirituali a cui la fondatrice ricorre, e che hanno alimentato certamente la sua meditazione, senza tuttavia renderla in senso proprio dipendente da esse.

I limiti di cui parliamo si potranno individuare lungo due direttrici.

La prima, riguarda, il modo di esprimere il rapporto tra l’eucaristia (soprattutto la Messa) e la Croce: Mectilde coglie, come del resto esige la fede, tale rapporto come una identità nella differenza, rapporto che è abbastanza felicemente espresso – almeno in prima istanza – con il termine di «rappresentazione». Ma la tendenza del tempo e della teologia del tempo è quella di descrivere tale «rappresentazione», quasi il «sacrificio» eucaristico fosse una specie di «allegoria» del «sacrificio» della Croce [10]. Così ci si domanda come alla Messa abbia luogo una vera azione «immolatrice» che rappresenti, senza propriamente ripetere, la «immolazione» del Calvario. E «immolazione» significa annientamento, distruzione della vittima offerta. Come questo è possibile? Dove si può e si deve ravvisarlo? Si potrà pensare che la stessa presenza eucaristica (la «transustanziazione») sia in un certo senso una specie di immolazione «rappresentativa» di Cristo? O si dovrà pensare che tale «rappresentazione» si attui nella duplice separata consacrazione, del corpo e del sangue del Signore? O si dovrà ritenere – come Bellarmino – che la «rappresentazione» dell’immolazione si ha propriamente nella comunione eucaristica, quando la presenza eucaristica viene definitivamente a cessare? Domande di un ambiente o di una stagione teologica, di cui cogliamo, come si è detto, il limite: soprattutto perché pensa alla Messa come ad un «sacrificio» che sta «accanto» al sacrificio della Croce, e in questo senso lo «rappresenta». Non giunge ancora, invece, ad esprimere l’unità della Messa e della Croce in termini di «sacramento» o di «memoriale» [11]. Non ci meraviglieremo, allora, di sentire Mectilde affermare: «quelle apparence de voir sur l’Autel, immolé aussi véritablement que sur le Calvaire...» [12]. Ma, insieme, non trascureremo di rilevare l’intuizione che la Messa ci rende presenti non ad un altro sacrificio, ma alla Croce stessa: «croyez que vous êtez réellement présentes à ce grande et terrible sacrifice...» [13].

Sempre in una direzione allegorizzante leggeremo le pagine in cui, presentando un metodo di partecipazione alla Messa, Mectilde utilizza uno schema di parallelismo tra meditazione della Messa e meditazione della passione: schema largamente diffuso a partire dalla devozione medioevale. Si noterà tuttavia che Mectilde interiorizza tale parallelismo non solo perché non drammatizza la «rappresentazione» collegando i vari gesti liturgici coi diversi momenti della passione, ma perché invita ad una partecipazione allo «interieur» di Gesù ed a riceverne una «impressione» effettiva [14].

Qual è la densità di significato spirituale della «immolazione» del Calvario, e quindi anche della «immolazione» eucaristica? Come la si comprende e la si esprime? Queste domande ci introducono a prendere in considerazione quei punti in cui le due essenziali coordinate di lettura della kenosi pasquale, offerte dal Nuovo Testamento, vengono riespresse da Mectilde secondo un quadro della «religione» e del rapporto tra giustizia e misericordia, di cui si deve cogliere il senso ed eventualmente ancora una volta il limite.

Il sacrificio di Cristo, come «immolazione-distruzione» acquista la sua densità «religiosa», ad esempio, quando Mectilde prende da Condren [15] le linee di un’analisi del rapporto tra virtù della «religione» e sacrificio: il sacrificio è il gesto per eccellenza della «religione» perché la religione è «adorazione», cioè annientamento della creatura che si riconosce come «nulla» e vorrebbe porsi come «nulla» davanti alla Realtà divina, almeno «rappresentativamente», finché la realtà stessa della morte non viene ad esprimere, a realizzare l’adorazione totale all’Essere assoluto. Questo «omaggio» alla bontà divina dev’essere colto anche nella morte di Cristo.

Ma la morte della creatura umana, e di Cristo, non è semplicemente «adorazione»: l’uomo è un peccatore; la morte è anche la pena del peccato. Essa esprime, dunque, la posizione della creatura «sotto i colpi» della «giustizia» di Dio, la giustizia del Dio Santo. Anche la morte di Cristo dovrà dunque essere compresa così: atto supremo di omaggio alla Maestà divina, e insieme suprema offerta dell’Innocenza stessa alla giustizia-santità di Dio. Offerta di Colui che è solidale con i peccatori: e quindi è in «posture de criminel», essendo entrato «dans l’abîme du néant», quello della creatura-adorante e quello del peccatore oggetto della «giustizia». È così che Mectilde sottolinea: «la justice divine en colère, décharge sur cet Agneau tous les traits de sa fureur... Il serait difficile d’exprimer la douleur du Fils de Dieu... La peine que lui causa le rebut de son Père fut si grande... (qu’) il s’écria: Mon Père, que ce calice passe...» [16]. O ancora: «Tout le Ciel tremble et frémit d’horreur, voyant un Dieu réduit sous la figure d’un criminel... C’est ici que Jésus paraît criminel, quoique sans crime; c’est ici où il est traité en rigueur par la justice et sainteté divine; c’est ici où il est fait notre victime... » [17]. In questo contesto, Mectilde riprende anche il tema bérulliano della «penitenza» del Figlio di Dio: «c’est pour nous qu’il est contrit, et humilié... il fait la pénitence que nous ne sommes pas capables de pratiquer» [18].

Certo, l’esercizio da parte di Cristo di una religione-adorante, che si offre al «rigore» della giustizia divina è in vista di una misericordia per noi: misericordia che, per essere «giusta» non è meno «misericordia» che perdona e rende possibile la comunione dell’uomo perdonato con sé. Resta nondimeno l’interrogativo se un simile quadro giustizialistico-vendicativo di lettura della «giustizia» di Dio non sia troppo povero e riduttivo nei confronti della tematica biblica della «giustizia» del Dio Salvatore; e, in particolare, se sia veramente corretto e adeguato pensare il Figlio Gesù Cristo come punito in sostituzione ed a liberazione dei peccatori. Anche il rapporto Figlio-Padre, espresso in termini di «religione» che si «annienta» nella morte, rende difficilmente le armoniche proprie dell’ubbidienza del Figlio, vissute in una comunione e in un abbandono fiducioso, da parte di colui che «si dona» mentre si lascia «donare».

Tocchiamo qui la povertà di uno schema interpretativo, rispetto alla realtà da interpretare. E, tuttavia, è innegabile che quello schema coglie e ripropone, della realtà della kenosi cristologica ed eucaristica, una dimensione che non si dovrà mai troppo facilmente semplificare. È la dimensione della drammaticità propria dell’ubbidienza del Figlio che si esprime nella morte di Croce: poiché se tale ubbidienza è l’espressione del Figlio-nella-carne totalmente «riferito» al Padre, e in comunione col Padre, essa – nondimeno – è simultaneamente espressione di una sorta di «lontananza», di «sicurezza» del Figlio dal Padre. La «lontananza» o la «distanza» per cui egli è realmente solidale coi «peccatori», è realmente «alla mensa dei peccatori»: e pertanto, pur nella comunione col Padre, egli può vivere realmente quasi un «abbandono», da parte del Padre. Non si tratta di un «rifiuto» subito da Cristo: si tratta di una condizione reale, obiettiva. L’essere coi «peccatori» realizza una specie di distanza di Cristo dalla «santità» divina, e proprio da parte di Colui che – come Figlio – non può invece essere assolutamente, in nessun modo «peccatore».

