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Deus absconditus anno 91, n. 2, Aprile-Giugno 2000, pp. 28-46; n. 3, Luglio-Settembre 2000, pp. 29-36

 

sr. Carla Maria Valli osb a.p.*
La vocazione delle Benedettine del Santissimo Sacramento

Premessa

Il presente studio prende in considerazione il testo che fa da prefazione alle “Costituzioni sulla Regola di S. Benedetto” scritte da Madre Mectilde de Bar e che si intitola: “La vocazione delle Religiose del SS. Sacramento”.

In questa prima sezione si tratterà sotto il profilo teologico-spirituale, mentre nella seconda sezione si analizzerà l’interessante struttura che il testo presenta, con alcuni accenni alle modifiche che esso ha subito.

Il documento base, sul quale si è svolta la ricerca è il manoscritto P 103, che verrà riportato a brani, nel corso di questa prima sezione dello studio. La traduzione italiana è stata curata da un detenuto[1].

La “Prefazione alle Costituzioni” è un documento che costituisce quasi la mappa della nostra specifica vocazione benedettino-metildiana e che, per la sua natura programmatica, merita di essere preso in considerazione.

Lo stile ridondante testimonia il gusto barocco dell’epoca in cui è stata scritta.

La sua lettura e, soprattutto la sua attualizzazione, presentano per questo non poche difficoltà, ma ciò non ci scoraggia, rende più interessante l’impresa.

Il primo ostacolo da superare è costituito dallo stile e dal vocabolario sacrificale.

La prima esplorazione del testo sarà dunque in questa dirczione e costituirà il primo capitolo della presente sezione: PAROLE, IMMAGINI, CONCETTI.

La seconda difficoltà a cui bisogna far fronte è la differenza tra il modo di concepire la teologia della redenzione nel XVII sec. e la concezione che ne abbiamo oggi.

Un confronto, per sommi capi, tra le due impostazioni teologiche formerà la seconda parte: QUALE TEOLOGIA DELLA SALVEZZA?

La terza parte: ANALISI E COMMENTO, è solo “un” tentativo di attualizzazione di questa mappa del carisma.

Tentativo fatto all’interno del nostro noviziato, ma che non dispensa, anzi, sollecita anche altri a compiere quel delicato lavoro di ricerca dei punti di contatto e di incontro tra le più profonde esigenze dell’uomo contemporaneo e le proposte di una spiritualità nata tré secoli fa, ma ancora viva e ricca di fermenti.

I. PAROLE, IMMAGINI, CONCETTI

I. 1. Linguaggio sacrificale

Nella Prefazione alle Costituzioni, come in tutti i suoi scritti, la Madre fondatrice usa un linguaggio molto colorito, si direbbe quasi pittoresco nel senso che dipinge i concetti, li trasforma in immagini.. Probabilmente, in un tempo in cui non esistevano ancora gli audiovisivi, era questo un modo per rendere più incisivo il discorso.

Si ha così l’immagine della fiaccola che si consuma solo per Dio, o del vaso adibito solo ad uso sacro per dire la dedizione esclusiva a Dio.

Da buona frequentatrice della Scrittura, Madre Mectilde fa largo uso anche di immagini bibliche: il tabernacolo è paragonato al roveto ardente, la relazione di comunione con Dio è descritta con il linguaggio del Cantico dei Cantici, ci sono poi riferimenti all’arca dell’alleanza, immagini prese dall’Apocalisse, ecc..

Dovendo però presentare i lineamenti di una spiritualità tanto legata all’Eucaristia (che è il sacrifìcio della nuova Alleanza), attinge abbondantemente al vocabolario cultuale e sacrificale: olocausto, fuoco sacro, consumazione, propiziatorio, espiare, consacrata, sacrificata...”. Nell’ambito di una spiritualità vittimale tutto assume un tono di totalità e di offerta.

Non dimentichiamo che la stesura delle prime Costituzioni, per il nascente nostro Istituto, era stata fatta dal Priore di Saint-Germain-des-Près. Evidentemente le Figlie di madre Mectilde notarono in quel testo la carenza del proprium che doveva fare di loro, oltre che delle Figlie di S. Benedetto, anche delle Figlie del SS. Sacramento. Fu così che chiesero e ottennero dalla Madre la stesura delle "Costituzioni sulla Regola di S. Benedetto", con la premessa sulla specificità della nostra vocazione, che ora stiamo prendendo in considerazione.

Bisogna dire che questo testo è improntato sullo stesso tono di tutti i capitoli delle Costituzioni dove le immagini e il vocabolario sacrificale ricorrono pure con frequenza.

Ripercorrendo immaginariamente il monastero attraverso i capitoli della Regola e le relative disposizioni delle Costituzioni, sembra a volte di ritrovarsi nel tempio, luogo in cui tutto era predisposto per l’offerta dei sacrifìci: i settimanari di cucina devono ritenere il loro lavoro un mezzo per esercitare la "carità verso le vittime di Gesù Cristo, che conservano la vita solo mediante gli alimenti, che esse ricevono unicamente per consumarla in perenne sacrificio" (Cost. sul cap. 35, § 1). Se "ci rechiamo" in dormitorio, ci sentiamo dire che "se il corpo umano potesse fare a meno del sonno, le vittime di Gesù nel divino Sacramento dovrebbero farsi scrupolo di dare questo sostegno alla natura; non essendo però possibile farne a meno del tutto, per non abbreviare la vita di coloro che si sono immolate a questo mistero d’amore, la devono consumare secondo le regole prescritte" (Cost sul cap 22, § 1) e quindi anche dormendo il necessario. Le religiose anziane "si debbono considerare come vittime che terminano di consumare il loro sacrificio e averne una cura molto particolare" (Cost. sul cap. 37, §1), se poi si guarda all’infermeria "la si può considerare come l’atrio del tempio, dove le vittime dell’antica legge venivano sgozzate" (Cost. sul cap. 36, § 1). Ecc..

Se non si è abituati a questo linguaggio, può sembrare un po’ eccessivo, quasi scostante.

Ma frasi del Vangelo quali: "Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo..., se la tua mano ti è occasione di scandalo, tagliala..." (cfr Mt 18,8-9) non sono meno violente.

Al linguaggio paradossale dei Vangeli forse si è più abituati, si sa che è un parlare per immagini.

Con una paziente e benevola frequentazione degli scritti di Madre Mectilde, è però possibile entrare anche nel suo linguaggio; andare al di là delle tinte forti ed insistenti, con le quali ella illustra la nostra spiritualità, per scoprire il vigore e la genuinità di un carisma.

Con il passare del tempo, si finisce poi per trovare il suo stile vivace e gustoso, pur nella sua originalità.

I. 2. Sorprese tra le parole

Spesso si dice "sono solo parole", ma anche le parole hanno il loro peso. A volte hanno pure una storia e, ascoltandole, sanno porre delle domande.

La denominazione attuale della nostra famiglia monastica è Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento. Da dove sarà venuta? Dal fatto che fin dall’inizio il nostro Istituto è nato con la caratteristica dell’adorazione perpetua? Forse.

O dal fatto che l’adorazione vissuta di giorno e di notte è una nota bella, comprensibile a tutti, che non necessita di troppe delucidazioni? Forse.

Comunque, se riconosciamo al testo "La vocazione delle Religiose del SS. Sacramento" un valore descrittivo di ciò che è la nostra specifica vocazione e, se osserviamo i termini con i quali viene illustrata, troviamo una sorpresa.

L’adorazione perpetua è nominata una volta sola, a chiusura del brano. Si cita una volta la parola "adorazioni", alcune volte si parla di "render gloria", ma quando si parla della caratteristica propria di queste religiose e dei loro doveri, esse sono dette "riparatrici" e anche il verbo riparare ricorre con frequenza: "Condividono con Lui la sua propria qualità di ostia e di vittima. In Lui e per Lui, diventano le vere riparatrici...", "per esercitare degnamente le funzioni di riparatrici è necessario..."; "Senza di esse è impossibile fare a Lui una riparazione perfetta"‘, ecc.

All’inizio del documento, tale vocazione viene fondata sull’esempio di Cristo, ma non tanto il Cristo-adoratore del Padre, quanto il Cristo che ha "restituito" a Dio la gloria e ha preso su di sé le conseguenze del peccato, quindi il Cristo-riparatore.

Ci limitiamo a queste osservazioni, ma certo anche le semplici parole hanno qualcosa da dire.

