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Deus absconditus, anno 89,  n. 3-4, Aprile-Dicembre 1998, pp. 18-20
 

Mons. Mario Tagliaferri, nunzio apostolico a Parigi
Omelia pronunciata a Parigi, 1998

 

Sorelle, permettetemi innanzitutto di esprimervi la gioia che provo in questo giorno, nel trovarmi tra voi in questa celebrazione del terzo centenario della vostra Congregazione, che per motivi personali conosco da lungo tempo, dato che esiste un monastero nella mia città natale [1]. Il mio rendimento di grazie si unisce al vostro e la mia preghiera chiede al Signore di condurvi nelle vie della santità, della generosità e dell’apostolato, per la sua gloria e per il servizio alle anime.

Quale miglior testo trovare, in questo terzo centenario della morte della vostra fondatrice, di questo passaggio del vangelo di san Giovanni, uno dei rari in cui Gesù stesso abbia fatto l’esegesi di un testo dell’Antico Testamento applicandolo a sé, quello del serpente di bronzo? Si tratta qui della prima «esposizione del SS. Sacramento», per così dire, con il significato che contiene. Ne farò emergere tre significati principali, che corrispondono bene alla spiritualità di madre Mectilde.

1. Il serpente di bronzo, è figura del male – il morso, il bruciore – volta nel suo contrario: la salvezza, a condizione che i peccatori gettino uno sguardo verso questo simbolo temibile, che l’Amore divino è riuscito a dominare per conferirgli il suo autentico significato, la sua reale efficacia. Pensiamo al versetto di Paolo (2 Cor 5,21): «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio». Infatti, il Santo di Dio ha voluto assumere una carne di peccato simile alla nostra, per dire al Padre un SÍ totale esattamente dove Adamo gli aveva detto NO, per guarirci della nostra delinquenza spirituale e farci ritrovare lo Spirito della rassomiglianza filiale, nel quale diciamo, ABBÀ, PADRE. Contemplare la croce è possibile, è salutare, solo se vediamo in essa questa completa inversione di marcia, questa conversione. Non è la morte che guardiamo (sarebbe malsano), è piuttosto l’oblazione che giunge sino alla morte e in questo modo elimina la morte, frutto del peccato.

Madre Mectilde ha letto abbastanza san Paolo per capire ciò. Vi ha mostrato Cristo nel suo «stato eucaristico», nel quale continua il suo sacrificio. A condizione di ben comprendere cosa significa la Redenzione: un riprendere totalmente in mano l’uomo per ridargli la dignità filiale. Certo, c’è la morte, l’effusione del sangue (Eb 9,22), ma è la carità che conferisce tutto il valore. Adamo aveva detto, nella sua rivolta: «O io o Dio». Ha fatto di ogni pièce questo tragico dilemma. Allora Dio l’ha rinchiuso nella sua disobbedienza per fargli misericordia (Rm 11,32). E il Verbo si è incarnato per distruggere questa problematica: ha scelto il Padre fino a morirne lui stesso, per ristabilire la verità originaria. Perché Dio non è il nemico dell’uomo: lo ama fino al suo rifiuto di amare, per ridargli la sua libertà iniziale, e, più ancora, mirabilius reformasti.

L’adorazione eucaristica perpetua, inaugurata da madre Mectilde nel 1653, nel cuore stesso della Fronda, ha voluto venerare il Cristo nel suo stato di vittima volontaria, di vittima di quella «Fronda spirituale» che è il peccato degli uomini. La fondatrice ha desiderato associare le sue figlie a questa oblazione, preludendo così a quel sacerdozio battesimale di cui ci parlerà il Concilio. Lo ha fatto in un contesto decisamente pasquale, per mostrare che la vita sgorga dalla morte. Si è molto ispirata al testo di Paolo che descrive ai Filippesi (cap. 2) la kénosi del Figlio di Dio che lo introduce nella gloria. Non ha quindi dimenticato la lode che è l’ultima parola di questa contemplazione. Ha visto nella Regola di san Benedetto la miglior guida per realizzare questo ideale.

2. Il serpente di rame mostrato, è anche, nel Vangelo di oggi, la messa in evidenza del dono del Padre. Perché il Padre non ha inviato suo Figlio senza il suo consenso trovando un comodo espediente. Ci ha fatto un dono «costoso», anche se ci è difficile immaginare il dolore nella pienezza divina. Un passaggio biblico può aiutarci a comprendere. Quando il re Davide apprende la morte del figlio Assalonne - aveva tuttavia proibito alle sue truppe di fargli del male - si mette a singhiozzare e a ripetere: «Figlio mio, Assalonne, fossi morto io invece di te!» (2 Sam 19,1). Tale è il cuore di un Padre anche se eterno.