Le implicazioni fondamentali del «punto di vista»:un senso degli uomini e dell’uomo; un senso di Dio

La kenosi della Croce, e quindi dell’eucaristia, non può essere considerata – già lo si è ripetuto – a prescindere dai due fondamentali riferimenti a Dio e agli uomini peccatori, bisognosi di salvezza, di riconciliazione con Dio. Così, lo sguardo contemplativo sul Cristo «annientato» è, connaturalmente, anche uno sguardo sul mistero dell’uomo e sul mistero di Dio: e il movimento di partecipazione-condivisione dell’«annientamento» di Cristo è, nello stesso tempo, movimento di condivisione del suo riferirsi agli uomini e del suo riferirsi a Dio.

 

1 - Parliamo dunque anzitutto di un senso degli uomini e di un senso dell’uomo, implicato nel fondamentale «punto di vista» nella kenosi eucaristica-pasquale di Cristo.

Gli uomini: sono quelli concreti, quelli che si esprimono negli avvenimenti della storia, così spesso teatro di scontro con Cristo o di rifiuto o di indifferenza nei confronti di lui, che pure è la salvezza dell’uomo.

È il senso della presenza del «peccato» negli uomini e nel costruirsi della storia: senso così profondamente biblico e cristiano, che – in una teologia come quella di Giovanni – si riassumerebbe bene con il termine «mondo». Il «mondo» che Dio ama e che Dio vuole salvare, donandogli il Figlio unico (Gv 3, 16-17), è proprio quel modo di comportarsi, di esprimersi, di agire dell’uomo e della sua libertà, che si pone in antitesi con l’iniziativa dell’amore di Dio.

La kenosi della Croce rivelerà precisamente in maniera quasi emblematica questo incontro drammatico: negli uomini che conducono Gesù alla morte. Ma agli occhi di Mectilde questo comportamento si prolunga nei confronti del Cristo eucaristico: nei diversi tipi e modi di profanazione, che il periodo storico in cui ella visse rendeva attuali, ed ai quali il Cristo resta perennemente e volontariamente esposto.

Crediamo che non si forzi il pensiero della Fondatrice se si ritengono queste due emergenze del «peccato» degli uomini di fronte al dono del Cristo «annientato», più come emblematiche che come esaustive. Se si guarda la storia degli uomini alla luce della kenosi di Cristo e del suo significato «redentore», non è possibile non cogliere in essa la manifestazione del «peccato» umano, e giudicare ciò che in essa, secondo la «sapienza» divina, è «peccato».

Non è precisamente questo – secondo Giovanni (16, 7-11) –, il compito dello Spirito che, nell’atto stesso in cui si pone come «difensore» di Cristo, si fa «accusatore» del «mondo», cioè rivelatore del suo torto e del suo peccato?

Certo, nella storia non vi è solo «peccato», né vi sono solo uomini «peccatori». Non è questo ciò che Mectilde insegna, e si sbaglierebbe volendo leggere ne «Il Vero Spirito» un discorso sulla storia «universale» o una teologia della storia. Basterà invece mantenere il richiamo mectildiano nelle sue proporzioni precise: quelle di una acuta e sofferta percezione di ciò che nel comportamento pubblico, sociale, storico degli uomini, di fronte al Cristo «annientato» per loro e alla luce di questo stesso «annientamento», appare come «peccato», e in quanto tale deve essere chiamato, valutato, rifiutato, riparato. Acuta e sofferta percezione che Mectilde intende comunicare e far condividere, suscitando un atteggiamento spirituale analogo ed in sintonia con il proprio, di fronte alle «colpe pubbliche degli uomini».

 

Ma, più importante e certamente più complesso è cogliere ne «Il Vero Spirito» il senso dell’uomo che, sempre in maniera non sistematica, e tuttavia sicuramente coerente, Mectilde vi viene esprimendo.

Certo è sempre dell’uomo concreto – creato, decaduto, redento – che si tratta: ma – ora – più per dire come egli è e come dovrebbe essere, che per descrivere come egli si comporta.

A prima vista, due punti nodali sembrano segnare questo aspetto della meditazione mectildiana sull’uomo, nella luce della kenosi. Il primo di questi punti nodali si può sintetizzare nel senso religioso di «nulla» e dell’«annientamento» inteso come accettazione coerente del proprio essere «nulla».

Il secondo, va individuato nella lettura dell’uomo come «amore», collocato entro una tensione tra «amore disinteressato» (puro) e amore «interessato».

In realtà le due prospettive si raggiungono, anzi si adeguano e ultimamente, così ci sembra, troverebbero la loro più profonda prospettiva di sintesi nell’antropologia, di stampo patristico, dell’uomo creato «ad immagine» e fatto per la «somiglianza» con Dio.

 

Di fronte al Cristo «annientato» l’uomo scopre o dovrebbe scoprire che la sua verità è funzione di un duplice «nulla»: nulla di essere e nulla di peccato [19]. Quasi un duplice abisso che lo richiama, da un lato, alla percezione della sua umiltà-umiliazione radicale (non dalla parte di Colui che è, ma dalla parte di colui che non è; ed è soltanto in rimando, in riferimento, in dipendenza dalla «assolutezza» e dalla «maestà» divina); e, dall’altro, lo mantiene costantemente nella percezione di ciò che lo oppone o che istituisce una incompatibilità con Dio (la sua giustizia, la sua santità); ad un livello che va ben più in là della esperienza dei propri peccati e del proprio «fondo» cattivo, perché giunge fino al nostro misterioso rapporto con «Adamo» peccatore [20].

Se l’uomo non accetta di leggere la propria realtà in funzione di questo duplice «nulla», in definitiva si illude. Ma leggere la realtà dell’uomo come «nulla» di essere e di peccato, cioè come inconsistenza radicale e come incompatibilità con Dio, non è semplicemente averne un’idea o provocarsi una vertigine: è accettare di mettersi e di essere messi nella propria verità, attraverso l’«annientamento» di sé.

L’annientamento del proprio «nulla» di peccatore, non sarà che il rinnegamento del peccatore che è dentro di noi, ma più profondamente sarà l’aprirsi alle esigenze della purificazione e della liberazione dal male che la grazia del Cristo «annientato» per noi è capace di operare in noi. È la distruzione della incompatibilità con Dio, è la sconfessione della solidarietà con Adamo ed è la ratifica della solidarietà con Cristo e con la sua obbedienza filiale: ratifica anche dolorosa e faticosa, a prezzo della quale il «nulla» di peccato, e perciò il peccatore, viene «annientato» in noi.

L’«annientamento» per riconduzione al proprio «nulla di essere» non è e non deve essere inteso come l’autodistruzione di sé, la compressione ad oltranza e senza alcun criterio direttivo, di ogni propria virtualità o potenzialità.

In sostanza si tratta dell’accettazione vitale e vissuta, e perciò anche «praticata» della propria radicale inconsistenza ed autonomia: quell’accettazione che l’uomo orgoglioso e disubbidiente, al pari di Adamo e ripetendo la sua storia, rifiuta.

Immediatamente, dunque, anche questo tipo di riduzione al «nulla» comporta l’annientamento di ogni pretesa all’autosufficienza e all’autoconsistenza assoluta.

Pretesa, questa, che – come si vede – non può non collocarsi essa stessa nell’ambito di quel «nulla di peccato», in cui il peccatore si è stabilito, e da cui non può uscire se non a prezzo di quell’«annientamento» di cui si è detto.