II. QUALE TEOLOGIA DELLA SALVEZZA?

Il secondo ostacolo che troviamo, accostandoci al testo in esame, è certamente il più consistente. Esso è costituito dal cammino che il pensiero teologico ha fatto nei trecento anni che ci separano dall’epoca della Madre. La cultura e il pensiero fìlosofico sono cambiati e la teologia è cambiata con essi.

In questo capitolo cercheremo di entrare nell’orizzonte teologico di quel tempo, per tradurre i concetti utilizzati da Madre Mectilde in concetti più vicini al nostro modo di pensare.

Nel XVII secolo, parlando di Dio, si insisteva particolarmente sul fatto che Egli è totalmente altro da noi; si sottolineavano la sua trascendenza e la sua perfezione.

Questa verità oggi non è negata ma, di preferenza, l’accento cade sul suo essere Amore, sulla sua prossimità all’uomo. Dio risulta un compagno nel cammino della vita, più che un Essere supremo.

Su di uno sfondo così differente, la lettura della rivelazione risulta pure molto diversa.

 

Secondo la soteriologia del XVII sec.

Secondo la soteriologia odierna

DIO E’ :

DIO E’ :

SANTO

cioè trascendente, senza peccato, degno di gloria,

SANTO

cioè totalmente altro da noi, perché Amore non limitato ma fontale.

GIUSTO

cioè deve punire il male ed esigere la gloria dovutagli.

GIUSTO

cioè Amore che ci lascia liberi anche di non riamarlo, liberi di scegliere non Lui che è la Vita, ma la morte.

E un Amore che è Verità e vuole che conosciamo la Verità: la verità di ciò che siamo noi e di ciò che è Lui, perché la Verità è il punto di partenza della libertà nell’amore.

 

MISERICORDIOSO

cioè ci perdona e manda suo Figlio per riparare il peccato,

MISERICORDIOSO

cioè è Amore più libero e più gratuito del nostro, perché risponde al nostro non-amore continuando ad amarci. E Amore che non si arrende, non si rassegna a perderci.

CI SALVA

mandando suo Figlio che paga al posto nostro il debito che il peccato ha con tratto con la Giustizia di Dio e prova su di sé la ripulsa che la Santità di Dio ha verso il peccato, In tal modo ci ha resi giusti,

CI SALVA

rivelandoci la nostra situazione per guarirla. La guarisce dal di dentro della nostra condizione umana donandoci la forza del suo Spirito, cioè amandoci perché impariamo ad amare; ma per darci la forza. Cristo ha accettato su di sé tutta la nostra debolezza; si è messo nei panni del peccatore e così ci giustifica.

 

L’elemento che più differenzia le categorie teologiche usate da M. Mectilde da quelle del XX secolo è la lettura del mistero della redenzione.

La teologia di oggi vede la morte di Cristo in Croce come un fatto in cui è coinvolta tutta la Trinità.

Al tempo della Madre era invece dominante un discorso sulla redenzione in termini giuridico-penali. Il nucleo centrale della teologia della Croce sottolineava soprattutto l’esigenza, da parte di Dio, di punire il male, perché Egli è giusto: in un certo senso, non poteva non esigere una soddisfazione per l’affronto subito con il peccato.

Dal momento che l’uomo non era in grado, da solo, di coprire il debito contratto con il peccato, subentrava il sacrifìcio di Cristo a compensare ciò che mancava all’umanità.

Il cammino che ha portato da tale prospettiva all’attuale pensiero teologico è stato lento. Fino al secolo scorso la linea dominante era ancora quella tridentina.

Dopo la 2a guerra mondiale (con il suo tragico bagaglio di orrori), si è intensificata la riflessione sul rapporto tra Dio e il mistero del male e della sofferenza, fino a giungere (nel periodo successivo al Concilio Vaticano II) a quella che si può chiamare "la svolta trinitaria".

Se vogliamo sintetizzare il percorso seguito, si può dire che la trasformazione è iniziata quando, parlando della croce, non la si è più presentata solo come una pena che il Cristo ha dovuto subire al nostro posto, ma come una circostanza che Egli ha liberamente accettato e vissuto nella volontà di donarsi.

L’amore ha poi preso il passo sulla giustizia, anche nella lettura del ruolo del Padre nella Redenzione: il Padre manda il Figlio nel mondo, ma non innanzitutto per morire, bensì come dono del suo amore, come bene per l’uomo.

L’uomo vive però in un mondo che è sotto il dominio del peccato e perciò non accoglie il dono del Padre, rifiuta il Cristo, lo condanna alla croce.

In questa visuale, il sacrifìcio di Gesù è però ancora strettamente dipendente dalla realtà del peccato: se il mondo nel quale Cristo è venuto non fosse stato nel peccato, non avrebbe causato la morte del Giusto.

Invece nel pensiero di alcuni teologi contemporanei, come H. U. Von Balthasar e K. Rahner, la Croce è vista innanzitutto come un evento che coinvolge tutta la Trinità e addirittura come un espediente dell’amore divino per raggiungere l’uomo là dove si era smarrito.

"La discesa del Figlio nell’abisso del dolore e della croce non è più ormai solo una conseguenza negativa della sua solidarizzazione con il mondo della carne peccatrice,

[...] ma diviene anzitutto manifestazione dell’amore divino che, penetrando nell’uomo perduto, fa di ciò che è umanamente la più alta forma di debolezza, la più alta rivelazione dell’amore trinitario.

Il dolore e la morte inflitta, infatti, è dominata e rovesciata nel gesto assolutamente libero del Padre e del Figlio, che nell’unità dello Spirito portano la "comunione d’amore" all’estremo limite della lacerazione umana, vivendo la loro alterila come lontananza, nella estrema vicinanza di un unico mistero di amore tripersonale. [...]

L’amore con cui il Padre ha dato suo Figlio per noi non è nient’altro che quell’amore con cui il Figlio ha dato se stesso per noi. In quanto lo Spirito Santo è semplicemente questo identico amore (come persona) nel Padre e nel Figlio, Egli è l’assoluta identità e vicinanza nella differenziazione tra Padre e Figlio. [...] Nel momento in cui l’amore trinitario fa della sofferenza umana la sua sofferenza, esso risolve questo dramma umano facendone un momento della sua vita d’amore"[2].

La differenza tra la teologia del tempo della Madre e quella odierna non si concentra solo nella lettura dell’evento della Croce: anche la figura di Cristo Salvatore è vista con sottolineature diverse.

Per Madre Mectilde Cristo è il Verbo Incarnato

quindi innanzitutto Dio. E’ totalmente consapevole di essere Dio, eppure si trova tra i peccatori: la sua sofferenza è vista principalmente nel suo essere Santo e dimorare a contatto con i peccatori.

Se Dio è Santissimo e Gesù Cristo è Dio, il suo trovarsi per la solidarietà coi peccatori "trattato da peccato" (cfr 2 Cor. 5,21), cioè all’opposto di Dio, è considerato come la massima sofferenza[3].

Per noi Cristo è veramente uomo

quindi, nella nostra prospettiva, il rapporto tra Cristo e il Padre è soprattutto questione di fiducia, è acccttazione del limite umano assunto con l’incarnazione.

Anche se la dimensione del dramma di Dio che viene a trovarsi nelle vesti del peccatore non va sottovalutata, tuttavia noi non contrapponiamo in modo assoluto l’umanità di Cristo e la sua divinità, perché sappiamo che nella sua persona le due nature erano compresenti in modo armonico.

Allora, secondo la prospettiva a noi più vicina, in che cosa consiste l’essersi "fatto peccato" di Cristo? Guardando alla vita di Gesù vediamo che Egli non solo ha voluto condividere la morte fisica, ma anche la seconda morte dell’uomo, quella vera, la morte che è separazione da Dio.

Cristo, in quanto Dio, è sempre stato in comunione col Padre, ma nell’agonia del Getsemani, la sua umanità ha sperimentato ciò che ogni uomo (per la sua condizione di creatura che porta le conseguenze del peccato originale) può sperimentare: l’impressione che Dio sia lontano, che non si curi di quanto gli accade, che lo abbia abbandonato.

Nell’ora della croce. Gesù, pur non avendo peccato e pur non essendo mai venuto meno al rapporto di fiducia che aveva con il Padre, inizia a non sentire più la sua presenza. Anche la Sua volontà, che aveva sempre ricercato, gli appare dura, difficile da accettare.

Quindi, "nella misura compossibile con la sua indefettibile santità, [...1 Gesù ha accettato dal Padre di entrare in questo mondo senza Dio; e lo ha fatto per risparmiare ai suoi fratelli la perdizione finale, nella quale sarebbero meritatamente incorsi"[4].