L’adorazione eucaristica ci fa contemplare Cristo come il regalo più caro che il Padre abbia potuto farci, perché ama follemente l’uomo, sua creatura, e perché desidera fortemente vedere riannodarsi l’alleanza rotta. In questo senso, è il Padre che espone il Santissimo Sacramento per rivelarci la sua carità. D’altra parte, Gesù ce lo dice: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9). «Il Padre stesso vi ama» (Gv 16,27). L’adoratore riceve quindi l’Ostia come un dono del ciclo. Esso lo inserisce in una celebrazione trinitaria. Gesù non ferma in sé la preghiera: la rinvia al Padre. Lui stesso, nell’Ostia, si comporta come un adoratore del Padre, madre Mectilde l’ha ben compreso. Non è cristocentrica in senso stretto, come se Gesù fosse un vicolo cieco: è invece rivolta verso la prima Persona della Trinità, come tutta la preghiera liturgica.

Madre Mectilde sa anche che la presenza divina supera i limiti del sacramento. È capace di adorare Dio in lei, nel più profondo della sua anima; di adorarlo nel prossimo e in ogni evento; di adorare soprattutto la sua volontà che è Lui stesso, abbandonandosi a Lui come un piccolo nulla. Prende quest’idea da san Giovanni della Croce e dalla Scuola Francese «esalarsi in pura perdita davanti a Dio». Vivrà questa volontà divina in un momento difficile, che l’ha fatta viaggiare di ordine in ordine e di luogo in luogo: Bruyères, Rambervillers, Montmartre, Caen, Parigi, Toul, Nancy.

3. Infine, il serpente di rame è il Cristo esposto ai nostri oltraggi. È il Cristo tra le nostre mani, per l’adorazione come per la bestemmia. Ecco perché madre Mectilde ha voluto che la sua Congregazione fosse riparatrice: adorare per coloro che non adorano o che usano male dell’Eucaristia. Non ha cercato unicamente la perpetuità della presenza, ma quella di un ministero ecclesiale, in un tempo in cui l’esistenza di una cristianità non impediva ai cristiani di comportarsi male verso il loro Signore. Nella stessa epoca, Gesù si lamenterà con Margherita Maria della freddezza incontrata nelle stesse anime consacrate. La riparazione quindi non è un atteggiamento farisaico in cui dei cuori ferventi si gloriano di essere migliori degli altri: suppone l’umiltà di san Paolo quando dice (1 Tim 1,15): «Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori dei quali il primo sono io». L’adoratore sa di essere sempre un po’ pubblicano, perché anche il pubblicano prega, e in modo giusto: «Signore Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore». L’adoratore non pianta in asso la Redenzione mettendosi ai margini: si immerge nel piano di Dio per trascinare gli altri dietro di sé. In ogni modo, «a chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto» (Lc 12,48). All’inizio del secolo, Léon Bloy scherniva «quelli che si adorano davanti al SS. Sacramento». La vera adorazione è decentramento di sé, esposizione di sé all’irradiamento della Misericordia.

Scopriamo così sorelle, i tre significati della parola consegnare in san Giovanni. Cristo si consegna, ed è l’oblazione. Il Padre ce lo consegna, ed è il dono. Giuda lo consegna, ed è il tradimento. Il mistero della Redenzione è fatto di questi tre attori e di questi tre significati.

Care sorelle, che siete per vocazione particolarmente consacrate all’adorazione eucaristica, nutritevi incessantemente di questo adorabile dono del Signore. «L’Eucaristia è il sacramento della carità, ne è la figura e la sorgente», scrive san Tommaso d’Aquino. L’Eucaristia è un dono, è un cibo, è una presenza, una promessa. Non si può avere un’idea, anche elementare, sull’Eucaristia senza capire che essa è anzitutto amore e sorgente di carità. Nulla più di questo sacramento potrà mai stimolarci ad amare Cristo, ad amare Dio, ad amare i fratelli.

Allora, care sorelle, continuate sempre più il vostro ministero di adorazione. Dopo aver subito un grave abbandono durante la crisi della Chiesa, questa pratica che comunque non è mai cessata, ritrova oggi un di ritorno fervore nelle nuove comunità e i giovani ne sono appassionati, anche nelle notti di pellegrinaggio. È alla presenza del Santissimo Sacramento che la maggior parte di loro scopre o piuttosto accoglie la propria vocazione. Anche i bambini sono associati a questa forma di preghiera, soprattutto quelli che si incaricano di chiedere a Dio dei sacerdoti, religiosi e religiose. Sentitevi assorbite in questo slancio di fervore, e siatevi in esso come trascinatrici e custodi.

Amen.

 



[1] Mons. Tagliaferri è nativo di Alatri (N.d.R.)