Una distinzione si potrà comunque e si dovrà mantenere: a misura che il «nulla di essere» in cui ci si deve collocare è la stessa condizione di creature dell’uomo, che va accettata come la più fondamentale condizione della propria verità; mentre il «nulla di peccato» è in sostanza la privazione della grazia; ed è pertanto la negazione della condizione di verità dell’uomo nell’attuale disegno di Dio, disegno di Alleanza. Dal «nulla di peccato» l’uomo deve uscire; nel «nulla di essere», l’uomo si deve collocare. La miseria dell’uomo sta simultaneamente nel rifiutare il proprio «nulla di essere» e nel non riconoscere, nel non rifiutare, nell’amare il proprio «nulla di peccato».

 

Ancora una volta, si dovrà rilevare che i testi mectildiani sul «nulla» dell’uomo non sviluppano una teoria né sull’uomo come «creatura», né sull’uomo come «peccatore». Non c’è alcuna pretesa di rigore teologico o metafisico in tutto ciò: c’è piuttosto l’espressione di una intuizione religiosa e di valore, prevalentemente affettiva, e in sé orientata ad evocare e a situare in un’atmosfera spirituale, polarizzando l’intero dinamismo complessivo di una persona. Potremmo, dunque, dire che «nulla» e «annientamento» sono piuttosto dei «simboli» che dei concetti precisi [21].

La verità e la miseria dell’uomo, espressa in funzione del duplice «nulla» e del duplice «annientamento» si traducono pure – nel discorso mectildiano – in funzione della tensione tra amore «puro» e amore «proprietario» o «interessato». Quest’ultimo è l’espressione dell’uomo «peccatore»: cioè dell’uomo che non intende uscire dal proprio «nulla di peccato» e non intende riconoscere il proprio nulla di essere.

È l’amore dell’uomo che vuole essere «proprietario» di se stesso; è l’amore dell’uomo incapace di umiltà e di distacco dalla volontà propria, e quindi incapace di disponibilità e di obbedienza a Dio, o – se vogliamo – di quella oblatività incondizionata nei confronti di Dio, che fa affrontare una sorta di perdita di se stessi e da se stessi, per ritrovarsi precisamente fuori da se stessi, nel proprio centro eccentrico, che è Dio.

Invece l’amore «puro», cioè non più proprietario e centrato su di sé, è l’amore disinteressato, «estatico», autentico. La carità è questo amore «puro», gratuito, oblativo dell’uomo nei confronti di Dio.

Proprio per questo esso esprime l’uomo collocato nel suo «nulla di essere», e – insieme –  l’uomo che ha accettato di uscire dal proprio «nulla di peccato»: è dunque l’amore che esprime l’uomo nella sua «verità».

La condizione per l’esprimersi dell’amore «puro» è lo «annientamento» dell’amore proprietario ed interessato: l’intero itinerario spirituale potrà essere così descritto come un cammino da un amore all’altro. In concreto, la misura dell’autenticità dell’amore «puro» sarà da ritrovare in Mectilde, come in Francesco di Sales e in Fénelon, nel riferimento alla Volontà di Dio, nel pieno abbandono in lui, nel fare di questa volontà, che non è mai un arbitrio, l’unico «interesse» della propria vita [22].

L’accenno a Francesco di Sales ed a Fénelon permette di collocare la tematica mectildiana in un preciso contesto spirituale, che peraltro affonda le sue radici in Agostino ed in tutta una lunga tradizione teologico-spirituale che trae origine da lui. Non precisamente nel solco di questa tradizione, ma in effettiva consonanza con essa; non si dovrà però trascurare – nel caso di Mectilde – anche un testo di riferimento come la Regola Benedettina: precisamente là dove essa insegna il rinnegamento della volontà propria, per la partecipazione al cammino di obbedienza di Cristo. A quest’ultimo proposito, anzi, andrà richiamato che, pur nella ripresa di una tematica come questa, Mectilde ancora una volta non abbandona il punto di vista cristologico, che è il suo. Il Cristo della kenosi pasquale-eucaristica è il Cristo «annientato» nell’ubbidienza-adorazione, il Cristo che entra nell’«annientamento» del peccato, in forza della propria solidarietà con i peccatori. Così egli rivela all’uomo la propria verità nel suo duplice «nulla»; ma insieme gli rivela l’amore totalmente disinteressato, nell’obbedienza e nel dono della vita; l’amore veramente «povero» che agli occhi di Mectilde appare soltanto in Cristo, il nuovo Adamo [23].

 

I due registri di lettura della verità e della miseria dell’uomo, fin qui presi in considerazione, trovano forse la loro unificazione più profonda in una pagina sintetica molto importante de «Il Vero Spirito». Mectilde vi riprende come si è accennato all’inizio, il tema dell’uomo «ad immagine e somiglianza». «Immagine» esprime – secondo una esegesi di Genesi 1, che si trova già in Ireneo – l’uomo, in quanto creato da Dio; «somiglianza» esprime l’uomo in quanto posto nella grazia, nella alleanza con Dio. Si tratta allora di accettare di essere «immagine»: cioè totalmente riferiti, costruiti in riferimento a Dio, e quasi esemplati su di lui. Ecco, in fondo, il senso vero, cristiano, positivo del proprio «nulla di essere». Accettarlo come un dato talmente radicale che neppure il peccato può distruggerlo.

Ma si tratta ancora di accettare di essere una immagine «per la somiglianza»: non dunque per la dissomiglianza e nella dissomiglianza del peccato. La situazione del «nulla di peccato» va superata e risolta nel ritrovamento continuo della «somiglianza» a cui il Battesimo ci ha restituiti, e quindi nell’annientamento del peccatore che è in noi. Il sentiero per arrivarvi è un sentiero di spogliazione e di separazione da se stessi, e da tante cose, «ai piedi della Croce». Sentiero stretto, sentiero della fede: per il quale la fede sola è fiaccola ed appoggio [24]. E la fede, in quanto si affida alla parola che promette, si apre nell’abbandono fiducioso della speranza. Come per il buon ladrone.

Certo, è Dio, è la Trinità che ci fa sua dimora: così che quasi i due concetti di «somiglianza» e di «dimora» coincidono. Noi non potremmo pretendere né all’una né all’altra cosa, partendo dalle nostre possibilità. Ma il senso della iniziativa divina, concretizzata a partire dal Battesimo, fonda un’esigenza: quella della spogliazione da noi stessi e dal nostro amore «proprietario», che simultaneamente ci fa riputare di essere «ad immagine» e ci fa amare di essere nella «dissomiglianza».

 

2 - Meno complessa apparirà, dopo quanto abbiamo già rilevato sulla dimensione teo-centrica della kenosi eucaristica-pasquale, la presentazione del senso di Dio emergente da questo fondamentale punto di vista [25].

È un senso di Dio mediato, come già si è detto, da una visione acutamente «religiosa» dell’assolutezza – maestà di Colui che è –, e – insieme – della giustizia-santità di Colui che è incompatibile con il peccato dei peccatori, ai quali pure viene incontro per usare misericordia [26]. Il senso del «nulla» di essere e di peccato, e più ancora il senso dello «annientamento» si colorano così di una profonda tonalità «adorante»: la traiettoria antropologica e la traiettoria teologica si incontrano. Dal Dio di maestà, che è santo e giusto, e non solo dall’uomo considerato in riferimento a Dio, deriva e prende connotazione «religiosamente» il senso del proprio duplice «nulla», del duplice abisso in funzione del quale l’uomo circoscrive la propria «verità».

Tuttavia si sbaglierebbe se si svincolasse questo aspetto del senso di Dio, che indubbiamente risalta da «Il Vero Spirito», da tutto un insieme di armoniche volte a mettere in primo piano non il senso «religioso» della distanza di Dio, ma il senso della comunione offerta, realizzata, vissuta.

Il Dio di Mectilde non è, insomma, soltanto, né prima di tutto, una «Maestà», una Volontà assoluta e assolutamente santa e giusta, a cui ci si sottopone. Non è solo e prima di tutto una giustizia che domanda riparazione e soddisfazione, una santità che respinge il peccato e il peccatore.