E’ stata questa la più grande prova d’amore, l’ultimo gradino di quella scala discendente iniziata con l’Incarnazione.

Abbiamo così le linee principali che ci permettono di comprendere i termini del discorso della Madre.

 

MADRE MECTILDE DICE:

 

NOI DIREMMO:

a) Dio è santo e giusto

a) Dio è amore e ci ha creati liberi

b) L’uomo, in quanto creatura, deve al suo Creatore lode, adorazione e sottomissione al suo volere (= virtù di religione)

b) L’uomo, ad immagine di Dio, è fatto per la relazione, per realizzarsi nell’amore, ma può amare solo nella misura in cui si mantiene in rapporto di fiducia con Dio.

c) Invece pecca, non loda Dio e disprezza il suo volere (non dandogli la gloria dovuta, "la ruba", la sottrae)

c) Peccando, manca alla sua fondamentale vocazione che è quella di essere manifestazione dell’amore di Dio e perciò della sua gloria. Crea tra sé e Dio una distanza e rompe anche la relazione con gli altri uomini, si chiude in sé.

d) Cristo viene tra noi

 

- come vero uomo può fare verso Dio ciò che l’uomo dovrebbe (rendergli la gloria)

- come vero Dio da alle sue azioni, ai suoi atteggiamenti e al sacrifìcio, un valore infinito. Così ripara,

d) Cristo viene: Dio viene incontro all’uomo

- è veramente uomo, cioè vive nella nostra condizione limitata

- ma porta in sé la forza risanatrice dell’amore gratuito di Dio. Così ripara, cioè restaura la nostra natura.

e) Con la sua obbedienza restituisce"a Dio suo Padre tutta la gloria a Lui sottratta dai peccatori con i loro crimini

e) Perciò vive quel rapporto di fiduciosa obbedienza al Padre che noi non eravamo più in grado di vivere. In questo modo Egli glorifica il Padre

f) Accetta di "soffrire tutti i castighi [...] a rigore di giustizia", cioè la passione e la morte (che sarebbe la paga del peccato e toccherebbe a noi peccatori e non a Lui che è senza peccato.

f) Egli è la Giustizia del Padre ( giustizia = manifestazione della santità;  risana la nostra incapacità di amare e ci rende nuovamente abili a "rendergli gloria", cioè a manifestare la sua santità amando.

Fa questo amandoci fino ad arrivare in fondo alla fossa della morte che noi ci siamo scavati e accettando perciò di passare per quelle tenebre che sono legate al peccato.

 

III. ANALISI E COMMENTO.

III.1 Prologo

La Madre apre la sua esposizione con uno sguardo alla vita dei consacrati in genere. Che cos’è la vita religiosa? Chi sono i religiosi?

La risposta è presa da S. Bernardo, ma la citazione di questo grande monaco è solo lo spunto autorevole per esaltare l’eccellenza del nostro Istituto sulle altre forme di vita consacrata (in questo caso non possiamo dire che "l’erba del vicino è sempre la più verde": Madre Mectilde non nasconde la sua convinzione di aver avuto in sorte la parte migliore!).

Può sembrare un’enfatizzazione eccessiva, ma teniamo presente che qui sta presentando il carisma così come appare a lei, nella sua massima altezza. Del resto, in altri scritti, si premura di precisare che l’eccellenza dell’Istituto viene tutta da Gesù Cristo.

 

Se S. Bernardo ha potuto dire in verità

che la professione religiosa è altissima nella sua eccellenza,

che si eleva sopra i cieli

e che può essere addirittura paragonata alla condizione degli angeli,

si può dire che in qualche modo

questo santo Istituto è di una eminenza veramente divina.

Le religiose che lo professano

devono essere dotate di una purezza e di una santità tutta celeste

che uguaglia quella degli angeli.

Oltre ai grandi vantaggi comuni con gli altri Ordini religiosi,

questo da loro una elevazione molto speciale.

E se dobbiamo credere che non ci sia altro potere

sopra quello che il carattere da ai sacerdoti

sul corpo e sul sangue di Gesù nel SS. Sacramento dell’altare,

possiamo dire che le Religiose del SS. Sacramento

non hanno che la santità e la purezza del Figlio di Dio

che stiano sopra a quelle a cui sono legate dalla loro professione.

Queste affermazioni saranno forse dettate dal desiderio di farci innamorare della nostra vocazione, di farcela stimare, ma sono davvero impegnative! E non finiscono qui!

Secondo S. Bernardo, gli Ordini religiosi

sono in stretto rapporto con la prima scuola di verità e di santità

tenuta in questo mondo da Nostro Signore.

Sono loro che imitano più perfettamente questi primi discepoli,

e le loro opere sono un rinnovamento della vita degli apostoli,

una fedele espressione della vita evangelica.

Da sempre, ogni forma di vita consacrata (in particolare coloro che vivono vita comune) si è rivolta, come modello, alla prima comunità dei credenti e ai primi discepoli che hanno risposto alla chiamata di Cristo.

Secondo la Madre, però, la nostra consacrazione, avendo relazione con l’Eucarestia è, in certo modo, qualcosa di più. Non è imitazione dei discepoli, ma imitazione del Maestro stesso. È imitazione di Cristo nella sua esistenza eucaristica e compartecipazione al suo mistero di redenzione.

Ma le Religiose del SS. Sacramento

sembrano entrare in una specialissima alleanza con la persona stessa del Figlio di Dio.

Condividono con Lui la sua propria qualità di ostia e di vittima.

In Lui e per Lui, diventano

le vere riparatrici delle ingiurie e delle irriverenze

che può ricevere dagli uomini

nel SS. Sacramento.

III. 2. Enunciazione dei due grandi impegni della nostra vocazione

Ogni identità si incarna in uno stile di vita.

Essendo la nostra vocazione un’imitazione di Cristo nell’Eucaristia, quindi di Cristo nel suo mistero pasquale, lo stile di vita conseguente non può che essere pasquale. Per questo la presentazione della nostra vocazione è come un lungo poema dove si rincorrono continuamente temi antitetici: santità/peccato; vita/morte; elezione/abiezione; purezza di vita/colpevolezza. Cristo nella sua Pasqua ha ricongiunto i due estremi: Dio nella sua santità e l’uomo nel suo peccato. Noi siamo chiamate a vivere con Lui questo stesso mistero.

Ma per vivere in stato di ostia,

e per esercitare degnamente le funzioni di riparatrici,

è necessario che sappiano

che la loro professione le vincola a due cose

rispetto al SS. Sacramento.

Senza di esse è impossibile

fare a Lui una riparazione perfetta.

Per aiutare a cogliere meglio il ritmo binario della Prefazione, presentiamo i brani del testo che sono via via analizzati, su due colonne, anticipando così graficamente alcune sue particolarità strutturali. Nella seconda sezione dello studio avremo poi modo di illustrare più ampiamente l’ordine armonico che si coglie nel testo.

 

(RENDERE A DIO LA GLORIA)

(PORTARE LE CONSEGUENZE DEL PECCATO)

La prima è di restituirci! tutta la gloria sottrattaGli nelle profanazioni.

 

 

E la seconda è di soddisfare la sua giustizia per tutti gli oltraggi ricevuti

Le Religiose del SS. Sacramento non devono limitarsi a restituire a Gesù presente nella Santa Ostia tanto onore quanta è la sofferenza che il disprezzo e l’irriverenza Gli causano.

 

 

Loro devono arrivare a dar soddisfazione con l’accettare tutte le pene temporali di cui si sono resi responsabili i detestabili profanatori del suo sacro corpo e del suo prezioso sangue.

 

 

Tutto questo non perché ci si voglia imbarcare in chissà quale impresa, ma perché Cristo, nella sua vita, ci ha amato così.

 

 

(VERSO IL PADRE )

(VERSO I PECCATORI)

secondo l’esempio del nostro adorabile Salvatore. Prendendo la nostra natura, Egli non si è accontentato di restituire a Dio suo Padre tutta la gloria a Lui sottratta dai peccatori con i loro crimini.

 

 

Egli ha voluto anche sacrificarsi e soffrire tutti i castighi che loro avevano meritato a rigore di giustizia.

 

 

 

A prima vista potrebbe sembrare un po’ calcolatrice l’idea di Dio messa in risalto da una simile economia, come se la gloria fosse un bene che si può rubare e restituire e, se non viene data da uno, può essere ottenuta da un altro.

Di questo passo anche il peccato risulterebbe più una questione d’onore che d’amore. In realtà il discorso è molto più ampio e complesso, come abbiamo visto nel secondo capitolo di questo studio.

