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Deus absconditus, anno 71, supplementum ai nn 3-4, 1980, pp. 72-81
 

Dom Jean Leclercq O.S.B. dell’Abbazia di Clervaux

Una Benedettina nel suo secolo:
M. Mectilde de Bar (1614-1698)

 

1. Una benedettina nel suo secolo*

Nonostante i condizionamenti propri del XVII secolo francese che si manifestano nel linguaggio generale del tempo, Mectilde formula, con una inesorabile lucidità, le esigenze fondamentali di ogni spiritualità cristiana.

Gli arcaismi dello stile proprio dell’epoca si trovano in Madre Mectilde meno numerosi di quanto ci si potrebbe attendere e senz’altro in proporzione minore rispetto ad altri scritti dello stesso tempo; raramente ne oscurano il pensiero, anzi il più sovente, essi aggiungono il bello all’esposto. La presenza di questi arcaismi conferma tuttavia che Mectilde fa realmente parte della sua epoca.

Ciò che conferisce alla sua dottrina un valore permanente e universale è l’intensità dell’esperienza personale che riesce ad esprimere. Mectilde è monaca, ma, come suole ripetere, la vita monastica deve per prima cosa essere cristiana. Come un dom Marmion e un dom Delatte ella ama richiamarsi ai testi paolini che parlano dell’essenziale in merito alla nostra partecipazione al mistero pasquale.

Con queste premesse ella ha il diritto di essere «benedettina» e lo è stupendamente. Incessantemente si riferisce alla Regola di san Benedetto: questo potrebbe sembrare solo un procedimento artificiale, mentre invece si scopre in lei una formazione ricevuta da tutta la tradizione monastica occidentale e dalle stesse fonti a cui rimanda san Benedetto. I ravvicinamenti, i paralleli, le dipendenze possibili (dalla Regola benedettina) sono da indicarsi a proposito di parecchi punti del suo insegnamento. Tuttavia, le similitudini più prossime sono quelle che esistono tra questi e la dottrina dei migliori maestri del suo tempo, che fu nella spiritualità, come in altri campi, un «grande secolo».

Mectilde pensa e scrive in Francia – specialmente a Parigi, in Normandia – e in Lorena, in questi regimi dove due Congregazioni: quella di Saint-Maur e quella di Saint-Vanne, sbocciate dalla recente riforma generale della Chiesa, giungono al loro pieno sviluppo, producono i più puri e vivi modelli di santità e i migliori libri. Ella ha ricevuto molto soprattutto dai Maurini, di cui dom Guéranger tenderà a dichiararsi lui stesso erede[1].

Mectilde è pure contemporanea di un eminente spirituale: il Rancé, che dovette adempiere egli stesso la propria riforma invece di coglierne i frutti maturi, la cui durevole influenza però, attesta che egli era portatore di un messaggio di alto valore, nonostante il timbro personale da cui è caratterizzato. Felicemente Mectilde non è una persona «convertita» come Rancé: ella non ne ha nè i complessi, nè le stranezze. Non ha dovuto passare da un’esistenza mondana ad una molto austera; ella ha semplicemente i lineamenti di una monaca che è diventata grande nella propria vita cristiana e nella sua vocazione religiosa. In tal modo, può aiutare altre persone – monache o no – a crescere allo stesso modo nella pace, senza violenza, ma anche senza debolezza.

È azzardato introdurre un ordine nel suo insegnamento, del quale ella stessa non ha indicato alcuna parte o piano; tuttavia nel leggerla si constata subito che alcuni pensieri la dominano. Ella vi ritorna con un’insistenza che non lascia alcun dubbio su quelle convinzioni che sono prioritarie.

Sono queste che occorre cercare di capire, essendo tutto il resto, pura conseguenza e applicazione pratica.

2. Apertura

Fin dall’inizio Mectilde ha percepito che la parola «perfezione» è un termine-chiave del linguaggio di san Benedetto e che esprime, non un risultato che si possa raggiungere una volta per tutte, ma uno scopo verso il quale non si deve mai cessare di tendere. Questo sforzo implica che si perseguiti ogni forma di ritorno su di sé, specialmente accontentandosi delle «piccole cose» e delle «piccole grazie», facendo delle «piccole azioni».