Il Dio di Mectilde rimane il Dio che ci ha creati «per la somiglianza» e quindi vuol fare di noi la sua «dimora» [27]. È il Dio a cui ci si può abbandonare con una fiducia totale, anche se nell’oscurità della fede [28]. È il Dio di fronte al quale, pur presentandoci come peccatori e «criminali», manteniamo e dobbiamo mantenere nondimeno il senso di una misericordia che perdona [29]. E il mistero della comunione eucaristica con il Cristo della kenosi, ancora una volta non deve ispirarci altri sentimenti: venendo in noi e prendendo dimora in noi, il suo desiderio non è altro che operare dentro di noi per una comunione/trasformazione in lui, segretamente associandoci – lungo l’austero cammino della fede – alla sua morte e alla sua vita (risurrezione) [30].

Non c’è dunque adorazione senza comunione; si direbbe anzi: se non nella comunione accolta e realizzata. Così come, simmetricamente, non c’è maestà, né giustizia né santità divina senza quell’amore e quella misericordia che si dona in solidarietà con i peccatori nella kenosi di Cristo, al fine di chiamare alla comunione con sé. Si direbbe anzi, e forse meglio: maestà, santità, giustizia sono proprie di un amore misericordioso; e l’amore misericordioso è proprio di una maestà, santità, e giustizia infinita. «Lontananza» del Dio realmente e ineffabilmente «vicino».

Kenosi eucaristica e coerenza interna della vocazione mectildiana

L’intuizione spirituale di Mectilde, nella sua essenzialità e comprensività, sorregge e permette di scoprire senza difficoltà la logica del processo vocazionale ed istituzionale che da lei è stato vissuto e che ne è derivato.

Le due cose – cioè l’istituzione ed il progetto – sono evidentemente procedute insieme nello svolgersi dell’itinerario spirituale di Mectilde. Ma non è privo di importanza rilevare che la loro vitale unità, nella personalità della fondatrice e nella vocazione mectildiana non può essere tradotta in maniera deduttiva, quasi geometrica. Dalla intuizione della kenosi pasquale-eucaristica si concluderebbe direttamente alle Benedettine del SS. Sacramento.

Ora il «punto di vista» della kenosi è anzitutto un punto di vista sull’intero cristianesimo, su ciò che significa essere cristiani. Come tale, esso può essere proposto, accolto, vissuto anche da ogni cristiano. Realizzare, invece, una vita monastica benedettina dal punto di vista ed in coerenza col punto di vista della kenosi eucaristica, ciò suppone una vocazione mectildiana. Vocazione monastica – lo ripetiamo – vocazione contemplativa, nella logica (cioè nella prospettiva e in coerenza con la prospettiva) del Cristo «annientato» dell’Eucaristia e della Croce [31].

 

Volendo presentare i punti specifici di questa coerenza, come essi emergono da «Il Vero Spirito» li ricondurremmo ai seguenti.

Alcune formule anzitutto esprimeranno sinteticamente il raccordo tra l’intuizione fondamentale e la vocazione mectildiana. Due ne ricordiamo: la vocazione mectildiana – dice «Il Vero Spirito» – è vocazione a vivere da monache benedettine «portando lo stato» e «rendendo omaggio» od «onorando» lo stato del Cristo eucaristico, la sua «kenosi» eucaristica [32].

Si tratta di espressioni di tipico stampo bérulliano: il cui significato profondo non è colto, se esse vengono semplicemente ricondotte ad indicare un programma di virtù da praticare, per riprodurre quasi «allegoricamente» – sul piano dell’applicazione etico-virtuosa – alcuni aspetti di una condizione, di un mistero, di un fatto di Cristo. Quelle formule vogliono indicare in definitiva un modo di essere dell’uomo che prende «figura», e riesprime un «mistero» o uno «stato» di Cristo: e proprio perché prende figura da tale stato, gli rende «omaggio», lo «onora», così come l’immagine o, meglio ancora, l’impressione del sigillo, per il suo rinviare alla realtà che fa impronta di sé, le rende «omaggio» e la «onora». Ci avviciniamo così – lo si vede – al concetto biblico di «gloria», come impronta-manifestazione di Colui che si «glorifica» manifestandosi in tal modo. Si rende dunque «omaggio» o si «onora», anzitutto perché si diventa, secondo tutto quello che si è, una somiglianza partecipante.

Che cosa significherà dunque che le Figlie del SS. Sacramento portano lo «stato» del Cristo eucaristico, della sua kenosi?

Prima che un insieme di pratiche e di cose da fare, ciò significherà che esse intendono lasciarsi configurare dallo «stato» del Cristo eucaristico. È il Cristo della kenosi eucaristica che le chiama a «portare» l’impronta di sé, e quindi ne fa una «glorificazione» di sé, una realtà che lo «onora», gli «rende omaggio», lo «adora». In tal modo, esse lo riesprimeranno: e, riesprimendolo, saranno «vittime» come lui. Dovranno vedere ed interpretare la loro vocazione monastica e contemplativa come vocazione ad offrirsi, alla partecipazione, alla configurazione a questo «stato» di Cristo: offerta totale, di tutta la vita e per tutta la vita.

 

In concreto, l’offerta totale al Cristo della kenosi eucaristica e pasquale per «portarne lo stato» comporta che le due fondamentali dimensioni dello «annientamento» di Cristo – verso il Padre e verso gli uomini peccatori – diventino le dimensioni fondamentali stesse della vocazione mectildiana: con quelle tipiche accentuazioni che già sono state messe in rilievo parlando appunto del senso degli uomini e dell’uomo e del senso di Dio.

In particolare, ne verrà qualificato il «disinteresse» della «vittima»: cioè il suo itinerario dall’amore «proprietario» all’amore «puro» [33]. Le dovrà bastare lasciarsi prendere – in atteggiamento di gratuità, di oblatività – dal mistero del divino «annientamento» di Cristo, lasciandosi via via portare nella direzione dell’ubbidienza - abbandono - umiliazione [34] perché, per la forza della comunione col Cristo, la sua vita stessa diventi un dono di salvezza e per la salvezza del mondo.

 

Certo, lo «stato» del Cristo della kenosi pasquale-eucaristica non lo si può portare solo per gli altri. Anche la «Figlia del SS. Sacramento» deve per la prima collocarsi e lasciarsi collocare nel «nulla di essere», e deve imparare a riconoscere l’abisso di miseria che è il suo «nulla di peccato». L’esperienza di «annientamento» che, per quanto di segno diverso è richiesta da questi due abissi del «nulla», è un’esperienza che anche la monaca mectildiana dovrà realizzare anzitutto per sé: e la realizzerà lasciando che il Cristo dell’eucaristia la conduca «a portare lo stato» della sua morte, e quindi – segretamente, eppure, realmente – della sua vita. Così anch’essa cammina per la via che porta alla «somiglianza»: nella libertà e povertà che caratterizzano l’amore «puro». Alle sue figlie, infatti, Mectilde ricorda con tutta la chiarezza desiderabile che esse non sono né il Cristo (l’unico «povero», l’unico «obbediente») né la Vergine immacolata. Per questo il Cristo eucaristico, al quale esse comunicano, si offre anche e anzitutto in loro ad una specie di «cattività». È la limitatezza che, alla sua iniziativa configurante e trasformante, oppone in maniera più o meno profonda la resistenza di un amore «proprietario», non purificato [35].

 

Il disinteresse secondo il quale la vocazione mectildiana via via domanda che ci si renda disponibili a partecipare alla kenosi eucaristico-pasquale, diventandone così le «vittime», si riassume – come più volte del resto è stato fatto intravedere – nella disponibilità a camminare «nella fede».