Qui ci limitiamo a rilevare la necessità di guardare le due facce della medaglia. A volte si è tentati di parlare solo dell’aspetto positivo del mistero della salvezza, nel timore che il discorso sulla giustizia o sul castigo che il peccato merita sia fuorviante.

La salvezza suppone che ciò da cui siamo salvati sia un male e anche un male grave, se è necessario che la salvezza venga da un Altro. Questa è una verità di cui bisogna prendere atto.

Inoltre, diciamolo pure francamente: riconoscere che l’uomo, peccando, può combinare dei "gran disastri" è in fondo riconoscere che Dio gli ha affidato una grande responsabilità e dunque ha posto in lui una grande fiducia.

Ne risulta che, se l’abisso in cui siamo caduti è tanto profondo, altrettanto profondo è l’amore che Dio ha dimostrato per venire a tirarci fuori. Anzi, ancor più profondo.

PRIMO IMPEGNO: RENDERE A DIO LA GLORIA

Da quanto visto fin qui, possiamo leggere il primo quadro della nostra vocazione come una chiamata a restaurare, con Cristo, il progetto di santità che Dio aveva e ancora ha sull’uomo.

Dio ci ha fatti per la comunione con Lui e a questo tendono i cinque punti elencati dalla Madre.

Notiamo che ciascuno di essi ha un duplice aspetto: riguarda la nostra relazione diretta con Dio, ma ha anche un risvolto di riparazione, sempre in senso verticale, verso il mistero eucaristico per le mancanze dei fratelli.

Possiamo considerare queste cinque richieste anche come muri portanti della vita cristiana. Permettere che lo Spirito li edifichi in noi, è collaborare alla restaurazione di altrettante brecce aperte dal peccato.

La Madre vede tutto questo in relazione all’Eucaristia, e vede bene perché il corpo sacramentale di Cristo è segno e fonte di edificazione del Corpo Ecclesiale. La Chiesa celebra l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la Chiesa.

 

QUESTA PRIMA obbligazione di onorare e glorificare Gesù Cristo nel SS. Sacramento tanto quanto è disprezzato e profanato dagli empi e dagli infedeli, domanda alle Religiose che gli sono consacrate in qualità di vittime:

 

1° innanzitutto, una continua ed intera consumazione di se stesse per la gloria di Gesù Cristo, così come Egli spesso si consuma per loro. Significa che devono essere come olocausti, che il fuoco sacro dell’amore del SS. Sacramento deve consumare interamente; o come vasi sacri che possono servire all’altare solo se non sono stati profanati; o come le luci di quelle fiaccole di cui si servono per fare ammenda onorevole: non bruciano e non si consumano se non in onore del SS. Sacramento.

 

 

   

 

 

 

 

1° Con la perdita totale di se stesse, riparano la gloria che i maghi e gli empi rapiscono alla persona adorabile del Figlio di Dio quando costoro consumano così abominevolmente le sante ostie consacrate, nei loro sortilegi.

                         

1° Tra tutti gli esseri che Dio ha creato, l’uomo è l’unico ad avere la consapevolezza di essere. » il solo ad avere la possibilità di stare di fronte a Dio e dialogare con Lui.

La prima vocazione dell’uomo è quella di essere il rappresentante di tutto il creato, di vivere rivolto a Dio ed essere lode. In questo modo egli è, come dice Sant’Ireneo, gloria di Dio.

Per il peccato l’uomo si è invece curvato su se stesso; piuttosto che guardare a Dio e lodarlo, è intento a se stesso, ad esaltarsi, a difendersi, ad affermarsi.

Quando M. Mectilde parla di distruzione di noi stesse per glorificare Dio, si rifa forse all’intuizione sacrificale di Condren (autore della Scuola Francese), ma va inteso che quel nostro essere da distruggere è l’essere come idolo; 1’"essere-nostro" messo dal peccato come fine, come orientamento della nostra vita; quindi l’essere-nostro che diventa la nostra meta.

 

Noi però non siamo fatti per noi stessi, siamo fatti per Dio.

Lodare Dio, andare a Dio è la nostra grandezza.

Possiamo vedere allora questo nostro primo impegno come

- una propensione continua a verifìcare la nostra tendenza di fondo;

- come un recupero della nostra vocazione alla lode; affinchè il nostro appartenere a Dio sia sempre più totale.

Totale della totalità di noi stessi, ma totale anche per la totalità del Corpo Mistico di Cristo: non ci si salva da soli e non ci si fa santi da soli.

 

2° Secondo, bisogna che questa consumazione appaia nella loro vita e nelle loro azioni. Come una intenzione purissima che le tenga incessantemente elevate sopra ogni impressione dei sensi e della natura. Questa le trasforma completamente in Gesù Cristo velato sotto le specie al punto che non soltanto loro sono sempre in Lui, come Egli è in loro, ma le fa anche vivere e agire solo in Lui e per Lui, vedendo costantemente se stesse e ogni cosa in Lui.

 

 

 

 

 

 

 

2° Con la purezza d’intenzione, riparano il culto che i cattivi     sacerdoti sottraggono al SS. Sacramento quanto si servono di questo augusto sacrificio per l’interesse e per mille altri disegni criminali.

 

 

               

2° Questo secondo punto è la concretizzazione del primo, come l’Incarnazione del Verbo è la manifestazione di ciò che Dio è in sé e come le opere, secondo S. Giacomo, sono la vita della Fede.

Se veramente la nostra vita brucia soltanto per Dio, allora le nostre azioni e i nostri interessi divengono un conformarsi continuo alla sua volontà. (Il fatto che non sempre la volontà di Dio sia secondo "i sensi" e "la natura" è l’occasione continua per farne un sacrifìcio e per vivere con rettitudine la nostra sacerdotalità battesimale, rendendo in ogni circostanza un atto di culto a Dio).

Madre Mectilde dice che l’intenzione deiforme ci trasforma in Gesù-Eucaristia. L’atteggiamento di Cristo nel donarci l’Eucaristia è un atto di offerta, vissuto nella cornice della benedizione, del rendimento di grazie al Padre, nonostante l’ora della Passione che aveva davanti. Anche noi siamo chiamate a vivere gli stessi sentimenti nel corso della nostra giornata. Tutto ci viene da Dio attraverso l’obbedienza, in tutto possiamo dire: "Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo lavoro, questa gioia, questa fatica, le presentiamo a Tè, perché diventino per noi e per tutti un momento di grazia, un’occasione di salvezza".

In tal modo conformeremo la nostra intenzione alla volontà di Dio e la nostra vita sarà più "eucaristi-forme".

 

3° In terzo luogo, che questa intenzione sia sostenuta da fede pura, senza commercio alcuno con la vita dei sensi e con il ragionamento dello spirito umano. Le bestie e gli uomini che ci sono rappresentati dai sensi e dalla ragione, sarebbero temerari ad avvicinarsi alla santa montagna (cfr Es 19,12-13) dove il Dio del cielo è venuto ad abitare nella nube delle specie sacramentali. Per essi non hanno che fuochi, che lampi e folgori (cfr Es 20,18). Sarebbero lapidati e schiacciati sotto il peso di Colui che è la pietra angolare (cfr At 4,11) e mistica da cui scorrono verso di noi le acque della vita eterna (cfr 1 Cor 10,4). Bisogna quindi che entriamo nell’oscurità della fede e nelle nebbie della sola rivelazione divina, imitando Mosé (cfr Es 20,21). Potremo allora gioire della presenza reale e partecipare alle divine comunicazioni di questo Sole inaccessibile della divinità nascosta nella divina Eucaristia.

Per questo motivo, le anime che vorranno glorificare Nostro Signore Gesù Cristo in questo augusto mistero non devono affatto consultare altro oracolo o servirsi di altre luci  che non siano quelle della fede e della rivelazione divina.

Non ci sono che esse sole capaci di far cono scere la verità delle grandezze e delle perfezioni incomprensibili che vi sono racchiuse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3° Con la loro viva fede,  riparano l’onore dovuto alla presenza reale del corpo e del   sangue di Gesù Cristo, che gli infedeli e gli eretici combattono e Gli negano con le loro bestemmie, i loro sacrilegi, la loro profanazione.

 

 

                                       

3° Non si può avere un’intenzione deiforme, non si può vivere lo stesso atteggiamento di Gesù nell’Eucaristia, se non per fede.