Come non evocare Pascal a questo riguardo? «Fare le piccole cose come grandi, per la maestà di Gesù Cristo che le fa in noi e che vive la nostra vita; e le grandi cose come piccole e facili a causa della Sua onnipotenza». Come non pensare anche alla giovane monaca normanna, vicina alla nostra epoca, che dovrà rimettere in luce la «piccola via»? In Mectilde come in Teresa di Lisieux tutto è «pura semplicità», «semplice abbandono», opera dello Spirito Santo, che «muove le anime»; il Vangelo e la liturgia non lo chiamano appunto il «Dito di Dio»?

Con realismo Mectilde parte dall’esperienza che facciamo nel nostro cuore di carne, del «fondo peccatore che è in noi» e del quale la tentazione ci fa prendere coscienza. Sotto questo aspetto la tentazione è utile, come ha pure insegnato tutto il monachesimo antico e medioevale con una insistenza che ci stupisce; tutto questo è ricco di linfa monastica, pur restando particolarmente proprio al XVII secolo.

Henry Brémond, se avesse potuto conoscere i manoscritti di Mectilde si sarebbe certamente rallegrato di espressioni come questa: «essere spremute e ridotte in liquore» affinché da noi esca solo l’amore di Dio. «Uscire da sé»: è il segno della vocazione di Abramo, che Cassiano considerava come il simbolo della conversione monacale, giunta alla sua perfezione. «Tendere sempre verso Dio» è il mezzo per mantenere la fiducia e custodire la perseveranza.

Mectilde è tanto ottimista quanto realista. In un linguaggio già moderno e che resta classico ella ci insegna a «sacrificare questo "noi stessi" – questo "io" –, come si dice oggi, che è il solo ad essere opposto a Dio». Questo è il compito delle «croci». Raramente Mectilde userà questo termine «croci», al plurale, proprio mentre stava divenendo così frequente nell’epoca. Ciò che importa è la Croce: quella del Signore, che è il mistero di sofferenza e di vittoria al quale ci siamo associate, come «membra vive di Gesù Cristo, incorporate alla sua umanità deificata, viventi della sua vita e del suo Spirito» per la grazia del Battesimo. «Non sono più io che vivo, è Gesù Cristo che vive in me». Bisogna solamente «essere fedeli al movimento della grazia che ci trae fuori dal nostro nulla... Lasciatevi cadere nel nulla...». Allora conosceremo la consolazione di essere «in questo felice nulla che spaventa la nostra natura»: il tutto e il nulla coincidono – todo y nada –, il tutto di Dio colma il nostro vuoto.

A questo punto, Mectilde, si eleva al livello delle più alte mistiche. Tutto è grave ed esigente, ornato da qualche arcaismo e da qualche tocco poetico. Tutto rimane incentrato in Gesù e nel suo Spirito, che ci conduce al Padre. Ciò che san Benedetto dice di Dio si trova precisato in Mectilde e, si può dire, personalizzato. Anche la Vergine Maria è sempre rivolta al Figlio e ci orienta a Lui e Lo prega per noi. L’idea stessa così tradizionale della paternità di san Benedetto – tema che venne anche applicato ad altri fondatori di Ordini religiosi – è messa in relazione non solo con il Signore, ma con l’Eucaristia. Secondo san Gregorio, effettivamente, il «Legislatore» spira ai piedi dell’Altare «rapito a se stesso» da Gesù, per essere elevato in Cielo.

L’adorazione del Santissimo Sacramento diventa a questo riguardo l’oggetto di una esplicita menzione, associata all’idea di «riparazione», alla quale i teologi di rinomanza riconoscono oggi un significato profondo[2]. Ma nessuna devozione viene esageratamente accentuata. Ci troviamo in presenza di ciò che Don Vonier chiamava «il classico cristianesimo» ed è per questo che tale messaggio ha valore non solo per il XVII sec., per le Benedettine, ma per i cristiani di ogni tempo e del nostro tempo.

3. Il fondo

Una delle convinzioni più vive in Mectilde, la fa sovente parlare su ciò che lei chiama «il fondo», «nostro fondo», e usare il termine «profondo», «profondamente». É un richiamo a quanto i mistici Reno-fiammènghi – la cui influenza sulla Scuola Francese è ben nota – avevano denominato il Grund: cioè il centro di noi stessi, dove si situa il nostro egoismo e che, svuotato, purificato, può divenire il luogo della presenza divina. In tal modo il nostro fondo viene reso alla sua vera natura a cui è necessario giungere: è quanto Mectilde chiama «il ritorno al fondo». In questo consiste la «conoscenza di noi stessi», che occupa nella sua dottrina tanto spazio quanto in quella di san Bernardo: «Ritorniamo al nostro cuore» aveva scritto più di una volta citando un salmo. Redere ad cor, o la parola del figlio prodigo: ad se reversus, ritornato in lui stesso. «Rientrate in voi stesse» nel vostro intimo, tenendovi ai piedi della maestà di Dio; è lì che Lo troverete». Tutto non è per nulla teorico. Come Bernardo, Mectilde parte dall’«esperienza», ama questo termine con quello di «sperimentare». Ella conosce i nostri diletti – Pascal li chiamava «i nostri divertimenti». Ella sa che l’opposto «del fondo» è «l’elevazione», «il sentimento della propria eccellenza. L’orgoglio fa sì che uno si elevi. Bisogna discendere».