È certamente, questa, una delle grandi lezioni che Mectilde ricava da Giovanni della Croce: e sarà senza dubbio istruttivo accostare in proposito alcune grandi pagine de «Il Vero Spirito», dove il richiamo alla fede si fa addirittura appassionato e tradisce indubbiamente l’esperienza personale [36] e i grandi testi della «Salita al Carmelo» (soprattutto, libri I e II). Ma i due itinerari, quello di Mectilde e quello di Giovanni, per quanto sicuramente mistici entrambi, non si configurano allo stesso modo. In Mectilde il senso mistico del rapporto con Dio, nella partecipazione alla kenosi di Cristo, alla sua agonia, al suo abbandono, sembra paradossalmente colorarsi quasi di un senso di «lontananza» o addirittura di «assenza»: si ripensi piuttosto all’ultimo tratto dell’itinerario di Teresa di Lisieux, o – più ancora – al quadro singolare dell’esperienza mistica di un Paolo della Croce [37]. Il tono infatti non è quello di una Teresa d’Avila, né di Giovanni della Croce, autore del «Cantico Spirituale» o della «Fiamma d’amore». In ogni caso, però, e ancora una volta, Mectilde non dimostra – scrivendo «Il Vero Spirito» – alcuna preoccupazione di organizzare le tappe di un cammino spirituale, né di dare giustificazione sistematica e normativa dell’itinerario mistico delle sue Figlie.

La lezione sull’assoluto della «fede», e della fede come unico appoggio e criterio di autenticità del cammino, indipendentemente da ogni ricerca di gratificazione immediata e da ogni assolutizzazione delle «consolazioni» spirituali, è quella che Mectilde sembra preoccupata di impartire e di fare accogliere. Indubbia garanzia di solidità e di oggettività spirituale, nonostante l’innegabile austerità del richiamo. Ma così facendo, non ritrova forse a suo modo – attraverso Giovanni della Croce – una linea importante nella sua stessa spiritualità monastico-benedettina, in quanto fondata sul primato dell’obbedienza alla parola della fede? Certo, questa «parola» aveva finalmente detto a lei particolarmente il senso e il valore di un punto di vista: quello della «kenosi» eucaristica. E a questo punto di vista essa e le sue figlie particolarmente devono l’obbedienza della fede.

 

Proprio perché la vocazione mectildiana è monastica e contemplativa, la sua fecondità andrà ravvisata anzitutto semplicemente nel «portare lo stato» della kenosi eucaristica, in quanto tale: vale a dire, anche prescindendo da ogni prospettiva di «azione».

Si può infatti parlare di una «scala humilitatis» dell’azione apostolica: quella che cerca l’associazione al Cristo della Croce ed ai suoi «obbrobri» precisamente, nella stessa attività apostolica, negli ostacoli, fatiche, contrarietà, umiliazioni, non-gratificazioni che essa comporta. La vita degli Apostoli, come gli Atti la presentano, o come l’epistolario paolino la fa conoscere è a suo modo una prima e fondamentale presentazione di questa maniera di condividere l’annientamento, l’ubbidienza, l’umiliazione di Cristo. E si può indicare nella esperienza vocazionale di Ignazio di Loyola e nei suoi Esercizi un riferimento emblematico, in tal senso, per la storia più recente della spiritualità cristiana [38].

Ma indubbiamente non è di questo tipo la figura ideale di partecipazione alla «kenosi» di Cristo, a cui si sentono chiamate Mectilde de Bar e le sue figlie. Tale partecipazione non si colloca al livello dell’azione, ma dell’essere, o meglio del lasciarsi configurare in pura oblatività. E a questo livello la vocazione mectildiana andrà compresa nel suo valore cristiano proprio e, se così vogliamo dire, nella sua «produttività». È la produttività della fede e dell’amore, che non è anzitutto un «fare» pur potendosi e dovendosi esprimere anche come un «fare». Così, del resto, propriamente ha operato la pura obbedienza, il puro abbandono, la pura dedizione di carità del Cristo sulla croce: «in qua voluntate santificati sumus».

Attualità della proposta mectildiana?

Parlando di proposta mectildiana, ci riferiamo sia al punto di vista fondamentale, sia alla vocazione monastica che a quel punto di vista si ispira.

E l’interrogativo che formuliamo, sempre con particolare riferimento a «Il Vero Spirito», può essere svolto in quattro diverse direzioni.

 

Anzitutto, nei confronti del testo stesso: cioè dell’articolazione che in esso si deve stabilire tra l’intuizione profonda (il «senso»), l’universo mentale-spirituale o il «mondo» proprio a cui il testo appartiene e che nel testo si esprime (la mentalità religioso-spirituale di quel momento storico), l’espressione linguistica come tale.

In stretta correlazione con questo primo approccio interrogativo, se ne porrà un secondo: riguardante il confronto tra l’intuizione mectildiana nelle sue linee essenziali e il senso della fede, e la teologia attuale. Vista con l’occhio critico della teologia (e, prima ancora del senso della fede), l’intuizione mectildiana regge, si sostiene, oppure domanda di essere criticata, rettificata, superata?

Si potrà, allora, passare ad un terzo interrogativo: sulla «significanza» che oggi potrebbe rivestire o non rivestire l’intuizione e, più ancora, la proposta vocazionale, mectildiana.

Infine, la domanda potrà portare – in termini ancor più «vocazionali» e pratici – sulla «praticabilità» del progetto mectildiano. È praticabile, cioè può essere vissuto? E a quali condizioni?

 

1 - Alla prima e seconda modalità dell’interrogativo, abbiamo già dato occasionalmente qualche linea di risposta nella precedente esposizione. E, soprattutto in riferimento alla analisi del testo e dei suoi livelli; troppo lunga sarebbe una ripresa analitica puntuale. Oltretutto, ciò richiederebbe uno studio molto accurato sia della composizione e della organizzazione del testo attuale, sia degli imprestiti più che delle fonti che Mectilde utilizza per illustrare, giustificare, persuadere, rendere praticamente traducibile la sua intuizione e la sua proposta vocazionale. Tale intuizione non le deriva di qui, né in se stessa, né nella coerenza del suo svolgimento. Per questo possono coesistere ugualmente bene imprestiti così diversi come quelli ricavati da un Condren, da un Giovanni della Croce, da un Bernières, da un Epiphane Louis.

Possono coesistere, appunto, perché la spiritualità di Mectilde de Bar, e la logica essenziale del suo discorso, non sono identificabili con nessuna di queste «dottrine» spirituali – che, nel suo scritto, lasciano evidenti tracce di sé –. Tuttavia, per quanto riguarda un confronto critico tra l’intuizione mectildiana e la teologia attuale si potrà velocemente sottolineare, in parte riprendendo delle cose già dette, quanto segue.

 

a) Sul versante della teologia eucaristica sarà utile rilevare una sempre più diffusa coscienza critica nei confronti di una tendenza altrettanto diffusa ad interpretare il rapporto tra l’eucaristia e la pasqua, semplicemente come rapporto con il Cristo risorto o la risurrezione di Cristo. L’Eucaristia invece è «Memoriale mortis Domini»: certo, della morte di Colui che è risorto; dunque della «kenosi» di Colui che è stato «esaltato» ed ha ricevuto il nome di «Signore». Ma non, per questo, semplicemente memoriale della risurrezione [39].

Se così è, si può ben dire che la teologia eucaristica, quella attuale, non va nel senso della sconfessione della intuizione «spirituale» di Mectilde de Bar.

La chiarezza e la fermezza maggiori che tale teologia ha raggiunto nell’affermare l’unità tra la Messa e la Croce, non può che permettere di assimilare meglio l’intuizione mectildiana: l’eucaristia è il «sacramentum passionis», è il «memoriale della passione», che si conclude nella risurrezione e nel «ritorno» del Signore. Per questo, la celebrazione eucaristica ci rende presenti e comunicanti, senza ripetizioni e moltiplicazioni, al gesto unico, irrepetibile, definitivo della Croce.