Se la fede non ci rivela l’altro volto delle circostanze, se la fede non ci rivela il tesoro nascosto nel sacrifìcio, non è possibile accettare le circostanze difficili e viverle con atteggiamento cristiano: la pazienza, la disponibilità, il perdono, per la "vita dei sensi" (cioè per quella parte di noi che vuole vederci chiaro, che vuole sentire se c’è una vera ragione, che vuole toccare con mano se ne vale davvero la pena... ecc.) e per "(‘ ragionamenti dello spirito umano", cioè per la logica comune, sono follia, debolezza, sconfitta.

La radice della fede è la fiducia. Non è facile la fiducia, perché richiede una relazione di apertura e di amore.

La nostra vita è tutta fondata sulla fede: nessuno ci garantisce i risultati, i guadagni di una esistenza spesa nel nascondimento: esternamente il nostro tempo ruota intorno a Cristo presente nell’Eucaristia, ma questa presenza stessa è umanamente incomprensibile.

Che profitto viene da questa presenza di Cristo, da questo suo donarsi nel Sacramento? Perché vuole restare tra noi presente nel pane, perché resta in tante chiese nonostante nessuno lo pensi? Perché ha voluto restare così tra gli uomini? Perché si fida, quindi si affida, si pone nelle nostre mani, si dona a noi come cibo, dimora in mezzo a noi come una presenza che non ci costringe.

Nella fede, anche noi possiamo unire la gratuità della nostra vita data, di ogni istante della nostra esistenza messo nel solco dell’obbedienza, al donarsi di Cristo.

Scopriremo così che la presenza di Cristo nell’Eucaristia, rivelataci dalla fede, ci porta a scorgere la presenza di Cristo nelle sorelle, in chi ci guida, nelle circostanze, nella storia.

In un mondo dove si va a caccia di straordinario per dare tono alla vita, diviene segno profetico il saper scorgere la straordinaria presenza del divino con la sua fecondità, nel quotidiano.

Questo 3° punto (della pura fede) è forse il più ricco di immagini bibliche. Sembra quasi un tessuto formato dall’intreccio di tanti passi scritturistici, che sono stati riletti allegoricamente e applicati al mistero della presenza eucaristica.

Ciò rivela che la nostra Fondatrice era un’assidua frequentatrice della Bibbia e, come i Padri della Chiesa nelle loro catechesi, sapeva unire il Pane alla Parola; sapeva attingere alle figure antiche per spiegare la realtà nuova del sacramento.

 

 

4° Questa obbligazione di onorare Gesù Cristo nel SS. Sacramento, richiede in quarto luogo che la vita di pura fede sia accompagnata da una vita di amore d’unione.

Esso deve fare delle Religiose votate alla sua gloria una cosa sola, per così dire, con il corpo e il sangue, l’anima e la divinità di Gesù nel SS. Sacramento. In questo modo, come il pane e il vino si transustanziano nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo e le sante specie non hanno altra sostanza che quella del Figlio di Dio, anche loro perdono tutto l’essere naturale tratto dalla corruzione dell’uomo vecchio.

Si trasformano nel essere divino che hanno ricevuto dall Uomo nuovo, che è Gesù Cristo, per non avere mai più altre inclinazioni, altro spirito, altri pensieri, altre parole, altra azione che non siano     le sue e quelle loro ispirate dalla sua Grazia e dal suo Spirito divino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4 Con il loro amore d’unione riparano il rispetto che i peccatori hanno perso per il Santo dei Santi    avvicinandosi a Lui con sentimento criminale[5] volendo unire Gesù-Cristo a Belial (2Cor. 6 15-16) e Dagon all’arca.

In un  tempio profano e in un cuore insozzato.

  

    

            

Se è vero che la fede è fiducia (perché non è solo credere in una verità, ma consegnarsi alla Verità), si comprende come l’amore sia un’altra dimensione essenziale della nostra vita.

Non si tratta però di un amore qualsiasi, bensì di un amore d’unione.

Certamente è caratteristico dell’amore unire, ma come?

La frase di questo 4° punto riguardante la riparazione, lascia intendere che non tutti i modi di unirsi al Signore sono buoni. C’è un desiderio di unione con Dio che è solo un voler mettere le realtà le une accanto alle altre, voler aggiungere Dio a tutto ciò che già abbiamo, senza badare alle incompatibilità.

Non si può, sarebbe come voler unire Dagon all’Arca (1 Sam 5,2-4)

Dio non è una delle tante cose che ci potrebbero servire.

Dio è il Signore e vuole vivere in noi da Signore, non può convivere con il peccato.

Allora come bisogna fare per unirsi a Dio? Qual è il vero amore d’unione? L’immagine usata è quella della transustanziazione: come Cristo trasforma il pane nel proprio Corpo, così deve potersi unire a noi rendendoci parte di sé. Deve poter vivere in noi con i suoi sentimenti, i suoi desideri, la sua capacità di amare.

Caratteristica dell’amore d’unione è dunque il sapersi cedere, il lasciarsi possedere, che non è comunque spersonalizzazione, ma compenetrazione d’amore.

Dio non ci costringe a questo, tanto che non rifiuta se stesso neppure a chi lo riceve nel sacramento restando attaccato al peccato.

Egli per primo svuotò se stesso, come dice S. Paolo, e da Dio si fece servo. Solo l’amore ha occhi per vedere questa kenosi anche nell’Eucaristia. Solo chi ama ha quella grande libertà che sa accogliere Colui che per noi così si è svuotato, svuotandosi a propria volta. Così, vuote dell’uomo vecchio, possiamo accogliere l’Uomo nuovo e diventare, come il pane eucaristico, "date per la vita del mondo".

 

5° Infine, questa obbligazione richiede una vita di preghiera continua con la quale, imitando i due cherubini dell’arca, possano aver sempre il volto del loro spirito e del loro cuore fìsso su questo divino propiziatorio del Nuovo Testamento. Da esso devono ricevere tutti i loro oracoli, devono persuadersi che da esso Dio parla loro per far loro intendere le sue divine volontà nel modo più familiare e ordinario. E’ questo spirito di preghiera che darà loro l’ingresso alla cantina del vino delizioso del loro Sposo adorabile, per bervi a grandi sorsi e inebriarsi di queste dolcezze e consolazioni ineffabili.                         

 E’ questo spirito di preghiera che darà loro la prerogativa di tutte le sue vergini che seguono l’Agnello dovunque si trovi in tutti i Tabernacoli.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5° Con la loro preghiera, riparano la riverenza che i libertini e la maggior parte dei cristiani rifiutano o trascurano di portare ai sacri misteri, assistendovi senza preghiera e senza devozione.

                                         

5° L’amore e la fede di cui si è appena parlato sono virtù teologali, cioè realtà divine che noi non possiamo produrre con le nostre forze, ma che possiamo accogliere come dono.

Non possiamo pretendere di averle, ma possiamo umilmente chiederle a Dio nella preghiera e attenderle come una grazia.

Una vita di preghiera continua è avere sempre gli occhi rivolti al Signore, "come gli occhi della schiava alla mano della sua padrona" (Sl 722,2).

La Madre però non parla di schiavi, ne di padroni, usa invece una metafora squisitamente nuziale: la preghiera è vista come la chiave per entrare nella stanza dove lo Sposo ci fa gustare il suo vino delizioso.

La preghiera incessante non è presentata come un dovere oneroso, ma come la possibilità di un filo diretto continuo con Dio. Possiamo forse vederla come il parallelo mectildiano del 1° grado di umiltà nella Regola di S. Benedetto: vivere sempre alla presenza del Signore. È la costante consapevolezza della Sua presenza che ci trattiene dal male e ci spinge al bene.

Per descrivere lo spirito di preghiera vengono usate tré immagini bibliche: la prima è l’arca con i suoi cherubini (Es 37,1-9), ma quest’immagine è cristianizzata. Infatti, chi toccava l’arca del Signore degli eserciti poteva morire; invece dalla nostra arca, dal tabernacolo, Dio parla a noi in modo familiare. Ci fa gustare le sue dolcezze e consolazioni ineffabili, come il vino dello sposo era delizia per la sposa del Cantico dei cantici (Ct 2,3-4) (ed è questa la seconda immagine biblica).

La terza chiude il paragrafo ed è presa dall’Apocalisse (Ap 14,4): la preghiera continua è la possibilità, anche per noi che abbiamo fatto voto di stabilità, di seguire l’Agnello, ovunque si trova, nei tabernacoli di tutto il mondo, in mezzo a tutti i popoli.

La preghiera continua è la nostra dimensione missionaria: restando sempre rivolte a Dio, siamo continuamente da Lui spinte a rivolgerci ai fratelli, a cercare ciò che Cristo cerca: la gloria del Padre nella salvezza dell’uomo.