E come? Sostituendo nel fondo di noi stessi questo polo di attrazione, che è l’amore proprio, con l’altro polo che è Gesù Cristo «il centro divino, dove dobbiamo rientrare». Sostituire il Suo «regno», il Suo «impero» – secondo il vocabolario del secolo di Luigi XIV[3] – all’interesse che portiamo a noi stessi. «Lo spirito di Gesù Cristo», «Nostro Signore e il Suo divin Spirito» devono stabilirsi in noi, e dominare su tutto. Bisogna «desiderare questo regno», poi giudicare ogni cosa «in relazione a Lui». Solo una volta è menzionato il «Sacro Cuore». Lo stile di Mectilde è pero diverso da quello di Margherita Maria Alacoque, anche se non meno fervoroso. Alcune pagine, molto paoline, tradiscono un’ossessione amorosa di Gesù Cristo.

Il ritorno al Padre in Cristo e per il Suo Spirito è solo un effetto della grazia, quella della fede, deposta in noi, in germe, nel Battesimo e che non cessa di guidarci. Da qui l’insistenza sulla docilità in tutto ai movimenti – o più esattamente: alla spinta – della grazia: «Dio dà movimento all’anima..., pregate sotto l’impulso della grazia». «Un tratto della grazia, della misericordia di Dio, la mozione dello Spirito Santo...». Fare tutto «nella fede»: questo conduce in primo luogo alla preghiera, concepita come continua. Prima di esprimersi su certe attività interiori – benché sia ugualmente favorita da queste – la preghiera è un’attitudine di presenza a Dio «di aderenza a Dio». Mectilde ha amato questo gioco di parole «adorare e aderire». Una delle sue pagine più dense si lascia riassumere in due parole: «Attendere Dio». Da questa vita di preghiera fluiscono spontaneamente, semplicemente, cioè, senza complicazioni, le attività di preghiera.

Quando Mectilde ne parla, riprende i temi – e a volte pure i termini – della tradizione monastica dei Padri e del Medio Evo e forse soprattutto del XVII secolo. Così avviene quando caratterizza come «predicatori muti» i testi che formano l’oggetto della lectio divina[4]; quando descrive l’Ufficio divino come preghiera integrale, che impegna tutto l’essere, a cominciare dai sensi; o quando mostra nell’adorazione perpetua un modo di continuare la laus perennis. Così soprattutto, quando commenta in termini squisiti, quel poco che san Benedetto ha detto sull’«orazione». Per praticare «l’orazione semplice», «lasciate i diversi metodi... Evitate quel modo di pregare che fa venire il mal di testa...». L’orazione è come un deserto mistico «dove ci si incontra con lo Sposo». Occorre restare fedeli al «ricordo di Dio», al quale P. Hausser ha consacrato tante pagine; occorre conservare «la dolce abitudine di operare nell’amore non sensibile, ma nella fede». Questo suo insegnamento è sempre in relazione con le feste ed i misteri che la liturgia celebra. Esso giunge fino alle preghiere in forma di giaculatorie, brevi, ma frequenti, come raccomandato da san Benedetto che trova in questa frase il suo piacevole equivalente: «Fare un piccolo amoroso ritorno...», «lo spirito manda un’occhiata verso Dio...».

Le pagine che Mectilde scrive sull’orazione sono senza dubbio le più belle della sua opera. Ella ne parla da specialista. La sua competenza è garantita soprattutto dalla sua stessa esperienza, ma anche dalla sua conformità alla tradizione spirituale più antica e più costante della Chiesa.