 

b) Sul versante della cristologia rileveremo pure un sempre più crescente e giustificato interesse per la rimeditazione della kenosi di Cristo: colta non tanto o esclusivamente al momento dell’incarnazione, ma precisamente là dove il Cristo realizza al massimo la figura del «servo», cioè della passione-morte-discesa agli inferi.

Come nel caso della teologia eucaristica, anche in questo caso la riflessione teologica mostra così di farsi attenta non a svuotare di significato salvifico la risurrezione-esaltazione del Signore, ma a non fare assorbire il valore salvifico permanente della passione-morte di Cristo in una unilaterale sottolineatura del valore della risurrezione.

Questa rinnovata riflessione che la cristologia attuale compie sulla kenosi pasquale di Cristo, ripropone alla meditazione cristiana sia la preghiera, sia l’abbandono e l’obbedienza, sia la «fede» e la «speranza», sia l’offerta sacrificale di Cristo, come gesti del Figlio, da lui vissuti con verità nella condizione reale e non apparente della sua kenosi. È il mistero del Figlio che, senza smentire né il proprio riferimento, né la propria comunione col Padre, veramente e liberamente si trova nella condizione dell’uomo ed è tra gli uomini peccatori a dare consistenza e verità singolari a quella ubbidienza e offerta [40].

 

c) Infine, sul versante dell’antropologia, andrà semplicemente richiamato che il senso dell’uomo come «creatura» ad immagine di Dio, e come «peccatore» rappresentano certo due fondamentali componenti del senso cristiano dell’uomo. Un’allergia che anche il mondo cattolico attuale sembra rivelare nei confronti di tali fondamentali richiami, controproponendo un senso ambiguo dell’esistenza e della positività dell’umano e delle sue mete, merita certamente di essere orientata ad un’autocritica.

Ora, Mectilde de Bar può essere considerata uno dei punti permanenti di richiamo, emergenti dalla tradizione cristiana, a tale autocritica; e proprio in quanto tale mantiene tutta la sua attualità: una volta che la lezione mectildiana sia ben compresa attraverso il suo modo di formularsi.

Tuttavia, la lettura dell’uomo come «nulla di essere», e quindi come creatura totalmente «ad immaginem», e la considerazione sull’uomo peccatore, fatto per la «somiglianza», che gli è restituita per l’annientamento volontario di Cristo, potrebbero e dovrebbero trovare il punto unitario di integrazione in una più nettamente accentuata visione del primato della centralità assoluta di Cristo.

Secondo il Nuovo Testamento, infatti, l’uomo «creato ad immagine per la somiglianza» è originariamente pensato «in Cristo», ad immagine di lui. Per questo, la verità profonda dell’uomo è nell’Alleanza, cioè in Cristo; per questo, il peccato – come privazione dell’Alleanza e della somiglianza con Cristo – è la negazione della verità profonda dell’uomo. È la sua inautenticità; è la sua falsificazione.

Così si illumina anche la ragione ultima della solidarietà di Cristo con gli uomini: ragione tanto profonda che neppure il peccato dell’uomo ha potuto vanificarla in radice, anche se – appunto in conseguenza del peccato dell’uomo – la solidarietà di Cristo con noi è divenuta solidarietà riparatrice, redentrice, «kenotica».

 

Anche l’allusività di questi confronti con alcuni capitoli della teologia recente, è dunque in grado di mostrare l’attualità dei «nodi» essenziali della intuizione spirituale mectildiana.

La mostra semplicemente perché può giustificare criticamente la loro pertinenza all’universo della fede cristiana. Il punto di vista mectildiano poggia, si alimenta, assimila in sé, riesprime, annuncia alcuni tratti fondamentali del senso della realtà secondo la fede. È questo che lo rende attuale anche oggi: certo, non nel senso di rincorrere il mondo di oggi, o di essere di facile e immediata assimilazione per la cultura o la mentalità attuale. La sua attualità, la sua giustificazione è più profonda: la stessa per cui il messaggio della fede anche oggi è una parola per il mondo, per interpretarlo, per giudicarlo, per salvarlo.

Si è detto, in apertura che una intuizione ed un testo spirituale, pur essendo a loro modo una risonanza ed un punto di vista sull’intero dato della fede, non presentano né la sistematicità, né la completezza di una introduzione al cristianesimo, o di una trattazione teologica.

Così, anche di fronte all’intuizione mectildiana, non ci si dovrà meravigliare se le sue articolazioni essenziali non rivelano già analiticamente una completezza o una inclusività totali, o se – in prima approssimazione – non danno spazio a talune sottolineature che ci aspetteremmo di trovare.

Nulla di ciò che appartiene alla fede è per principio escluso da un punto di vista che è coerente con la fede. Così niente vieta che un aspetto o l’altro possano acquistare via via una rilevanza prima non colta e non avuta: purché ciò avvenga sempre nel senso dell’unità del punto di vista fondamentale.

È questo, a nostro avviso, particolarmente il caso di un senso ecclesiale che si vorrebbe forse più esplicitamente in rilievo nel dettato stesso de «Il Vero Spirito».

In realtà, una prospettiva profonda sulla Chiesa «dimora» di Dio, nella quale ognuno di noi – a sua volta – è chiamato a divenire «dimora», si trova certo ne «Il Vero Spirito» (cf. cap. III). Essa potrebbe essere senza difficoltà ripresa e sviluppata: a più completa comprensione della stessa realtà eucaristica che, nella sua unità con la Croce, è principio del costituirsi della Chiesa.

La carità della kenosi di Cristo verso gli uomini opera nel senso della salvezza, facendo sorgere la Chiesa: «Christus dilexit ecclesiam». Tutta la visione sacramentale, presente nella spiritualità mectildiana, se ne avvantaggerebbe: in particolare la considerazione del battesimo e della penitenza. E anche le prospettive di meditazione sui misteri di Cristo e sulla celebrazione liturgica, particolarmente dell’Opus Dei.

 

2 - La domanda sulla «significanza», oggi, della proposta mectildiana, sospingerebbe essa pure a considerazioni variamente articolate. Occorrerebbe infatti vedere che cosa può apparire immediatamente come «non significante» in tale proposta, e cercare di coglierne le motivazioni. Poiché, se le motivazioni fossero semplicemente il rifiuto o l’incapacità a comprenderne alcuni aspetti di valore, in nome di una sensibilità o di una mentalità o di motivazioni discutibili, la stessa riflessione critica su tali presupposti condurrebbe a rendere inconsistente l’obiezione di insignificanza.

Ora, è certo che una proposta come quella mectildiana, sia a livello del punto di vista, sia a livello vocazionale, può apparire «insignificante» in due diverse direzioni.

Dapprima in quanto essa si pone come un richiamo vigorosamente critico nei confronti dell’umanesimo o degli umanesimi circolanti, anche nell’area cristiana. È il richiamo incisivo e tagliente insito in ogni umanesimo della Croce, e perciò in ogni umanesimo autenticamente cristiano; è il richiamo insito nella sapienza della Croce.

In questo richiamo, dove tutto va all’essenziale, emerge la sottolineatura di dove sta la verità e la pienezza dell’uomo, e di dove sta il suo «nulla»; di quale via lo conduce alla sua verità, e di quale via lo conduce alla inconsistenza ed alla illusione; di quale sia il male essenziale dell’uomo (l’orgoglio dell’autosufficienza ed il peccato), dal quale solo un gesto inconcepibilmente gratuito, come l’annientamento di Cristo, può liberarlo. Tutto questo è incluso nella «sapienza della Croce», che Mectilde ripropone e che certamente può sembrare «stoltezza», «insignificanza». Ma è un messaggio che non si può non proporre all’uomo, anche all’uomo di oggi, a meno di «svuotare la Croce di Cristo».