Sintesi del primo impegno (Rendere a Dio la gloria)

Ecco l’eccellenza dello spirito dell’Istituto e le obbligazioni delle Religiose del SS. Sacramento.

Saranno nello stato loro richiesto dalla loro vocazione

5 se hanno lo spirito di preghiera,

4 se tendono all’amore d’unione,

3 se vivono di fede,

2 se hanno l’intenzione purissima

1 se tutto il loro essere è veramente consumato con Gesù Cristo per la gloria del Padre suo.

5 Lo spirito di preghiera le disporrà

4 all’amore d’unione,

3 alla fede pura,

2 e alla purezza d’intenzione.

La fede viva, la purezza delle intenzioni e l’amore d’unione

1 ne faranno delle vittime.

Il riepilogo riassume la colonna di sinistra e introduce le "cinque riparazioni" che, nell’ordine naturale del testo sono elencate da qui in poi, ma che noi abbiamo già riportato, ciascuna accanto all’elemento a cui si riferisce, per evidenziarne la correlazione.

Le cinque realtà che costituiscono il primo dovere della nostra vocazione sono rievocate partendo dall’ultima, quasi come per risalire una scala.

Lo spirito di preghiera diventa la piattaforma su cui si può innalzare la vita divina; il terreno nel quale l’azione della Grazia può affondare le radici della fede e della carità, per portare frutti in una volontà che si conforma a quella di Dio.

La fede e l’amore, operazioni divine per eccellenza, come forza dinamica dello Spirito, condurranno la nostra vita alla sua pienezza, ci porteranno cioè ad essere ciò che dobbiamo essere: totalmente date, consumate dal fuoco di carità che è nell’Eucaristia[6].

 

 

CONGIUNZIONE

 

- Felice l’anima che sarà trovata degna

di fare una tale riparazione al SS. Sacramento.

Più felice ancora se ella sa

come deve assolvere alla grande obbligazione

che la carica di tutte le profanazioni

del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo.

Di conseguenza, è resa soggetta

a soffrire tutte le pene temporali

che meritano tutti coloro che l’hanno profanato

e che lo profaneranno fino alla fine dei secoli

Questo macarismo costituisce il passaggio che congiunge le due tavole del dittico riguardante la nostra vocazione. Esso fa da cerniera tra l’esposizione del primo impegno (rendere a Dio la gloria) e l’illustrazione del secondo (in unione a Cristo, fatto solidale coi peccatori, portare le conseguenze del peccato).

La prima "felicità" riguarda ciò che abbiamo visto esposto nei cinque punti, ed è l’imitazione del primo orientamento (verso il Padre) della vita di Gesù. La nostra vita è pure orientata verso l’alto, cioè verso l’Eucaristia come mistero di santità.

Per rendere la gloria dovuta a un Dio Santo, non c’è che una vita santa, ed è appunto una vita fatta di preghiera, di fede, di amore, tutta consumata per Dio, nell’adesione alla sua volontà.

La seconda parte del macarismo ("ancora più felice se...") ci fa puntare lo sguardo sul secondo orientamento della vita di Gesù. Egli, nell’Eucaristia, è volto alla salvezza dei peccatori, è dato - Egli, l’innocente - in riscatto per il peccato. Qui la tonalità dominante è la Giustizia. Cristo ci ha giustificati prendendo su di Sé il peso del peccato. Partecipare al suo essere Vittima significa essere chiamate a condividere, nella maniera e nella misura che Dio dispone, questo suo atteggiamento.

 

 

SECONDO IMPEGNO: CON CRISTO, FATTO SOLIDALE CON I PECCATORI, PORTARE LE CONSEGUENZE DEL PECCATO

Questa seconda obbligazione richiede degli stati e delle disposizioni completamente diverse da quelle necessarie per la precedente.

Presentazione comparata dei due aspetti della nostra vocazione

 

La prima obbliga un’ostia a considerarsi come consacrata alla gloria del SS. Sacramento,

                                          La seconda la obbliga a considerarsi come sacrificata per tutte le    profanazioni di questo adorabile mistero.

La prima richiede che una vera riparatrice dia e faccia tutto per rendere a Lui l’onore che merita.

                                           La seconda richiede che ella perda e soffra tutto per espiare gli oltraggi e le indegnità che Egli riceve.

Una ispira sentimenti di rispetto e d’amore.

                                           L’altra riempie di timore e di confusione.

 

 

Il secondo quadro inizia mostrando la differenza di prospettiva che c’è tra i due aspetti della nostra vocazione.

Entrambi si riferiscono al Cristo nell’Eucaristia, come il Venerdì santo e la Domenica di risurrezione costituiscono l’unico mistero pasquale.

Nell’economia divina entrambi i momenti hanno manifestato l’amore di Dio, anche se nell’economia umana il loro aspetto è effettivamente diverso!

Notiamo la sottolineatura della differenza attraverso i termini usati:

considerarsi consacrata dice la dignità dell’appartenere a Dio;

considerarsi come sacrificata dice la radicalità dell’espropriazione che questa appartenenza comporta;

doni e faccia di tutto esprime l’oblatività attiva di una vocazione,

perda tutto e soffra tutto indica la concretezza di un appartenere a Dio dove, al nostro protenderci in dono, risponde il suo prenderci sul serio; prendere e trasformare; prendere e disporre secondo la sua volontà.

A questo punto, i cinque impegni che costituivano il nostro primo dovere (nel 1 ° quadro) vengono ripresi, in ordine inverso, per far corrispondere a ciascuno un atteggiamento intonato all’aspetto più oscuro e doloroso del mistero pasquale.

In tal modo i cinque "stati di vita" e i cinque "stati di morte" vengono a formare, mediante una struttura a chiasme, come una grande inclusione intorno alla duplice beatitudine che sintetizza la nostra vocazione.

 

1

2

3

4

5

 

 

FELICE

 

ANCORA

PIU’

FELUCE

5

4

3

2

1

Stato di consumazione

 

 

Stato di annientamento

 

Intenzione pura

 

 

Stato di morte

 

 

Vita di fede

 

 

Vita di sofferenza

 

 

Amore di unione

 

 

 

Amore di separazione

 

 

Luci nella preghiera

 

tenebre e aridità

 

 

 

 

 

 

 

5

Come la prima deve far sperare

Luci e consolazioni spirituali

nella preghiera e nella

santa comunione

5

così la seconda deve far attendere tenebre, aridità, privazione, ecc.

[NELLA PREGHIERA]

4

La prila aspira all’amore d’unione

e al rallegramento

4

La seconda porta ALL’AMORE DI SEPARAZIONE

3

La vita di fede della prima

3

deve cambiarsi in VITA DI SOFFERENZA nella seconda

2

L’intenzione deificata

2

in STATO DI MORTE

1

e la stato di consumazione

1

in quello D’ANNICHILIMENTO di se stesse

 

La grazia propria del nostro carisma è il poter partecipare al mistero di morte e risurrezione di Cristo. Ciò avviene con l’assimilazione ora all’aspetto positivo, ora a quello negativo. L’importante è saper accettare sia l’uno che l’altro con amore, perché entrambi racchiudono l’unica grazia pasquale.

Ma, concretamente, come si configura questa seconda faccia della medaglia?

Come si partecipa allo stato di Gesù Vittima della giustizia?

Se dunque una Religiosa del SS. Sacramento vuole assumere lo spirito della sua vocazione,

si tenga sempre in stato di ostia alla sua santa presenza.

 

Per comprendere questo aspetto bisogna "tenersi nello stato di ostia", bisogna stabilirsi.

Una comprensione che non è dunque intellettuale, ma esperienziale, dove l’esperienza richiede necessariamente la stabilità, il vivere con Cristo, lo stare con Lui.

Vivere con Cristo Vittima d’amore è la condizione per capire che cosa significhi vivere lo stato di vittima e dunque poter assumere lo spirito della nostra vocazione.

Per "com-prendere" (cioè prendere con sé) Cristo, è necessario "convivere", cioè vivere con Lui nel suo stato di ostia, quindi accettare la morte e la vita, l’ignominia e la gloria.

Madre Mectilde lo esplicita continuando il discorso così:

                      Se vuole vivere in stato di vera vittima come ella si ritiene

si reputi sia oggetto d’amore e di compiacimento verso il suo Divin Salvatore, che volentieri accetta Gli venga fatta la riparazione della sua gloria,

 

sia come oggetto d’orrore e d’indignazione davanti al suo Giudice sovrano, che esige, in giustizia, la soddisfazione dovutagli per tante profanazioni;

 in questo modo ella si creda da un lato chiamata a ciò che vi è di più puro di più santo e di più divino nella vita spirituale,

e dall’altro obbligata a ciò che vi è dì più mortificante, di più crocifiggente e di più annichilente nella penitenza.