4. La via della piccolezza

Per trattare dell’umiltà, Mectilde ha trovato un linguaggio evangelico, che anticipa quello di Teresa di Lisieux. Il vocabolario che preferisce è quello della piccolezza e di tutte le sfumature a cui tale vocabolo si presta. Come san Gregorio e i santi Padri, ella conosce la «compunzione». Ma a questo termine dalla consonanza latina preferisce usare i termini del suo tempo, molto espressivi per il XVII secolo e per il nostro: «Lasciarsi consumare, rimanere davanti al SS. Sacramento, essere inabissati in Dio»; e l’immagine dell’abisso evoca quella del «fondo». Essere «in un distacco completo, continuo». Solo una volta usa il termine di «santa indifferenza», ma parla soprattutto di «sguardo semplice» a Dio, e di conseguenza senza «ricerca di se stessi». Con san Paolo dice «morire a noi e vivere a Dio». «Disappropriarsi» senza segreta compiacenza in sé; vivere come in esilio, in terra straniera, nella povertà: tutto attendere e desiderare da Dio, anche quando Egli conserva il silenzio. «Se il vostro fondo è crocefisso...», «essere una capacità di Dio», «Lui che ama le anime piccole, umili, basse, annientate», e la «profonda piccolezza». «Non essere proprietarie di nulla, non possedere nulla con attacco». Ancor più «essere un nulla» (san Bernardo diceva: annullari), «perdere tutto», in vista dell’unione, della presenza a Dio, del «possesso di Dio». Vivere «in una semplicità infantile», perché si conosca la verità su se stessi. Una volta ancora si impone l’accostamento con il trattato di san Bernardo sui Gradi di umiltà: restare nella «profonda piccolezza», e lì, nel più fondo, gustare Dio, la sua misericordia... Essere «investite da Dio fino alle penetrazioni inesprimibili». Il Magnificat di Maria è il canto del suo abbassamento e della sua esaltazione. Questo mosaico di vigorose formule potrebbe essere largamente esteso. Tutte queste citazioni ricevono il loro pieno significato dal loro contesto: una mistica dell’annientamento caratterizzata dalla pazienza e dalla tranquillità.

La pazienza, di cui Gesù è il modello e la sorgente, è una forma di questo «spirito d’infanzia», che la devozione del XVII secolo francese al «Bambino-Re» favoriva ed esprimeva[5]. Mectilde non solo utilizza la formula «spirito d’infanzia», ma giunge ad associare l’idea a Gesù, in un modo che ci è poco abituale, benché abbia degli antecedenti nella tradizione patristica e nella Regola di san Benedetto: «Andate a Nostro Signore come un piccolo bambino. È vostro Padre che vi ama in tutta verità». È sempre stato proprio alla corretta cristologia attribuire al Figlio di Dio i sentimenti di un padre che attende il ritorno dei suoi figli[6]. Immediatamente dopo, Mectilde mostra che ella possiede un’esatta visione del mistero pasquale quando dice: «di essere completamente rivestita dello Spirito di Gesù Cristo, perché completamente annientata in Lui».

Relativamente a queste profondità le sofferenze quotidiane sono, per così dire, solo degli incidenti superficiali, non perché non vengano risentite al vivo, ma perché mai sono ricercate per loro stesse e come provocate. In un certo commentario della Regola, composto nell’epoca barocca, in forma di «emblemi» sormontati ciascuno da una breve leggenda, il cuore ferito è uno dei simboli più frequenti: lo si vede schiacciato da un’incudine e un martello, trafitto da frecce, coronato di spine, addolorato in tutti i modi possibili[7].

In Mectilde nessuna compiacenza nella sofferenza, ma accettazione, silenzio, obbedienza e, a questo prezzo, tranquillità, affabilità, dolcezza, gioia, consolazione, rendimento di grazie, felicità dell’anima, che «si slancia verso Dio». Presenza a Dio, più che volontarismo; e tuttavia nessuna traccia di quietismo: ma una serena accettazione di tutto ciò che Dio vuole. La penitenza non può essere che una partecipazione «all’abbandono di Gesù» nella sua Passione. Quando si è «stabiliti in Dio» in una «generosa spogliazione» si può conservare in ogni circostanza la pace del Cristo risorto. «Dio è tranquillo e tranquillizza tutto», aveva dichiarato san Bernardo. E Mectilde, a proposito de «l’anima che possiede questa tranquillità», può scrivere: «Dio si contempla nel fondo di quest’anima. Egli vi imprime le sue divine perfezioni».

5. Spiritualità pratica

Due osservanze fondamentali formano l’oggetto di richiami insistenti, se non frequenti: il silenzio e l’obbedienza.