L’altra direzione nella quale la proposta mectildiana deve sfidare oggi l’obiezione di insignificanza è quella propriamente vocazionale: una vocazione monastica nella luce della «kenosi» eucaristica, una vocazione nella quale l’impegno di salvezza «per la liberazione dell’uomo dal male», che è soprattutto e fondamentalmente il peccato, si esprime nel dinamismo proprio della vita contemplativa e non in quella del «fare», anche del «fare» apostolico o comunque a servizio dell’uomo.

Due cose sarebbero da riconsiderare a questo proposito.

Anzitutto il valore della «gratuità» della esistenza contemplativa, del suo tacito ed eloquente richiamo al primato dell’essere e dell’amore dell’uomo che si consegna a Dio e così si consegna autenticamente anche ai fratelli, nei confronti di un efficientismo, di un produttivismo, o anche di una azione che non conosce i ritmi e la lievitazione della contemplazione.

In secondo luogo sarebbe da mostrare il valore specifico di questo tipo di vita monastica, in quanto cerca di fare propri i valori della fondamentale intuizione mectildiana e di testimoniarli al mondo, per il mondo. Non è la «pratica» dell’adorazione come tale, ma ciò che l’adorazione del Cristo della kenosi eucaristica e pasquale ha voluto dire per Madre Mectilde e vuol dire tuttora per le «Figlie del SS. Sacramento», a mostrare agli occhi di queste medesime «Figlie» e di quanti si interrogano su di loro, il significato di questa vocazione.

3 - Infine, il problema della «praticabilità», oggi, della proposta vocazionale mectildiana, mi sembra possa ricondursi alla più generale tensione tra il valore e la forma. Ciò che importa è assumere il valore come criterio per creare e discernere le forme, o farne ritrovare – in maniera sempre rinnovata – il significato.

Ora, il valore è la vita monastica benedettina, nella prospettiva della kenosi eucaristica.

Ed esso agirà come criterio di discernimento non quando ci si lascia troppo facilmente condizionare dall’interrogativo: «sarà comprensibile, oggi, o sarà incomprensibile?»  In tal caso non si discerne, perché non si giudica la situazione secondo un criterio di valore; e ci si lascia invece condizionare dall’attualità-ambiente, mancando così di libertà interiore.

Il problema vero, e quindi la direzione vera del discernimento, andrebbe formulata piuttosto in questi termini: «Come saremo noi stesse – monache benedettine mectildiane – anche oggi, anche nel mondo e per il mondo di oggi? Anzi: come saremo e potremo essere noi stesse, essendo nel mondo di oggi e provenendo dal mondo di oggi?» In queste domande viene individuato lo spazio per la fedeltà all’intuizione originaria, e per la creatività: certo, in termini ancora aperti e formali, cioè non ancora applicati e concretati in un modello di prassi.

È un’ulteriore ricerca che va certamente compiuta: ma quando la posizione di colui che ricerca è ben calibrata e corretta, vi è una fondamentale garanzia che le conclusioni operative cui si giungerà saranno costruttive. «Per l’edificazione».

 



[1] Basteranno, al nostro scopo, due riferimenti immediati ed essenziali: G. LUNARDI, Metilde del SS. Sacramento: Diz. degli Istituti di Perfezione, V, pp. 1265-1268; V. ANDRAL, Mectilde du Saint-Sacrement: Dict. Spir., X, pp. 885-888.

[2] Utile, per un primo approccio anche se necessariamente allusivo, quanto scrive A. RAYEZ, La spiritualità al tempo di Madre Mectilde de Bar: C. MECTILDE DE BAR, Non date tregua a Dio, tr. it. (Milano 1979), pp. 25-34.

[3] È appunto il tipico «linguaggio degli spirituali», a cui si comincia nuovamente a prestare attenzione, per coglierlo nella sua propria specificità. Bastino due riferimenti: J. LADRIÈRE, Language des Spirituels: Dict. de Spiritualité, IX, pp. 204-217; E. LACK-CH. BERNARD, Simboli Spirituali: Nuovo Diz. di Spiritualità (Roma, 1979), pp. 1462-1679.

[4] Si vedano, in proposito, le osservazioni di J. LECLERCQ, Una scuola di spiritualità benedettina: le benedettine dell'adorazione perpetua: Non date tregua a Dio, cit., pp. 22-24.

[5] M. MECTILDE DU SAINT-SACREMENT, Il Vero Spirito delle Religiose Adoratrici perpetue del SS. Sacramento dell'Altare, Ronco di Ghiffa, 1980 (prima traduzione italiana), cap. IX, 1-4, pp. 90-97. I rimandi, ma non le citazioni esplicite saranno abitualmente a questa edizione.

[6] Cf. Il Vero Spirito, c. XIX, pp. 159-163.

[7] Riterremmo istruttivo, precisamente ai fini di una più completa ermeneutica del testo mectildiano, confrontare i cenni fisicistici che si leggono ad esempio in Il Vero Spirito, c. I, 1, con le prospettive che si aprono in c. IX, 3. Qualche altro riferimento, sempre per illustrare la kenosi eucaristica al livello storico-descrittivo, si avrà ad es. in cc. IX, 2 e X, 2.

[8] Cf. Il Vero Spirito, c. IV, 17: «La sainte Messe est la vive représentation du sacrifice de la Croix... Quotiescumque - dit-il - feceritis in mei memoriam facietis».

[9] Cf. Il Vero Spirito, c. 1, 3: «Les deux effets qui ont paru en sa mort, à savoir de satisfaire à la justice de son Pére... et d'opérer le salut du monde».

[10] Un'opera classica di riferimento resta tuttora M. LEPIN, L'idée du sacrifice de la Messe d'après les théologiens depuis l'origine jusqu'à nos jours, Paris, 1921.

[11] È il lento ma sicuro cammino ormai percorso dalla recente teologia eucaristica per la quale restano fondamentali punti di passaggio: Billot, Vonier, Casel. La categoria di memoriale è, evidentemente un'acquisizione che la teologia deve alla ricerca biblica.

[12] Cf. Il Vero Spirito, c. IV, 18.

[13] Ib., 20

[14] Ib., IV, 11, 21.

[15] Vedere anche solo «II Vero Spirito», c. I, 4 e 14; da confrontare, soprattutto il primo capitolo con C. CONDREN, L'idée du sacerdoce et du sacrifice de Jésus-Christ.

[16] Il Vero Spirito, c. V, 2-3.

[17] Ib. C. IV, 20.

[18] Ib., c. V, 3-4.

[19] Ad esempio: II Vero Spirito, c. V, 5.

[20] II senso veramente acuto che Mectilde ha del peccato, ritorna continuamente. Si legga ad es.: Il Vero Spirito, cc. V, 1 e 6; VI, 2; VII, 2; IX, 2-3, ecc.

[21] Sul «nulla» come «simbolo», si potrà vedere ad esempio CH. BERNARD, Théologie symbolique, Paris, 1979.

[22] La tematica qui riesposta è universalmente ne «Il Vero Spirito». L'amore interessato e proprietario si vedrà indicato ad esempio in c. I, 9 (cette malheureuse pente que nous avons vers nous-mêmes...) o in c.. VI, 2 («la propre domination que nous y usurpons par amour-propre»), ma tutto il discorso apparirà soprattutto attraverso l'insistente richiamo al disinteresse nell'amore, al distacco dalla ricerca di se stessi e della gratificazione nell'amore, alla povertà di spirito, alla assoluta ricerca della volontà di Dio. In tal senso si veda: c. I, 1.7.9.10; c. VI, 9; c. VII, 3-4; cc. XIII - XIV - XV (di particolare rilievo). Testi chiaramente d'esperienza (nel senso che esprimono una esperienza personale dell'Autrice, e nel senso che la inducono «performandola» e quasi anticipandola, secondo la capacità propria di polarizzazione del linguaggio spirituale). Si potranno considerare i capitoli XI e XII (cf. soprattutto di quest'ultimo il n. 1).