Infine, che ella si decida ad accogliere sempre

sia gli effetti della sua misericordia

 

      sia quelli della giustizia divina,

perché è tenuta dalla sua professione ad onorarli in eguai misura

nel SS. Sacramento dell’altare.

 

Che non ci sia mai croce, disprezzo, sofferenza, morte, abbandono e annichilimento che lo zelo della giustizia divina non le faccia abbracciare con gioia per l’espiazione dei peccati di tutti i profanatori del SS. Sacramento.

Casella di testo: Sia sempre lodato e adorato Gesù Cristo nel SS. Sacramento dell’altare.


Come non c’è alcuna virtù, grazia, merito, perfezione, santità, benedizione, lode, adorazione, omaggio, preghiera, opera buona, che l’amore e la pietà non le debba far ricercare con ardore per la riparazione dell’onore e della gloria, della grandezza e dell’eccellenza della persona di Gesù Cristo, realmente presente in questo divino mistero che deve costituire la vita e il fine di colei che lo Spirito Santo ha scelto per essere consacrata con un voto speciale in qualità di vittima all’adorazione perpetua e inviolabile del SS. Sacramento dell’altare.

 

IV. ALCUNI INTERROGATIVI

Per accettare e vivere il secondo aspetto del mistero pasquale occorre mettersi nella giusta dirczione: il carisma della riparazione, è un carisma, dunque un dono.

Non una nostra iniziativa, dettata da sete di eroismo, o di masochismo, ma una realtà di grazia nata dallo Spirito, nell’ambito di quel grande mistero che è la Comunione dei santi. Essa può perciò essere accolta e vissuta solo nella docilità allo Spirito Santo che è l’Amore.

Vediamo alcune obiezioni che possono nascere spontanee di fronte ad una proposta come quella che la Madre ci fa.

A) Si può trarre dal male il bene?

Si è soliti pensare che si aiuta il prossimo facendogli del bene, qui invece ci si dice che bisogna essere disposti ad accettare in spirito di riparazione, croce, disprezzo, sofferenza... tutte realtà negative. Come può venire la vita da ciò che sembra negarla?

Per vederci più chiaro bisogna, ancora una volta, rifarsi al modo in cui Cristo ha compiuto la nostra salvezza.

Egli ha vissuto realtà negative, come il tradimento, l’abbandono, il sentirsi solo, l’essere crocifisso, il morire... e noi diciamo che in questo modo ha offerto se stesso per noi.

Siamo tanto abituati a parlare di sacrifìcio della croce, che non ci rendiamo più conto di come sia stato necessario un cammino di interpretazione per giungere a riconoscere in quella morte un atto d’amore per gli uomini e un atto di culto a Dio (tale è considerato il sacrificio nella legge di Mosè).

Ricordiamo che nel Deuteronomio era scritto: "Maledetto chi pende dal legno" (Dt 21,23).

Agli occhi di chi ha assistito allo "spettacolo" della croce, quella morte toccata a Gesù era semplicemente la giusta punizione che gli spettava, perché Egli aveva prevaricato dichiarandosi Figlio di Dio.

I cristiani stessi, nelle prime iconografie, non rappresentavano la scena della crocifissione, preferivano altre immagini simboliche per designare Cristo: il buon pastore, il pesce, perché la croce era davvero, come dice S. Paolo: "Scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani" (ICor 1,23)

II cammino che ha portato a leggere la morte di Gesù come un’offerta sacrificale, parte da lontano. Affonda le sue radici nel bisogno che l’uomo ha sempre avvertito di offrire qualcosa a Dio.

Per mezzo di ciò che offre, l’uomo religioso intende offrire se stesso, entrare in comunione con Dio. Ma, nella tradizione di Israele, il peccato è considerato l’impedimento che non consente questa relazione diretta: ecco allora il sacrificio espiatorio fatto con l’offerta del sangue di animali [7].

Il sangue di vitelli e di capri è tuttavia qualcosa di esterno all’uomo, come può purificarne la coscienza? {Cfr Eb 9,9)

Ma Cristo, essendo senza peccato, può finalmente offrire se stesso a Dio e il suo sangue può veramente togliere il peccato e ristabilire l’alleanza con Dio.

Per questo la sua morte viene letta come un sacrificio cultuale e nei racconti dell’istituzione dell’Eucaristia si dice del suo sangue che è "sparso per la moltitudine in remissione dei peccati" (Mt 26,28).

Pur essendo senza peccato. Cristo era comunque veramente uomo, come tale provò sgomento di fronte alla morte che lo attendeva. La lettera agli Ebrei dice che "Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime e fu esaudito per la sua pietà".

Cristo, pregando, aprì il suo essere-uomo al Padre, Egli lo esaudì donandogli il suo Spirito, per questo potè offrire se stesso in uno Spirito eterno (cfr Eb9,14).

Lo Spirito Santo, fuoco divino di carità, fu la forza che gli permise di offrire se stesso al Padre e divenire così causa di salvezza eterna per tutti noi.

Noi siamo partecipi del suo stesso Spirito, mediante la fede e la rigenerazione battesimale, ora lo Spirito Santo abita anche in noi ed è la Vita della nostra vita, per questo, anche noi possiamo offrire - secondo le parole di S. Paolo - i nostri corpi "come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1) o, come dice la prima lettera di S. Pietro, siamo partecipi di un sacerdozio santo "per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo" (7 Pt 2,5).

Ogni cristiano dunque, in forza del Battesimo, e noi anche in forza della nostra professione, siamo partecipi del sacerdozio di Cristo. Come Lui possiamo chiedere e in Lui possiamo ricevere dallo Spirito la forza di fare di ogni "forma di morte e di annientamento", anche del senso di abbandono da parte di Dio, un sacrificio spirituale, un’oblazione per la salvezza dei nostri fratelli.

B) Una spiritualità così legata al senso della giustizia divina, non è troppo dipendente da un tempo particolare della Chiesa? E’ ancora vivibile oggi?

L’idea che il cristiano sia chiamato a partecipare alle sofferenze di Cristo, anche a favore dei fratelli, non è nata nel XVII secolo

Se torniamo ai primi secoli della Chiesa, vediamo che già nel modo in cui i martiri vivevano l’offerta della loro vita, c’era un grande respiro universale. Spesso morendo pregavano ed offrivano la vita per i loro persecutori.

Anche nei Padri della Chiesa è vivo il senso della corresponsabilità che il cristiano deve avere nei confronti del fratello.

"Come perfetto atleta porta il peso dell’infermità di tutti. Se ami solo i discepoli buoni non hai alcun merito...Io offro in espiazione per tè la mia vita e le mie catene" (S. Ignazio d’Antiochia a Policarpo).

Se non a tutti è dato il martirio di sangue, tutti i cristiani, in ogni tempo, nel II, come nel XVII, come nel XX secolo, sono chiamati a vivere questo spirito di offerta.

"A nessuno è negata la vittoria della croce. Anche voi se lo volete, soffrendo persecuzione per Cristo sarete martiri tutti i giorni. Come? Se vi erigerete contro il peccato e contro la vostra volontà. Se lottate, anche voi sarete martiri" (S. Leone Magno)

C) In che cosa può consistere il portare gli effetti della giustizia divina?

La paura del giudizio nasce dalla consapevolezza della colpa.

Fin dall’inizio dell’umanità il peccato è stato seguito dalla paura (Gen 3,10).

L’uomo, dopo aver compiuto atti senza Dio o contro Dio, non sa accettarne le conseguenze. La conseguenza prima è la realtà, la verità, la nudità: il peccato non l’ha portato ad essere uguale a Dio (Gen 3,5), ma gli ha mostrato la sua radicale differenza da Lui, la sua piena fragilità di creatura, che staccata dal Creatore è senza consistenza.

Tutto questo non è facile da accettare. Perciò l’uomo si nasconde o negando di aver peccato o avanzando delle scuse (la donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero...).

Portare gli effetti della Giustizia non è dunque tanto aspettarsi delle reazioni da parte di Dio, ma riconoscere la consistenza, la realtà del peccato che Dio non può negare, perché non può negarci la libertà.