Del primo, Mectilde sottolinea, soprattutto, come del resto, sempre, il senso «profondo»: è una partecipazione al silenzio di Gesù, quello che Egli ha mantenuto nel seno di Maria, e poi nella Passione. Come Bossuet ella cita la frase del Vangelo: «E Gesù taceva: Jesus autem tacebat». Riguardo al concetto di obbedienza, questo può sollevare oggi un problema che non si presentava affatto allora, tuttavia bisogna ben capire cosa si intenda con la formula di «obbedienza cieca» e parecchi suoi testi ci aiutano. Secondo l’insegnamento di san Benedetto, ripreso da Mectilde, l’obbedienza è dono di Dio: «È Dio che vi dà la forza di sottomettervi». Ora, sottomettersi per un’oppressione subita, è un’attività, non è una passività. Quando Mectilde dichiara: «Non ho più volontà», tutto il contesto prova invece che ella ne possiede molta; ma con ciò Mectilde vuol dire che la sua volontà agisce ormai solo «in relazione a Gesù Cristo». Le osservanze – dice ancora – sono «portatrici di grazia» non in se stesse, ma se sono praticate «in vista di Gesù Cristo». Le espressioni di Mectilde che lodano «la libertà totale» sono tanto energiche quanto quelle che incitano all’obbedienza. La considerazione di Mectilde è rivolta più che all’esattezza superficiale delle osservanze al loro profondo significato.

Non trascurate mai «il minimo rimprovero della vostra coscienza»: questo vi apre alla grazia. «Rettificate le vostre intenzioni». In questo lavoro non ci sono limiti alle esigenze di Dio e di colei che vi consiglia in vista di Lui. Tutto il resto poi si faccia con moderazione.

Mectilde è tanto franca ed energica nel parlare quando si trova di fronte ad una mancata abnegazione per ricordare non solo la bontà, la misericordia di Dio, ma pure la sua giustizia e la sua verità, quanto pronta a predicare la gioia, la sicurezza, la pace e a liberare le sue monache e le sue amiche da ogni eccessiva preoccupazione di austerità. Ella ha il senso dell’infermità fisica: «Non privatevi dei frutti, avete bisogno di un po’ di ristoro. Prendete anche del vino con l’acqua. Mangiate e conservatevi allegra, perché per servire Dio occorre una santa libertà, che procede da un cuore distaccato...». E scrive ad una superiora, a proposito di un’altra religiosa: «Consultate i medici se la suora può sostenere l’austerità della quaresima: non credo che le sue forze glielo permettano».

Con la moderazione vanno di pari passo la misericordia, l’indulgenza, la compassione: «Siate tenera di fronte alla sofferenza del prossimo», e ancora: «Non guadagnerete che nel cedere sempre». Questo senso acuto dei limiti di tutte e di tutto fa trovare a Mectilde una stupenda traduzione del multorum servire moribus di san Benedetto: «adattarsi agli umori» di ciascuna e di tutte.

Il suo senso pratico, il suo desiderio di servire appare nello sforzo che intraprende per eliminare le doti, condizione allora indispensabile per ammettere una monaca di coro. Ella ha viva coscienza che liberare la Chiesa da questa spiacevole tradizione «può essere solo una grazia di Dio ». Grazia, ora, ottenuta, almeno quasi ovunque. Mectilde l’aveva prevista da tre secoli.

6. Invito

I larghi estratti dei testi di Mectilde sono degni – a volte – di figurare negli «Apophtegmi» che ci hanno lasciato non solo i Padri del deserto, ma anche nel Medioevo un san Bernardo[8], e più tardi, i Maurini.

Mectilde fa allusione a volte ai testi dei Padri che si leggevano in Comunità e nell’Ufficiatura; non dimentichiamo che nel substrato dei suoi scritti si trova l’erudizione dei Maurini[9]. Raramente ella cita sant’Agostino e Condren, ma ne conosce altri, sia per un rapporto diretto, sia tramite quelli che frequentano gli ambienti monastici del suo tempo. Tra i modelli biblici si rivolge di primo acchito a quelli cui la tradizione aveva riconosciuto un significato speciale per i monaci e le monache: Abramo, san Giovanni, san Paolo, la Maddalena.

Nella direzione spirituale che, come tante altre figure femminili, ella ha esercitato nella Chiesa, eccelle nel dare consigli molto pratici, pieni di penetrazione psicologica e di buon senso.