[23] Citeremo ancora, a modo di passaggi emblematici di un intero orientamento che percorre tutta l'opera, i capitoli XI e XV.

[24] Come ancora avremo modo di rilevare, è certamente questo uno dei temi mectildiani in cui si fa più evidente l'assimilazione di Giovanni della Croce. Qui il richiamo si fa spontaneo a 2 Salita, 7: cammino della fede e cammino della croce obbiettivamente si raggiungono.

[25] Si vedano, ad esempio, testi come c. I, 14-17 e V, 2-4. Si aggiungerà pure c. XIV, 1.

[26] Capitolo veramente emblematico, in proposito sarà da ritenere il c. V. Ma, evidentemente anche altri vi si potranno aggiungere: in particolare il c. I, il c. IV, il c. IX.

[27] Il rimando puntuale potrà qui essere al capitolo III.

[28] Tema che, come si è detto, rimanda innegabilmente a Giovanni della Croce, oltre che - per l'insistenza sull'abbandono al beneplacito divino - a Francesco di Sales. Così si veda: c. II, 3 (fede nuda e pura. Cf. amore «puro»), c. III, 4; c. XII (esperienza mistica della «renduzione al nulla». «Nulla» e «morte»: due «simboli» spirituali che si adeguano; e, insieme, «morte» e «vita») e c. XIII, 3 (l'abbandono nella fede, come unico appoggio. Il «purgatorio» mistico. Cf. ancora GIOVANNI DELLA CROCE: Notte oscura).

[29] Cf. tutta la seconda parte del cap. V, nn, 5-6.

[30] Si vedano: cc. VI, 7-8; VIII, 2-4; XVI.

[31] Nella prospettiva qui presentata dovrebbero acquistare la loro collocazione i capitoli I-II e XIX.

[32] Testi che si potrebbero leggere, a riprova di un tipo di linguaggio e di una prospettiva: c. I, 6 (porter l'état) e 17 (sul quale si tornerà); c. II, 3 (nous y lier, y avoir rapport); c. VI, 7 (éxposez-Vous en sa divine présence); c. X, 2 (si elles veulent souffrir fidélement le douloureux état par hommage à celui que le Fils porte... il paraît manifeste que quelques unes sont particulièrement appelées... pour honorer ses incompréhensibles abjections et humiliations... Il veut des adorateurs dans tous ses états... et qui y participent).

[33] Un'espressione sintetica riassuntiva del tema può essere individuata in c. II, 3; «Oh! Que trop est avare à qui Jésus ne suffit la sainte Eucharistie!». L'espressione sembra ricalcare molto evidentemente la parola celebre che convertì Madame Acarie, la grande animatrice spirituale degli inizi della «Ecole française». La parola decisiva per la futura beata Maria dell'Incarnazione (1566-1618) fu: «Trop est avare à qui Dieu ne suffit». Mectilde la riprende: spostando l'accento sul Cristo eucaristico, cioè sul proprio punto di vista. Ma la sottolineatura della «désappropriation», cioè dell'amore che da «interessato» diviene «puro» resta la medesima.

[34] A documentazione, si vedranno - oltre i due iniziali - gli splendidi capitoli XIV e XV; e, proporzionalmente, i capitoli XII e XIII già citati. Negli ultimi due capitoli si incontra quella che giustamente si può chiamare la versione mistica del disinteresse/abbandono della «vittima» della kenosi eucaristica. Anche le lettere alle monache dovrebbero essere citate in proposito, alcune tra le più significative, saranno richiamate tra breve. Qui basti una sola citazione: «Considerate che Dio solo è, e ciò che vuole da una vittima è che si abbandoni a Dio fino alla perdita totale di se stessa. Quando ci consacriamo a Dio in qualità di vittima, vi assicuro che non sappiamo quel che facciamo: se il Signore si compiace di accettare il sacrificio, cosa che non manca mai quando l'anima lo fa nel suo Spirito, bisogna che essa si risolva di accettare cose inattese... Ma poiché noi apparteniamo a Dio, dobbiamo volere ch'egli faccia di noi secondo la sua volontà. Tutto il nerbo della vita interiore sta in questo puro abbandono, che non è né visto, né intuito, né sentito: è proprio uno stato di morte, in cui bisogna resistere malgrado la natura e le grida dell'amor proprio» (alla priora di Rouen, 14 ottobre 1686: Non date tregua a Dio, cit., p. 214).

[35] Come si osserverà parafrasiamo qui soprattutto la pagina sintetica de Il Vero Spirito, c. III, 3-4. Le si accosterà ad esempio la lettera a Monique des Anges del 17 dicembre 1680 (Non date tregua a Dio, cit. pp. 188-190).

[36] A questo punto pensiamo soprattutto a Il Vero Spirito, c. XIII, 3.

[37] La varietà degli stati, tutti da «portare» nella fede/abbandono, in cui si attua la partecipazione alla kenosi eucaristica, è già abbozzata in c. I, 6-7 e soprattutto 17. Vi si accosteranno naturalmente, i cc. XIII, XII e X (richiamo alle vessazioni demoniache: partecipazione allo «stato» delle tentazioni di Gesù). Riscontri più direttamente personali nelle lettere a Benoîte de la Passion: ad es. ottobre 1660 e 20 luglio 1661 (Non date tregua a Dio, cit., pp. 77-80).

Di tonalità immediatamente non autobiografica, anche se manifestamente partecipata, la lettera a Monique des Anges del 17 dicembre 1680, già citata; quella del 3 gennaio 1681 a una monaca di Rouen (Non date tregua a Dio, cit., pp. 190-191); quella del 3 maggio 1683, pure ad una monaca di Rouen (ib., pp. 208-209); quella alla priora di Rouen del 14 ottobre 1686, pure già citata. La lettera a Monique des Anges anticipa suggestivamente, nelle stesse espressioni, un linguaggio che si troverà presso Paolo della Croce. Del resto, è in questo medesimo clima che Francesco di Sales svolge il discorso del «Santo Abbandono» nella seconda metà del suo Traitté: dove il quadro di esperienza che egli ha presente e cerca di interpretare non è tanto il proprio, quanto quello della Madre di Chantal. Qualcosa di simile va detto pure per Fénélon, e per le Maximes. Mectilde appartiene a questa stagione spirituale, anzi mistica.

[38] Richiami d'obbligo saranno, evidentemente alla II settimana degli Esercizi e alla visione de la Storia, avuta immediatamente prima di giungere, coi suoi compagni, a Roma (il Padre pone Ignazio col Figlio suo, a servizio di Cristo, nelle prove che lo attendono).

[39] Citeremo, in proposito, G. COLOMBO, Eucaristia e Risurrezione: Teologia, Liturgia e Storia (Miscell. C. Manziana); Brescia, 1977, pp. 81-102; Id., La dimensione cristologica dell'eucaristia: Communio, ediz. it., 35 (1977), pp. 5-17.

[40] Nome di riferimento, per la teologia cattolica, sarà evidentemente quello di H. U. VON BALTHASAR, soprattutto in Mysterium Paschale: «Mysterium Salutis», tr. it. VI (Brescia, 1971), pp. 171-412. Si veda anche Nuovo Patto; «Gloria», tr. it., VII, Milano, 1977.