S. Paolo dice che "il salario del peccato è la morte" (Rm 6,23): se l’uomo pecca, sa che cosa gli spetta. La morte e i suoi derivati (sofferenza, fragilità, solitudine ...), hanno questa prospettiva: non sono una punizione, sono semplicemente ciò che l’uomo si è guadagnato da sé, con le proprie scelte. Portare le conseguenze del peccato forse può significare anche: saper misurare la distanza che il peccato pone tra noi e Dio.

Non è cosa facile, però è il punto di partenza per ogni redenzione.

L’essere peccatori e la difficoltà a riconoscere e ad accettare il nostro stato di nudità spirituale conseguente al peccato, sono i binari che ci mettono sullo stesso piano dei nostri fratelli più lontani da Dio.

Vivere la fatica di volgersi a Dio da questa posizione, sapendo che Egli in Cristo ci sta già venendo incontro, è attirare anche nel cuore dei fratelli la forza per fare lo stesso gesto, è farlo insieme perché l’Incarnazione ci ha resi un corpo solo con loro. S. Clemente Alessandrino dice: "Se il prossimo del fratello ha peccato, ha peccato anche il fratello". Quindi, se il fratello si volge a Dio nella verità per essere rivestito della sua Misericordia, crediamo che anche il prossimo del fratello possa esseme rivestito con lui.

Il farci, in Gesù, solidali coi peccatori ci porta a lavorare sulle ferite della nostra natura umana. Cristo ha fatto della sofferenza e della morte (che sono le realtà più dure per l’uomo) degli strumenti d’amore, delle vie per la vita.

Noi portiamo dentro l’inclinazione al peccato come seme di morte che ci fa soffrire, come peso che continuamente ci taglia le ali, però anche questo può divenire una via di umiltà, una via d’amore e di ritomo a Dio se la sappiamo vivere facendone la porta di accoglienza della redenzione di Cristo per noi e per i fratelli. Assumere consapevolmente tutti i limiti della nostra vita è permettere a Cristo di continuare in noi a rivestirsi della natura umana per salvarla.

 

CONCLUDENDO QUESTO TENTATIVO DI ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO

Parlare delle esigenze della nostra vocazione davanti ad un testo scritto è certamente più facile che accettarle quando esse si presentano nella concretezza della vita.

È comunque importante anche avere presente e chiaro il progetto incluso nella nostra chiamata, perché quando Dio si mette all’opera per realizzarlo, ci sia meno diffìcile riconoscere la Sua mano.

Senza dubbio la meta che la Madre ci presenta, in questa prefazione alle Costituzioni, è molto alta.

Se l’ideale è alto, però, anche la Grazia può compiere meraviglie e condurre a mete impensabili. Chi avrebbe mai immaginato a quale grado di purificazione e santità Dio avrebbe portato Madre Mectilde? Chi potrebbe misurare il suo grado di conformazione al mistero pasquale di Cristo?

La Madre stessa, più volte, si è meravigliata di essere ancora viva, dopo essere stata sospesa così a lungo e così spesso, sull’abisso della morte.

Proprio la sua vita è una presentazione al vivo della nostra vocazione pasquale: nei trasporti più lirici sentiva abitare e vivere in sé l’amore, ma anche nelle disposizioni più crocifìggenti della sua anima, riconosceva l’opera dell’amore divino. Emblematico a questo riguardo è il testo in cui descrive le sofferenze a cui è destinata l’anima che Dio ha scelto in modo particolare come vittima. E’ sorprendente vedere come sa descrivere anche i tratti più drammatici in termini sponsali: "Questo Dio infinitamente adorabile, avendo ricevuto quest’anima col gradimento del suo amore e della sua compiacenza infinita, trova un nuovo modo per immergerla in uno stato che possiamo chiamare l’inferno del Puro amore; e io credo che si possano applicare qui le parole del Cantico: ‘L’amore è più forte della morte, più crudele degli inferi è la gelosia’. [...] Capite, per favore, che lo Sposo ha legato quest’anima con un contratto fra Lui e lei, che si può dire irrevocabile che appartiene alla sua fedeltà per il divino matrimonio che ha contratto con lei, e ha fatto nuovamente prova del suo amore, ma in un modo che si può dire crudele, senza uscire dal rispetto che si deve alle operazioni di Dio "[8].

E’ dunque sempre l’Amore che santifica o che purifica, che fa morire e che fa vivere, che fa scendere agli inferi e risalire.

Che Dio ci conceda, per intercessione di Madre Mectilde, la grazia di abbandonarci a questo Amore.

 

 



* Monaca del monastero SS. Salvatore di Grandate (CO). Presentiamo la prima sezione parte di uno studio che ha come oggetto la Prefazione alle Costituzioni di madre Mectilde de Bar sulla Regola di S. Benedetto.

[1] Madre Mectilde, in una sua esclamazione, dice che vorrebbe avere la voce come il ruggito di un leone per gridare a tutti di non dimenticarsi di Dio (cfr. Attesa di Dio Jaca Book, Milano 1982 pag. 163). Questa volta, per un giro di provvidenza, la sua voce è proprio riuscita, come il ruggito di un leone, a farsi sentire lontano, in un luogo che, se non è lontano geograficamente, a volte è lontano dalle menti e dal cuore: il carcere. Ringraziando il detenuto che ha donato impegno, competenza e diligenza per tradurre la "Prefazione", riportiamo l’eco che il messaggio di Madre Mectilde ha suscitato in lui: Avevo sempre pensato che l’aggettivo ineffabile non potesse mai essere correttamente attribuito ad una esperienza umana, fino a quando non mi sono imbattuto per puro caso nelle parole di Madre Mectilde. E’ così intensa la sua esaltazione mistica che ci si sente strappati dal mondo ed immersi in una situazione che. appunto, nessuna parola riuscirà mai a descrivere compiutamente. Per la prima volta ho sentito che l’Eucaristia può essere non solo un bei rito, ma la effettiva unione con Cristo. La Madre non propone alle sue consorelle una vita fuori dal tempo e dalla realtà, ma una esistenza die contribuisca a salvare l’Uomo con la donazione totale di sé. Richiede assoluto amore ed è stupefacente constatare che questo avvenga in un mondo che sembra affondato nella più sconsolante indifferenza. Forse è proprio dalla comprensione del mistero eucaristico che può nascere una umanità nuova.

[2] AA.VV. Spiritualità ablativo riparatrice, EDB, Bologna 1989, p. 126-127.

[3] "(Gesù Cristo nell’Eucaristia) scende nel petto di persone spesso abominevoli e corrotte dall’infezione del peccato, venendosi così a trovare nel luogo più infamato che si possa immaginare, e del quale ha un grandissimo orrore" (Il vero spirito. Capitolo 1°, §1, pag 2-3).

[4] AA.VV. Spiritualità ablativo riparatrice, cit., p.140.

[5] Il traduttore ha reso così l’espressione “avec l’affection du crime” per indicare non una semplice inclinazione al male, data dalla umana fragilità ma un deliberata adesione della coscienza e della volontà al male e al peccato, che giunge a considerare "bene" ciò che in realtà è "male". In termini attuali, potremmo parlare di opzione fondamentale negativa (N.d.R.).

[6] Nelle Costituzioni manoscritte (P 103) Madre Mectilde parla della morte di S. Benedetto presentandola come un olocausto consumato da questo stesso fuoco nascosto nell’Eucaristia.

[7] L’esperienza insegna che al momento in cui il sangue zampilla dall’animale sgozzato, esso emana un vapore caldo: questo venne chiamato "l’anima che è nel sangue" e identificato più o meno col principio vitale che sfugge al vivente man mano che ne esce il sangue. [...] Il rapporto tra il sangue e la vita è anche la ragione del suo valore come mezzo di espiazione. Uno degli aspetti del peccato è il fatto che esso impedisca o comunque rallenti il rapporto di comunione con Dio. Ora, questo rapporto è la vita per l’uomo. Il sangue, per la "vita" che esso contiene, ha l’efficacia di rinvigorire un’unione rilassata. Questa efficacia simbolica del sangue espiatorio si avvicina all’efficacia del sangue dell’Alleanza. Questo era stato costitutivo della comunione con Dio; l’espiazione suppone ancora in vigore l’alleanza, ma come diminuita e offuscata dai peccati; mediante il rito espiatorio essa rivive completamente ristabilendo l’amicizia con Dio. (E. Galbiati, L’EUCARISTIA NELLA BIBBIA, I.P.L. Milano 1982. pag 60-61).

[8] Citato in Véronique ANDRAL OSB ap, Catherine Mectilde de Bar, 1. Un carisma nella tradizione ecclesiale e monastica. Città Nuova 1988, pagg. 152-153.