Ma nei suoi scritti si rivela molto più di questo: un autentico insegnamento spirituale. Ciò che la distingue potrebbe caratterizzarsi con pochissime parole: una mistica della presenza continua a Dio, dovuta alla povertà del cuore. Mectilde possiede questo stile, non come cosa a lei propria, ma in comune coi più grandi della teologia spirituale. Tuttavia, per parlarne, ella trova un accento di fede così intenso che rende il suo messaggio utile ai suoi contemporanei e nello stesso tempo valido per noi. La sua fede arriva fino a farla «congratulare» con una defunta finalmente giunta: «pervenuta alla Patria» come dice san Benedetto nell’ultima parola della sua Regola. Questo è lo scopo a cui tende «la conversione dei costumi», che tanti interpreti della Regola si sono sforzati di spiegare in un modo comprensibile. Mectilde dice con semplicità che san Benedetto, specialmente nel c. IV «Degli strumenti delle buone opere» ci insegna a reprimere i nostri costumi con le virtù. E a proposito dell’ultimo capitolo della Regola, ella ravvicinerà ancora una volta, in una magnifica sintesi, tutte le grandi realtà che devono penetrare la nostra vita: l’Incarnazione, il Vangelo, lo Spirito, la Chiesa, l’Eucaristia (n. 2636).

«Tutti vogliono essere spirituali e della più perfetta spiritualità». Mectilde attribuisce a questo vecchio termine del linguaggio cristiano l’autentico significato secondo il quale esso designa ciò che si oppone, non alla materia o al «fisico» (si è visto che Mectilde ha una cura speciale per la salute), ma alla vita secondo la carne, cioè, alla natura in quanto è inclinata al peccato. Nel secolo XVII, a volte, si abusava dei termini: «spiritualità», «mistica», «amore», fino al punto che alcuni autori si credevano obbligati di farli precedere da qualificativi: «puro amore», «vera mistica». Mectilde sorride discretamente a questa moda, avvertita del pericolo di tal modo di esprimersi, e non impiega quasi questo vocabolario.

Per Mectilde, la «perfetta spiritualità» consiste nel vivere secondo lo Spirito di Cristo: ecco cosa esige da un capo all’altro dei suoi testi, con una semplicità che non lascia dubbi sul tipo di esperienza che il suo messaggio sottintende: nessuna retorica: «l’umiltà non consiste nell’avere pensieri umili, ma nel sostenere il peso della verità, che è l’abisso della nostra estrema miseria, quando piaccia a Dio di farcela conoscere...». Questo è il vero carisma di Mectilde: «Dio mi ha dato una tenerezza e una particolare inclinazione per le anime provate e afflitte, così che le tengo sempre presenti al mio spirito... Mi sembra che Dio mi abbia creato per queste anime...». Non è forse per questo motivo che la sentiamo anche oggi così vicina a noi?



* Catherine de Bar a l'écoute de Saint-Benoît, a cura delle Bénédictines des Saint Sacrement, Rouen, 1979, Introduzione. Traduzione a cura delle Benedettine del SS. Sacramento di Ronco-Ghiffa, per benevola concessione dell'autore.

 

[1] Sul contesto storico nel quale scrive Madre Mectilde de Bar, per certe fonti, e per altri riferimenti ai quali non è possibile fare riferimento in questo luogo, rimando all’articolo “Une école de spiritualité bénédictine datant du XVII siècle: les Bénédictines de l’Adoration perpétuelle” in Studia monastica, 18 (1977), p. 433-453, e Lumières nouvelles sur Catherine de Bar ibid 20 (1978), p. 397-409.

[2] Per esempio A. CHAPELLE, S. J., L’adoration eucharistique et la réparation in «Vie consacrée», 46 (1974), p. 338-354.

[3] Sotto il titolo La royauté du Christ dans la spiritualité française du XVII siècle, nella rivista «La vie spirituelle», Supplemento, I (1947), p. 216-229 e 291-307, ho citato dei testi.

[4] Cf. L. GOUGAUD, Muta praedicatio, in «Revue Bénédictine», 42 (1930), p. 170-171.

[5] Cf. La royauté du Christ, loc. cit.

[6] Questo è stato rilevato da A. Borias, Le Christ dans la Règle de Saint Benoît, in “Revue Bénédictine”, 82 (1972), p. 109-132.

[7] B. GALLNER, Regula emblematica S. Benedicti, Vienna, 1780.

[8] B. Ward, Apophtegmata Bernardi, in «The influence of St. Bernard», Oxford 1976 p. 134-143, et J. LECLERCQ in «Collectanea Cisterciensia», 40 (1978), p. 147-149. 

[9] La vie des Justes, Dom MARTENE, in «Archives de la France Monastique», dal vol. XXVII al vol. XXX, Ligugé, 1924-1926.